MEISSA

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MEISSA

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MEISSA

Meissa dista 1060 anni luce dalla Terra. Il periodo migliore per la sua osservazione ricade nei giorni compresi tra fine ottobre
e aprile. È situata nell'emisfero celeste boreale, ma molto in prossimità dell'equatore celeste. Meissa è la stella doppia che corrisponde alla testa di Orione ed è chiamata la splendente, colei
che marcia con fierezza.

Capitolo 1
ARIZONA

AVRIL

Attraversai la valle desertica di Carson City, sino alla steppa di Tucson, in dodici ore di autobus. Mia madre non era riuscita a convincermi che salire su un aereo sarebbe stata la cosa più eccitante della mia vita.
Viaggiare tra le nuvole era come stare sospesa nel mezzo, tra terra e cielo, tra sopra e sotto e io, da qualche tempo, avevo deciso di abban- donare le mezze misure. Volevo lasciarmi dietro le mie insicurezze e imparare a scegliere con decisione.
Per questo avevo detto sì al tirocinio nel Campus di Tucson.
Affiancare il professor Hudson nel corso di Astronomia per tutto il secondo semestre era un'occasione che non potevo perdere.
Avevo concluso gli esami dell'ultimo anno con sei mesi di anticipo, il tirocinio mi avrebbe aiutato ad alzare la media scolastica. Il prezzo da paga- re sarebbe stato confrontarmi con ragazzi di pochi anni più giovani di me.
Non avevo ancora idea di come sarei riuscita a sedermi dietro una cat- tedra, a rivestire un ruolo così importante senza lasciarmi coinvolgere dai comuni interessi che mi avrebbero inevitabilmente legato agli studenti.
Non riuscii a trovare una posizione comoda per tutto il viaggio, avevo la schiena a pezzi, le ossa rotte e una ragazza accanto che non aveva al- cuna intenzione di smettere di parlare con l'autista.

Avril

Sconfitta, appoggiai la fronte al finestrino e studiai il paesaggio. Distese infinite di terra bruciata dal sole bucarono i miei occhi, poi prati punteggiati da pini di montagna, recinti di filo spinato, strade lunghissime. Tonali- tà di verde che sfumavano nel giallo, sino al rosso della sabbia del deserto.
Arrivai a Tucson alle due in punto. Mi alzai dal sedile più stanca di quando ero partita e, appena misi piede a terra, un caldo secco mi entrò sottopelle, i raggi del sole bruciavano e illuminavano ogni cosa.
In Nevada le estati erano torride, gli inverni piovosi, ma in Arizona il clima era più ostile, le temperature non scendevano mai sotto i venti gradi, la mia pelle pallida ne avrebbe pagato presto le conseguenze.
Legai i capelli e passai la mano sulla fronte sudata. La stazione degli autobus era affollata, nel piazzale i viaggiatori in partenza si muovevano da una parte all'altra, mi feci largo tra i passanti frettolosi, i gas di scarico degli autobus rendevano l'aria ancora più rovente.
Notai l'uomo di mezza età accanto alla biglietteria, teneva un cartello tra le mani, Avril Joanson, c'era scritto sopra. Sistemai il borsone sulle spalle e mi avviai nella sua direzione. Gli occhiali dalla montatura larga scendevano sulla punta del naso, gli occhi vispi si muovevano irrequieti: stavano cercando me.
«Si scrive Jonson.» Indicai il cartello con un sorriso approdando di fronte a lui.
«Ben arrivata allora, Avril Jonson.» L'uomo scandì il mio nome attento a non sbagliarne la pronuncia. «Io sono Hudson, Bill Hudson, e spero tu abbia fatto un buon viaggio.» Allungò la mano e con gentilezza mi incitò a lasciare mi aiutasse.
Era alto e robusto, la stazza importante si piegava di fronte all'espres- sione bonaria del volto.
«Lungo ed estenuante» ammisi, porgendogli il borsone.
Mi fece strada, lo seguii in silenzio sino all'auto e allacciai la cintura appena sprofondai sul sedile.
«Sei arrivata giusto in tempo, l ́ultima tirocinante se n'è andata prima di finire il periodo di prova» disse.
«Spero di essere all ́altezza» risposi insicura.
«Imparerai in fretta.» Hudson mise in moto e si avviò verso l'incrocio. Fuori dal finestrino la statale era una scia grigia e silenziosa, poche
auto la percorrevano. Il canyon tracciava una linea irregolare sull'oriz- zonte e il cielo era terso come non lo avevo mai visto prima.
Ci volle più di mezz'ora prima che arrivassimo a destinazione. Il Campus di Tucson era la più antica Università dell'Arizona, e le facoltà di Astro- nomia, Astrofisica e Archeologia erano tra le più rinomate della nazione.
I mattoni rossi dell'edificio centrale sposavano alla perfezione la ta- volozza cromatica dell'ambiente intorno, così come il ballatoio di legno sul fronte e l'ornamentale fontana piazzata sotto la scalinata d'ingresso.
Ero così elettrizzata che appena Hudson si fermò sul vialetto, aprii la portiera e mi drizzai in piedi per ammirare tutto quello splendore.
«Attenta!»
Un colpo forte sul petto anticipò il suono di una voce profonda. Finii a terra sbattendo la testa e, per un momento, ebbi la netta sensazione di poter perdere i sensi.
«Ti sei fatta male?» Due occhi di un azzurro intenso mi guardarono dall'alto frapponendosi tra me e una nuvola nel cielo.
«Andrew!» Il professor Hudson scese dal posto di guida e osservò il ragazzo piegato su di me.
«Si è buttata sulla pista ciclabile senza guardare!» si giustificò il ragazzo aprendo le braccia nell'aria.
«E tu cosa ci fai su una pista ciclabile senza la bicicletta?» Hudson mi aiutò a rimettermi in piedi. «Tutto bene?»
«Tutto bene» annuii, portando la mano dietro il capo.
Un dolore pulsante mi stringeva le tempie, la luce parve improvvisa- mente insostenibile allo sguardo.
Il ragazzo sbuffò e un ciuffo di capelli ricadde sul viso scintillando sotto i raggi del sole, il taglio affilato degli occhi ricordava lo sguardo pungente di un animale selvatico. Sembrava scocciato per l'imprevisto in cui si era imbattuto.
«Stai di nuovo violando le regole del Campus, Moore!» Hudson indicò lo skateboard capovolto a terra, una ruota girava ancora emettendo un lieve ronzio.
«Ha le ruote e funziona a spinta» lo freddò lui sostenuto.
«Ma non ha un freno. Non puoi circolare con quello sulla pista ciclabile.» Hudson portò le mani ai fianchi e indurì i tratti gentili del volto. «Accompagnala in infermeria. Parcheggio, scarico i bagagli e vi raggiungo.»
«Non posso!» Una smorfia impertinente sformò i tratti del volto di Andrew.
«E invece puoi, Moore! Non è una richiesta, ma un ordine.» Hudson non sembrò avere alcun dubbio sulle sue ultime parole.
«Non è necessario.» Tentai di restare in equilibrio sulle gambe, ma vacillai incerta.
«Riesci a muoverti senza cadere?» L'insolenza nel tono di voce di Andrew mi punse come una spina sulla pelle nuda. Raccolse lo skateboard da terra, lo portò sottobraccio e si allungò per sorreggermi.
«Posso provarci» mormorai.
«Allora provaci bene» sibilò, poi si avvicinò, mi cinse i fianchi con il braccio e si incamminò sul vialetto sostenendomi. La pelle ambrata emanava un profumo pungente, gli occhi allungati erano due zaffiri in- castonati sul volto perfetto. La mandibola spigolosa, appena contratta, insinuava una nota ruvida in tutta quella disarmante bellezza.
«Moore!» strillò Hudson alle nostre spalle.
«Professore?» Andrew non si voltò.
«Non combinare qualche altro guaio.»
«Sarà fatto professore» sussurrò scuotendo il capo, «sarà fatto.» Attraversammo il campo da football, costeggiammo l'edificio centra-
le ed entrammo dalla porta di sicurezza sul retro. Andrew evitò il mio sguardo per tutto il tragitto mantenendo la stessa espressione poco ami- chevole. L'infermeria era in fondo a un lungo corridoio, ci fermammo di fronte alla porta chiusa.
«Ha attraversato la pista ciclabile senza guardare» disse sostenuto quando il medico aprì.
«Sì, qualcuno ha deciso di percorrerla con uno skateboard malgrado i divieti appesi ovunque.» Non mi lascai intimidire dalla provocazione.
Mi liberai dalla sua presa e mi accomodai sul lettino.
Il medico mi fece le solite domande di routine, mi puntò una luce negli occhi e mi chiese di passeggiare avanti e indietro con la schiena dritta. Tentai di assecondare le sue richieste, ma per quanto mi sforzassi di restare concentrata, tornavo sempre a fissare il ragazzo che mi aveva trascinato in quell'assurda situazione.
Il mio arrivo a Tucson non presagiva buone cose.
Appoggiato allo stipite della porta, Andrew spingeva le mani nelle tasche dei pantaloni e aveva l'aria di chi avrebbe voluto essere da tutt'altra parte.
La maglietta nera gli ricadeva sui fianchi, l'espressione cupa cela- va qualcosa di profondo, i lineamenti ruvidi sembravano tagliare ogni sguardo desideroso di appoggiarsi su quel viso impeccabile.
«Eccomi.» Hudson entrò nella stanza accaldato.
Andrew si sistemò lo zaino sulle spalle e si voltò per uscire.
«Moore!» Hudson lo bloccò.
«Cosa c ́è ancora?»
«Ti voglio a lezione in orario domani mattina o ti spedisco di nuovo
in presidenza.»
Sentii la tavola sbattere a terra e le ruote scivolare con fermezza sul
pavimento: era la risposta ribelle di uno che non era abituato a sentirsi dire cosa dovesse fare.
«E non puoi girare con quello dentro la scuola!» Il rimprovero non ricevette replica. Hudson mosse un passo verso il corridoio, poi mi raggiunse tentando un sorriso.
Uscii dall'Infermeria con una scatola di antidolorifici tra le mani e un tremendo mal di testa con cui fare i conti.
Il Campus era un labirinto di stretti vialetti. Cartelli con infinite direzioni campeggiavano a ogni incrocio, il campo da football divideva l'edificio centrale dai dormitori, le enormi finestre della mensa erano allineate per tutto il primo piano dell'edificio B, la biblioteca e le aule studio erano invece relegate al secondo.
Brittleblush dai fiori gialli spuntavano ovunque, insieme a nidi di cactus pieni di spine e frutti rossi.
Gruppi di studenti erano sdraiati su ritagli d'erba delimitati da aiuole curate, le panchine lungo i vialetti avevano le tavole arse dal sole, la vernice reggeva a stento alle alte temperature. I professori attraversavano i sottili sentieri ricoperti di ghiaino passando da uno stabile all'altro.
Seguii Hudson sino alla Segreteria con la pelle in fiamme e un tremen- do mal di testa.
«Avril Jonson, tirocinio di sei mesi nel corso di Astronomia» disse alla donna con i capelli bruni seduta dietro alla scrivania.
«Se ne andrà presto come l ́altra?» La donna appuntò il mio nome sul cartellino recuperato dal cassetto e lo consegnò al professore.
«Se ne andrà quando sarà il momento.» Hudson la ammonì con uno sguardo severo prima di tornare su di me. «Dovrai alloggiare al dormitorio della scuola sino a quando non troveremo un'altra sistemazione.»
Mi invitò a seguirlo procedendo verso la scalinata che portava al piano superiore.
La scritta Dormitorio Femminile era di fronte all'ingresso di un lungo corridoio, le pareti, tinteggiate di un arancio pastello, erano adornate da bacheche in sughero con affissi volantini di ogni tipo, le porte delle stanze erano numerate in successione.
«Mantieni un certo distacco dagli studenti, so che non sarà semplice vista la tua età, ma l'esperienza in una scuola come questa ti aprirà un sacco di porte in futuro, Avril.» Hudson si fermò di fronte alla stanza numero undici e sventolò nell ́aria un mazzo di chiavi. «Fai molta attenzione a queste, aprono porte che gli studenti non devono oltrepassare.» Il mazzo tintinnò cadendo sul mio palmo. «Ti aspetto per cena, la mensa apre alle sette in punto.» Sventolò la mano in cenno di saluto e ripercorse a ritroso il corridoio.
18Restai a guardarlo fin quando non scomparve dalla mia vista, mossi qualche passo su me stessa e annegai in un silenzio tombale.
Sapevo che la quiete non sarebbe durata a lungo, alla fine delle lezioni il dormitorio si sarebbe riempito di ragazze che sarebbero schizzate da una stanza all'altra sino a notte fonda.
Mantieni un certo distacco dagli studenti, pensai.
Non avevo la più pallida idea di come ci sarei riuscita.
Provai cinque diverse chiavi prima di trovare quella giusta, al sesto
tentativo la serratura scattò. Spinsi il borsone dentro la stanza e mi chiusi la porta alle spalle.
Studiai l'ambiente con attenzione. L'indaco scuro con cui erano sta- te dipinte le pareti assopiva la luce che entrava dalla finestra, residui di scotch erano rimasti sull'intonaco, qualcuno prima del trasloco doveva aver strappato dei poster appesi sotto le mensole. Il piano della scrivania era ricoperto di adesivi, la piccola libreria accanto alla finestra era stata del tutto svuotata e il letto a una piazza mi fece rimpiangere di aver ab- bandonato la casa dei miei genitori in Nevada.
Ispezionai il bagno e la vista della doccia mi fece venir voglia di disten- dermi, la botta presa nella caduta mi aveva indolenzito più del viaggio. Sospirai esausta massaggiando il collo e passai una buona mezz'ora sotto il getto d'acqua tiepida prima di decidermi a sistemare le mie cose.
La lampada a forma di luna che avevo deciso di portare rese più caldo e familiare l'ambiente, posizionai i libri sulle mensole della libreria dividendoli per argomento, poi sistemai i vestiti nell'armadio. Solo dopo aver svuotato il borsone mi decisi a riordinare gli appunti e le dispense degli ultimi esami che avevo dato, li avevo portati con me convinta che mi sarebbero stati utili.
Come previsto, il silenzio assaporato svanì lentamente e a pome- riggio inoltrato il dormitorio divenne un vero inferno. Sbuffai e mi arresi lasciando cadere la matita sulla scrivania, la concentrazione mi aveva abbandonato.
Le porte si aprivano per poi richiudersi sbattendo, passi concitati attraversavano il corridoio e una serie incalcolabile di voci femminili squittivano al di là delle pareti senza sosta.
Non potei fare a meno di chiedermi se la mia vicina di stanza mi avreb- be consentito di riposare durante la notte, o se tutta quella confusione era ciò che mi aspettava durante la mia permanenza a Tucson.
«Ron c'era, c'era Andrew e non sa cosa è successo?»
Quella domanda vibrò nell'aria proprio a un passo dalla mia porta. Andrew, ripetei a mente.
«Ron non c'entra con questa storia, non ha fatto niente.»
Non c'erano dubbi, quell'Andrew era Andrew Moore, riconobbi il piglio deciso della sua voce profonda.
«Ma c ́era,» ripeté di nuovo la ragazza con lui.
«C'ero anche io se è per questo, e anche Eddy. E c'eri anche tu, Meg!
Il fatto che Ron fosse lì non significa abbia fatto una cosa del genere.» La conversazione mi incuriosì, restai qualche istante in attesa, poi mi
alzai dalla scrivania e mi avvicinai alla porta.
«Ma che ti prende?» Andrew sembrava frustrato, contrariato. «Tu neanche ti immagini cosa provi Ron per lei. Ucciderebbe pur di proteggerla. Non dovrebbe neanche sfiorarti l'idea possa aver fatto una cosa simile.» Attesi la replica, ma Meg non disse una sola parola, il tonfo dello ska- teboard che sbatteva a terra mi fece allontanare di scatto dalla porta. Le ruote scivolarono sul pavimento e la porta accanto alla mia stanza si aprì
per poi richiudersi subito dopo.
Non riuscii a trattenermi dal piegare la maniglia e sporgermi lungo il
corridoio, Andrew Moore virò con destrezza all'angolo in fondo e sparì dalla mia vista.

Il cielo sopra i tuoi occhi (Primo libro di #Arizona)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora