8. addii

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Il tempismo è una di quelle cose che nessuno azzecca mai nelle relazioni. Incontriamo la persona dei nostri sogni il mese prima che questa parta per studiare fuori. Stringiamo un saldo legame con qualcuno di estremamente attraente che è già impegnato. Una relazione finisce perché un partner non è pronto per impegnarsi seriamente mentre l'altro non desidera che rendere le cose ufficiali.
«Sarebbe stato perfetto» mormoriamo ai nostri amici «se solo fosse stato cinque anni fa/ otto anni dopo» o qualche tempo non identificato nel futuro dove tutti i nostri problemi non sono svaniti, bensì solo posticipati.
Il tempismo sembra essere il terzo fattore invariabile in una relazione, che ha sempre l'ultima parola.

Il tempismo è un figlio di puttana. Già. Ma solo se glielo permettiamo. Infatti c'è una cosa importante che dovremmo capire tutti: le persone incontrate nel momento sbagliato, non sono state incontrare nel momento sbagliato, erano solo le persone sbagliate.
Non si incontrano mai le persone giuste al momento sbagliato, perché le persone giuste lo sono per sempre.

Ivar l'aveva capito troppo tardi che Emma era la persona sbagliata, ma forse l'aveva saputo fin dall'inizio nel profondo del sul cuore.
L'aveva capito quando le toccava i capelli e si sforzava di farle i complimenti non perché poi volesse ferirla, ma solo perché gli piaceva come arricciava il naso mentre sorrideva, mettendo in vista il suo canino sporgente, e voleva che al posto di quei denti storti e un po' ingialliti ci fossero i suoi, bianchi e perfetti; al posto dei capelli ricci e bruni, che lasciavano immaginare una di quelle bellezze mediterranee, voleva i suoi castani chiari, quasi biondi.

C'aveva provato lui, ad amare. Ad amarla.
Emma gli aveva detto «Noi rispondiamo solo all'amore che sentiamo di poterci permettere e finiamo soffrire per colpa sua. Poiché riflettiamo le nostre speranze, passioni, paure e insicurezze su chi è accanto a noi, cerchiamo di risolvere la vita del nostro partner prima della nostra. Vediamo l'amore come una prigione e crediamo che abbandonare ogni speranza per qualcosa di migliore sia l'unico modo per sopravvivere. Le aspettative aumentano solo il dolore» e gli aveva fatto male quando si era accorto di aver fallito, perché lui ce l'aveva messa tutta, ma Emma non era abbastanza e non riusciva ad amarla.
L'avrebbe accettato passivamente, l'avrebbe lasciata quella sera, dopo il lavoro; ma non l'avrebbe fatto con cattiveria, no. L'avrebbe fatto per amore, perché non voleva vederla soffrire per lui, perché forse Ivar era quasi guarito, non percepiva più l'urgenza di uccidere gli altri per sentirsi vivo.

Le cose non andarono esattamente così però.
Emma glielo disse schietta. Dopo aver finito di lavare i piatti, con le mani ancora immerse nel lavello pieno di schiuma.
«Sono incinta»
Ivar non la prese bene.
Nemmeno un po'.
«Mi hai assicurato di star prendendo la pillola»
«Me ne sono dimentica»
«Come puoi dimenticarti una cosa simile?» urlò.
«L'ho fatto» replicò lei, tranquilla.
«Hai intenzione di tenerlo?»
«Sì»
Silenzio.
«Non mi starai mica lasciando vero?» domandò ingenuamente, osando spezzare quella strana calma che si era creata per pochi secondi.
«Volevo già farlo. Ora ho un motivo in più» replicò accendendosi una sigaretta e passandosi la mano festa tra i capelli tirati all'indietro, sporchi di gelatina.
«Non fumare vicino a me, lo sai che fa male ai bambini»
«Può anche morire per me, quella cosa»
Ad Emma si gelò il sangue e si sfiorò la pancia, come per rassicurare il feto che portava in grembo. Era passato già un mese da quando se ne era accorta e non sapeva come dirlo ad Ivar. Ingenuamente aveva sperato in una sua reazione positiva, avrebbe voluto che la prendesse e che la baciasse, piangendo di gioia.
«È anche tuo il bambino»
«È mio, è vero. Ma non lo voglio»
«Ivar è un bambino. Come puoi non essere felice?»
«Perché non mi piacciono i bambini»
«È un dono»
«Non è un dono. È egoismo. Perché si fanno i bambini, ci pensi mai?
È il nostro inconscio che non vuole morire e si aggrappa disperatamente alla speranza che possa sopravvivere in un figlio. Perché appena nasce un bambino chiediamo "a chi somiglia?" Cerchiamo disperatamente di prolungare in ogni modo la nostra esistenza. Perché costringiamo i nostri figli a prendere la nostra strada, a seguire i nostri sogni? Vogliamo che essi siano tutto ciò che noi non siamo mai stati. I figli sono il simulacro fallito delle nostre speranze.
Io, tuttavia, sono una persona perfettamente realizzata, non ho bisogno di un figlio. Quando verrà il mio tempo, sarò pronto. Che venga anche ora!
Se tu hai intenzione di tenerlo, fa pure. Io non starò qui a vederti sprecare la vita dietro quella cosa, e di certo io non sprecherò la mia dietro un bambino che non ho mai voluto»
«Quando mi chiederà di suo padre, cosa mi aspetti che gli dica? Che l'ha abbandonato perché era uno stronzo egocentrico?» Emma strillò contro di lui come non aveva mai fatto prima e come aveva sempre desiderato fare.
«Digli ciò che vuoi. Anzi, digli di andare a letto con qualcuna solo dopo essersi assicurato che lei prenda la pillola»
«Sei un bastardo» sibilò a denti stretti.

Partì quella notte stessa, un'ora dopo quella discussione. Giusto il tempo di fare i bagagli, riprendere i suoi panni da casa di Emma e di tornare nel suo appartamento a Copenhagen nel quale non entrava da circa due settimane. Raccolse tutto ciò di cui avrebbe avuto bisogno in una valigia arancione, e mandò un messaggio a Vincent.
"Domani parto. Ho deciso di andare ad Utrecht, in Olanda. Vado da mia sorella. Non so quando torno. Manderò una richiesta di trasferimento per qualche museo nei dintorni. Mi mancherai."

Sara era all'aeroporto, seduta su una di quelle sedie scomode occupate dalle persone più disparate che aspettavano qualcosa.
C'era lei, accomodata malamente con le gambe divaricate fasciate da jeans consumati, che faceva passare prepotentemente la punta delle converse rovinate sul pavimento lucido. Arricciò una ciocca dei suoi capelli castani attorno al dito e sfiorò le sigarette che aveva in tasca, combattendo l'impulso di fumare, in quanto stava cercando di smettere ed erano circa diciotto giorni che non ne accendeva una.
C'era il ragazzo seduto accanto a lei, vestito elegantemente, che stringeva tra le mani un mazzo di fiori e i cui occhi si alternavano tra il tabellone dei voli e l'orario, come se stesse aspettando impazientemente l'arrivo di un volo, magari quello della sua ragazza.
C'era una coppia di anziani seduti davanti a lei, che si teneva le mani e si accarezzava la pelle rugosa e nera, guardandosi negli occhi con la stessa scintilla di passione che un tempo ardeva dentro di loro. I capelli della donna erano ancora riccissimi, ed erano raccolti per metà in una di quelle sciarpe larghe, che ne lasciavano fuori un'ampia ciocca, e che Sara avrebbe sempre voluto indossare ma non aveva mai avuto il coraggio- o la voglia- di comprare.

Era preoccupata per quest'improvvisa visita di Ivar. Erano passati tre anni dall'ultima volta che si erano visti, ma aveva un ricordo felice di quell'incontro che si consumò proprio nell'appartamento di Ivar a Copenhagen. Le mancava particolarmente la sua città, da quando aveva sposato Edward e si erano trasferiti ad Utrecht dopo che entrambi erano stati trasferiti lì a causa del lavoro.

Camminava lento, come sempre. Con la valigia arancione trascinata elegantemente, mai come se fosse un peso, ma piuttosto un accessorio che ne risaltava la bellezza. Con gli occhi blu che scrutavano la gente attorno a lui e che si fermarono per un attimo sulla figura snella della sorella, che gli corse in contro non appena lo vide.
«Mi sei mancato così tanto» le braccia di Sara erano attorno al suo collo, strette. Lui le teneva i fianchi, e le baciò la testa.
Sua sorella era l'unica persona per la quale nutrisse un vero e proprio affetto, e la stessa cosa valeva per lei che era conosciuta per il suo carattere cinico e scontroso che tuttavia si scioglieva non appena incontrava il fratello.
«Andiamo, sarai stanchissimo, ormai è passata la mezzanotte» disse e si incamminarono assieme, dopo che lei ebbe mandato un'ultima occhiata alla coppia anziana di prima, che abbracciava una ragazza con la stessa capigliatura della donna; e al ragazzo in giacca e cravatta, che stringeva tra le braccia una bionda alta e mingherlina, la quale lo stava baciando appassionatamente.
Sorrise.
Ci sono tante storie attorno a noi, e non avremo mai il tempo di ascoltarle tutte, però possiamo rendere la nostra degna di essere ascoltata. Si girò verso Ivar e si domandò quali capitoli avesse aggiunto alla sua storia in questi tre anni, e sapeva che le avrebbe raccontato tutto in auto.

«Edward ed Erik?»
«Edward sta bene, è felice di rivederti. Erik è cresciuto così tanto, adesso cammina da solo anche se barcolla ancora un po'» rise e Ivar si unì a lei.
Le raccontò poi di Astrid, di Andrea, di Emma, del matrimonio di Vincent e Sara ascoltava attentamente, era sempre stata consapevole del problema di Ivar ma non l'aveva mai ritenuto tale, anzi. A volte invidiava il modo in cui Ivar non si lasciava scalfire da nulla, in cui credeva sempre nelle sue capacità contrariamente a lei, che non perdeva occasione per sminuirsi.

Scesero dall'auto senza fare rumore ed Ivar richiuse la porta della stanza degli ospiti che gli avevano preparato, adagiando la valigia per terra. Sospirò e si stese sul letto, cercando di non pensare a tutto quello che stava succedendo e si addormentò con la consapevolezza che fino a quando avrebbe avuto sé stesso, avrebbe avuto con sé il mondo.

AYEEE.
Grazie per i voti e per il supporto, scusate se ci ho messo tempo ad aggiornare. Cosa credete che succederà? Alla prossima! 💙

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