II - Nel sottopassaggio

7 3 0
                                    



Cominciai a correre.

Era da tanto che non lo facevo. Da piccolo, quando ero ancora alle elementari, mi piaceva tantissimo. Sotto il sole, con il vento in faccia, la sensazione che i piedi quasi non tocchino terra, il rumore delle suole delle scarpe contro le piastrelle del cortile, le urla di incitamento dei miei amici e le raccomandazioni delle maestre — andate piano, bambini! — che ti spingevano ad andare sempre più veloce per poi fermarti solo a pochi metri dalla recinzione.

Mi piaceva sul serio. Mi sentivo il più veloce del mondo. Poi dalle medie non ho corso più tanto volentieri. Chissà, forse scoprire che c'erano ragazzi ben più veloci di me mi ha demotivato.

Anche al liceo facevo sempre il minimo indispensabile, e non solo in educazione fisica. Penso ciò dipenda dal fatto che la scuola serve a garantirti un futuro, e io guardando avanti non vedevo altro che buio; un buio spaventoso almeno quanto quello che incombeva sopra la mia testa.

In ogni caso, mentre correvo su quella strana terra rossa liscia come il vetro e soffice come la sabbia non c'era nessuno più veloce di me. Correvo e basta, senza pensare a niente, senza preoccuparmi né del Buio, né delle creature che ci si agitavano dentro.

Poi ebbi la prima Collisione.

Fu come andare dritto contro un vetro, o come quando al mare mi tuffavo dentro l'onda e sentivo l'acqua salata entrarmi in bocca.

Mi ritrovai in un sottopassaggio freddo ma ben illuminato. Qualche cartellone pubblicitario appeso alle pareti, pavimento lucido, un lieve odore di chiuso e molta gente che passava.

Per un secondo pensai di essere finalmente uscito dal Dopo, ma mi resi conto che anche se rimanevo immobile sentivo comunque i muscoli muoversi, un passo dopo l'altro, di corsa.

Non potevo essere fuori, e allora dov'ero? Ma soprattutto: cosa ci facevo lì?

Mossi qualche passo lungo il corridoio. Un paio di uomini d'affari in giacca e cravatta mi finirono addosso e si dileguarono senza voltarsi e senza chiedere scusa.

Ero sempre più confuso.

Poi lo vidi.

A metà circa del sottopassaggio c'era Bric. Non era esattamente come il Bric che avevo conosciuto. Il Bric del sottopassaggio sembrava più vecchio, più sciupato. Agitava avanti e indietro un braccio sopra il gomito dell'altro. Teneva gli occhi chiusi, la testa inclinata.

Non riuscivo a capire cosa stesse facendo.

— Mamma, mamma! Posso dare un soldo al signore? — una bambina, mano nella mano con la madre, guardava Bric con gli occhi sgranati e la bocca aperta come se stesse vedendo Babbo Natale in persona.

La signora strattonò la mano della bambina e continuò a camminare senza degnare Bric di uno sguardo. — No. — disse.

— Ma perché no?

— Perché quel signore ha qualcosa che non va nella testa, amore. Non lo vedi come si agita?

— Ma mamma, sta suonando il violino così bene...

Guardai la bambina lanciare un ultima occhiata a Bric prima di sparire con la madre su per le scale.

Mi voltai verso Bric e solo allora la sentii.

Una sinfonia. Dolce. Leggera. Malinconica. Improvvisamente allegra. Di nuovo triste.

Mi avvicinai a Bric. — Bric — dissi — dov'è l'altoparlante?

Bric sorrise continuando a tenere gli occhi chiusi — Non c'è nessun altoparlante, ragazzo. Non hai bisogno di certi aggeggi quando la musica viene da dentro.

— Ma non e possibile!

Bric socchiuse appena gli occhi e scosse la testa — Invece lo è. È possibile. Dovresti saperlo bene anche tu, no? Dopotutto suoni la chitarra, da quanto? nove, dieci anni? —

— Come fai a...

— Certe cose si sanno e basta, ragazzo. E poi ho visto i calli che hai sulle dita.

Ficcai le mani in tasca. — Ah.

— È possibile. Tutto è possibile. Ricordatelo.

Mi sentii risucchiato all'indietro e tornai nel Dopo. Il Rosso sembrava un po' più vicino, ma era ancora solo un puntino all'orizzonte.

CollisioniDove le storie prendono vita. Scoprilo ora