UNO: Mando due ragazzi in ospedale per sbaglio

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Ho sempre pensato di non essere del tutto normale, ma è tipo da qualche mese - o anno? - che ne sono più convinta che mai.
Comincerò  col parlare di me, della mia vita a New York. Oh, e come al solito, la mia dislessia mi fa dimenticare le "buone maniere". Cosa che io cerco assolutamente di evitare, ma se voglio scrivere un libro decente, non credo che se le prime righe fossero «Leggi sta cavolo di storia e non rompere le beneamate cose (che io non ho. Già. Sono femmina.)» la gente continuerebbe a leggere.
O almeno, non lo farebbe la gente normale.
Se siete pazzi, o pazze, come me, allora state leggendo il libro giusto. Ma vi avverto.
Qualsiasi sia la vostra pazzia, non mettetevi mai e dico mai a fare ciò che ho fatto io. Ho già rischiato di essere, tipo, uccisa, mangiata viva, affogata, eccetera eccetera.
Beh, se state ancora leggendo, bene.
Avete le pa- cose. Mio padre mi una volta mi ha detto che, anche se non mi piacciono le buone maniere - e credetemi, non piacciono nemmeno a lui - devo usarle, qualche volta.

Ma vabbe, sono dettagli insignificanti e sto solo perdendo tempo.

Dunque.
Mi chiamo Karen Eaton. Dodici anni.
Vivevo a New York, con mia madre e il suo fidanzato. Entrambi esseri disgustosi e puzzolenti. Fortunatamente io non ho preso la puzza da mia madre.
Avevo i capelli neri e lunghi e gli occhi rossastri/giallognoli.
Mio padre .. Mio padre era morto. Mia madre a volte mi raccontava qualcosa di lui. Ma di solito diceva sempre e solo cose vaghe.
— Lui... era un bell'uomo. Giovane, bello, ehm, molto energico. E... ribelle. Sì, possiamo dire così. Però morì.. Sì, morì in un viaggio in aereo... proprio due mesi prima che tu nascessi. — diceva sempre mamma.
E poi attaccava con i soliti discorsetti su di me.
— E poi tu sei nata. La peggiore cosa che potesse succedermi in quel momento. Avevo inutilmente sperato che morissi subito. Mi avresti evitato un sacco di sofferenze... per di più sei dislessica. Sei turbata da qualche cosa che non funziona nel tuo cervello. Sei una ragazzina incapace e soprattutto egoista. Io ho fatto tanti di quei sacrifici per te... — poi io uscivo dalla stanza in cui eravamo, oppure uscivo direttamente di casa e andavo in città.
Odiavo mia madre. Mi dipingeva... con degli aggettivi molto coloriti. Aggettivi che una madre normale non avrebbe mai usato con propria figlia.
Oh, qui c'è mio padre che mi dice che posso usare quei termini. Bene. Non vedevo l'ora di usare questo... linguaggio colorito.
Sì, insomma, mia madre poi finiva sempre col dire: — Sei solo una piccola stronzetta! Bella cosa sputtanare me e il tuo patrigno! Noi che abbiamo fatto tanti sacrifici per te! —
Che poi, questi sacrifici, erano più che altro spendere due soldi per l'iscrizione a scuola e per le lezioni private di arti marziali.
Sì. Facevo arti marziali.
Mi insegnava un istruttore esperto, il signor... Cruiser.
Dimenticavo quasi di dirvi che soffro di momenti di deficit dell'attenzione, quindi se non ricordo esattamente il nome di una persona... sappiate che è normale.

Quel giorno decisi di uscire di casa sbattendo per bene la porta, dopo la solita ramanzina da parte di mia madre.

— Che piccola insolente — aveva borbottato il mio idiotrigno, quando uscii di casa.
Arrivai fino al negozietto a 100 metri da casa mia. Irruppi nell'ufficio del proprietario, un certo signore che mi conosceva bene.
— Il solito? — chiese lui sbuffando appena entrai.
— Il solito. — esclamai. Beh, per meglio dire, ringhiai. Perché avevo un modo tutto mio di essere socievole.
Dopo un minuto e quarantatre secondi mi ritrovai in tasca un pacchetto di sigarette e un paio di soldi in meno.

Lo so, lo so. Fumare a dodici anni fa tutt'altro che bene. Però mi piace fumare.
Oh, e so anche che il fumo provoca dipendenza, che se continuo così mi ritroverò con i polmoni irreparabilmente danneggiati entro i venti anni...
Mala volete sapere una cosa? Chissenefrega.

Adesso non fumo più, però a volte mi ritrovo con in mano una sigaretta senza accorgermene.

Insomma, a quell'età avevo una certa dipendenza per il fumo, ok? E non venitemi a fare le solite ramanzine. A quello ci pensano già gli adulti.

Arrivai fino a un vicolo buio vicino al centro della città. Era un vicolo cieco... il mio rifugio. In fondo c'era un cuscino adagiato sull'asfalto, un sacco da boxe appeso grazie a un filo d'acciaio e una dozzina di fasce pronte all'uso. Giusto se fosse arrivato un ipotetico giorno nel quale Erik e la sua banda mi avrebbe battuta.
Ma la trovavo - e la trovo ancora - una cosa molto improbabile.

Dopo pochi minuti, sei ombre mi raggiunsero. A capo della "gang" c'era il solito Erik, con un ghigno irritante.
— Quindi, vedo che le botte dell'altro ieri non ti sono bastate. E vedo che ti porti ancora dietro una folla — esclamai sfregandomi le mani.
Ci eravamo menati per tutto l'anno scolastico. Le prime volte, lui ha avuto la meglio, anche se di poco. Poi ho cominciato a vincere io. E mi ero abituata a sentire il suo corpo sotto di me, mentre io lo bloccavo sedendomi su di lui.

— Questa volta sarai tu a perdere — ridacchió Erik sgranchendosi le mani.
Lo guardai storto. Se c'era una cosa che non mi piaceva, quella era quando gli avversari si credevano più forti di me.
— Certo. Ora sbrighiamoci, ho voglia di un gelato — sbuffai.
Ed ora veniva la parte che mi piaceva di più. La lotta. I suoi amichetti si misero in disparte mentre parlottavano tra loro. Scorsi uno di loro indicare il sacco da boxe e parlare agli altri. Mi voltai leggermente verso il sacco.
— Dunque, ragazzina... cominciamo? — ringhió Erik.
— Non-chiamarmi-ragazzina. — sussurrai, in grado che solo lui potesse sentirmi. Lui sapeva che odiavo essere chiamata ragazzina. Sapeva praticamente tutto di me. Beh... un motivo c'era. Alle elementari eravamo molto amici. Poi, però, alle medie si è fatto la sua gang. E aveva cominciato a prendermi in giro. A offendermi. E siamo arrivati a fare a botte.

— Questa volta vincerai, Erik! — esclamò uno dei suoi amichetti lanciando un altro sguardo al sacco da boxe.
"Ma certo.. avrei dovuto immaginarlo" pensai quando notai che il filo che lo teneva su era stato semi tagliato.

Erik cercò di darmi un pugno sul torace, ma io lo schivai saltando all'indietro. Quindi lui ritentó, mirando alla testa. Indietreggiai e mi abbassai per poi tirargli un calcio ben angolato in pancia. Lui si inginocchió per qualche secondo a terra, poi fece come per dai un altro pugno. Lo schivai, trascinai Erik dietro il sacco da boxe e lo presi per la gola.
I suoi amichetti corsero verso di lui. Proprio come speravo. Quando erano praticamente sotto al sacco da boxe, io lo sganciai. Due di loro erano rimasti sotto al sacco e adesso erano spiattellati a terra come una frittata. Lasciai andare Erik, poi corsi verso le altre vie della città.
Presi un gelato.
Dopo dieci minuti, scorsi un'ambulanza che andava verso il mio vicolo cieco.
Rabbrividii.
Dopo pochi minuti, Erik e la sua gang erano usciti. I due che erano stati messi sotto dal sacco erano su delle specie di sedie a rotelle. Dovevano essersi fatti davvero male alla gamba.
— Chi è stato? — sentii chiedere da un medico.
— U..Un uomo. Era... bendato. Non l'avevamo mai visto né sentito. — mentì Erik.
"Ma certo." Pensai "Se dicesse che sono stata io, nessuno gli crederebbe. E poi, sarebbe come ammettere che una ragazza lo ha battuto".
Tuttavia decisi di andarmene dal di lì, perché se Erik mi avesse visto avrebbe potuto cambiare idea sul mentire. Stavo entrando in casa, e nel mentre vidi un'auto della polizia dirigersi sempre nel vicolo cieco.
Lì c'erano il sacco e il cuscino. Mi avrebbero trovata molto presto, se avessero fatto delle iindagini.
Potevano trovare le impronte digitali.
Corsi in casa. Lì c'erano le due persone più odiose del mondo, ma almeno nessuno poteva incolparmi di nulla.
— Dove sei stata? — chiese con fare sospettoso il mio idiotrigno.
— Ho preso queste — dissi lanciando il pacchetto di sigarette sul tavolino — e mi sono presa un gelato.
— Mhm-mhm.. — borbottó lui, prendendosi le sigarette. Andai in camera mia. Disordinata, come al solito.
— Oggi l'hai scampata bella. —
— Signor Cruiser?! — esclamai sorpresa. Era il mio istruttore privato di arti marziali. Che ci faceva in camera mia?
— Volevo solo... ricordarti, che non devi dare corda a quei ragazzi. — disse lui.
— Ma... Mi piace. — mormorai.
— Chi? — chiese lui.
— Non chi, ma cosa.. mi piace fracassarli di botte. E ora puoi anche guardarmi male. Però, davvero. Mi piace fare la lotta. — continuai.
— Karen... — mormorò lui.
— Ora, puoi andare? — borbottai. Lui aggrottó la fronte e sospirò.
— Va bene. — disse uscendo da camera mia — Ci vediamo domani, Karen.
E chiuse la porta dietro di sé. Sentii di nuovo un vuoto nello stomaco. Lo avevo... deluso. Sì. Sembrava proprio deluso.

La figlia del dio della guerra - Percy JacksonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora