Occhio non vede

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Un'altra fredda mattina era iniziata. Il sole faceva pigramente capolino da dietro l'orizzonte, tingendo la Valle delle Guglie dei colori dell'alba. Era il 36 febbraio dell'anno 641 della Sesta Era, ed Eden Qasith sbadigliava nel suo letto, intimando al tempo di tornare indietro di mezz'oretta, almeno.

Gli piaceva parlare in terza persona, come se ci fosse qualcuno a guardarlo e narrare le sue memorabili gesta, come ad esempio alzarsi la mattina. Insomma, non avevo dormito neanche sei ore...

Scrutai la sveglia socchiudendo gli occhi per la luce. Ore sette e quindici minuti. Mi ricacciai sotto le coperte, senza avere la forza di mettere piede sul pavimento gelido.
Ancora non avevo idea di come quel giorno sarebbe sempre rimasto impresso nella mia memoria.

Mia madre mi gridò di alzarmi, e alla fine, con uno sforzo disumano, abbandonai l'invitante giaciglio. Colazione, doccia, denti, pulizia e bisogni, vestiti, zaino, maschera da respirazione ed ero fuori casa.

Il cielo era coperto, e un forte vento soffiava per il viale, sollevando polvere, immondizia e foglie. Ne afferrai una al volo. Era secca e marrone, il bordo accartocciato verso l'interno e i margini taglienti. Mettendola controluce, riuscivo a vedere le venature ramificate correre dal picciolo alla punta. Eppure, nonostante l'inganno fosse riuscito così bene, sapevo che quella foglia non era nata dall'albero in maniera naturale. Era frutto dell'intenso lavoro di una moltitudine di operai, che ne avevano intrecciato le venature sintetiche, tessuto la superficie inorganica, scolpito la forma perfetta.

La strinsi con un accenno di forza in più, e sentii il flebile rumore delle fibrille pseudo-biologiche che si spezzavano; un attimo dopo, nella mia mano vi erano solo briciole. Ripresi il cammino, a passo più sostenuto, sentendo montare dentro di me una rabbia che mi parve ingiustificata.

150 metri, destra, 810 metri, sinistra, 640 metri. L'edificio che ospitava la 31esima scuola superiore della casta del Bue era parallelepipedico, semplice, punteggiato da finestre e balconcini tutti paralleli e identici tra loro. Un cortile di cemento, ornato solo da qualche panca, lo circondava, e oltre questo un cancello scuro lo divideva bruscamente dai condomini circostanti. Eppure, a suo modo, era particolare: si trovava in una zona abbastanza distante dal centro di Demacia, per cui le pareti in hexium e fibra metavitrea non avevano ancora soppiantato completamente le vecchie costruzioni di cemento, acciaio e mattoni. Per questo la scuola si ritrovava coperta in parte dai vecchi colori della Quinta Era, in parte dai nuovi della Sesta.

Entrai nel cortile affollato, cercando di farmi strada tra la gente.

Gli studenti si agitavano, chiacchieravano e mangiavano, come una colonia di insetti. In mezzo a quella ressa, cercai delle facce familiari.

Adster Bown era seduto su una panchina insieme a dei ragazzi più grandi, a fumare. Gli rivolsi un cenno di saluto. Non ricambiò.

Jale Tyles rideva con i suoi amici della seconda divisione. Ci scambiammo un cinque e proseguii.

Dee Kuth era abbracciata al suo ragazzo. Feci finta di non vederla.

E poi altri volti conosciuti, compagni di corsi, di palestra o incontrati alle assemblee. Ma nessuno di abbastanza vicino per poterci parlare serenamente, senza dovere recitare una parte o fare battute sulla meteorologia. Continuai a guardarmi intorno, in cerca degli unici che avevo voglia di reincontrare.

E, alla fine, eccoli arrivare: Rylee Funtane e Martin Eupher, i miei migliori amici.

Rylee era più piccola di noi, sia di età che di altezza. Aveva 16 anni, un metro e un tappo di statura, un viso bambinesco, dei capelli biondo-arancione sempre arruffati e una spruzzata di lentiggini sul naso. Un sorriso malizioso e due occhi color nocciola erano la ciliegina sulla torta del suo corpo da favola su cui, lo ammetto, spesso avevo fantasticato. Le sue forme erano meravigliose.

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