III - Moni

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Continuai a correre senza mai fermarmi. Non mi sentivo affatto stanco, anzi: più andavo avanti più mi sembrava di accelerare.

La seconda Collisione mi colse impreparato almeno quanto la prima.

Un odore rancido, di sudore e sporcizia e chissà cos'altro mi colpì come un pugno dritto allo stomaco. Crollai a terra con la sensazione di respirare rifiuti solidi invece dell'ossigeno.

Una cosa del genere non mi succedeva dalle elementari, quando facemmo la gita al centro di raccolta e smaltimento rifiuti. Ci portarono in un immenso magazzino dove veniva raccolto il compost derivato dall'umido. Montagne e montagne di terra.

Prima di entrare ci consegnarono delle mascherine e ci raccomandarono di metterle. Io non la misi. Entrai, inspirai e passai il resto del pomeriggio a vomitare. Dopo una settimana il fantasma di quell'odore che sembrava essersi incollato alla gola non mi aveva ancora abbandonato.

Dopo qualche minuto riuscii a respirare come si deve, seppur con la costante sensazione di essere sul punto di vomitare l'anima.

Mi guardai intorno e scoprii di essere in un grande stanzone dal soffitto piuttosto basso. La maggior parte dello spazio era occupato quelli che sembravano letti a castello in miniatura. A occhio e croce dovevano essercene un centinaio, tutti addossati alle pareti, in due file parallele una di fronte all'altra. Fra i letti si formava dunque un lungo corridoio alle cui estremità c'erano rispettivamente un portone di ferro e una finestrella sporca oltre la quale si intravedeva il cielo grigio piombo.

La stanza era silenziosa.

Strizzai gli occhi nella semioscurità e mi sembrò di distinguere cumuli di panni sporchi accatastati alla rinfusa nei letti.

Non mi piaceva, quel posto. Mi sentivo fuori luogo. Mi sentivo in pericolo.

Il portone di ferro sì aprì cigolando. Entrarono dei soldati in uniforme, i fucili spianati, gli stivali neri così lucidi da brillare.

Il più anziano dei soldati non aveva armi in mano. Solo un paio di guanti in pelle bianchi come la neve. Si sistemò il berretto sulla fronte, scosse la polvere dai vestiti e sorrise come se stesse assistendo a uno spettacolo di magia.

Un soldato in uniforme batté il calcio del fucile contro il portone — Schnelle! — urlò — Muovetevi...!

Non capii a chi stesse parlando. Mi sentivo come anestetizzato, sul punto di addormentarmi. L'odore di rancido e di escrementi che impregnava l'aria era a mala pena mitigato del vento freddo che entrava dal portone spalancato. Avevo la nausea e mi girava la testa.

Sentii qualcosa muoversi alle mie spalle. Mi voltai.

Urlai.

Lo so che non avrei dovuto, ma urlai.

Urlai mentre quelli che mi erano sembrati cumuli di stracci si agitavano, strisciavano fuori dalle cuccette per allinearsi in due file, faccia contro schiena, su un lato del corridoio.

— Spogliatevi! — gridò il soldato più giovane.

Uomini e ragazzini cominciarono a togliersi camicie e pantaloni nel più assoluto silenzio, rotto soltanto dallo scricchiolare degli stivali dei soldati.

Nessuna delle foto, nessun filmato, nulla di ciò che avevo visto sui campi di concentramento nazisti avrebbe potuto prepararmi a ciò che stavo vedendo con i miei stessi occhi.

La pelle quasi trasparente sembrava riuscire a stento a tenere insieme le ossa del petto, del bacino, del cranio, delle gambe, delle braccia. La pelle, le ossa, gli sguardi spenti e persi nel vuoto.

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