четыре

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«Amore, svegliati...» sussurrò al suo orecchio, prima di abbandonare il calore di quelle coperte, e del corpo fra di esse, per spalancare le tende. La flebile luce dell'alba illuminò la stanza in una bellezza quasi poetica, antica. L'organza del baldacchino creava giochi di colore sul volto del giovane, mentre le sue ciglia scure cominciavano a sfarfallare piano, preannunciandone il risveglio.
Non si stancava mai di contemplare quella creatura che a lungo, seppur incoscientemente, aveva bramato fino alla follia. Quante occhiate furtive aveva lanciato all'altro, di quante menzogne si era macchiato, ma ora era suo.
Sposto i suoi occhi sulle montagne, ora colorate di un delicato rosa pastello, che si andava pian piano a sbiadire, e le vette aguzze, durante la notte, dovevano essere state imbiancate da una nuova neve, benché fosse ormai primavera.
Avrebbe potuto avere tutto ciò, ma a quale sacrificio? Quanto sangue avrebbe macchiato le sue mani, quante notti senza di lui?
Aveva già errato, più volte. Ed il dolore era stato acutizzato, tutte le volte che aveva continuato a mentire, fino al punto dove la verità era così scontata che anche il più stolto avrebbe potuto capire. Le gocce del suo pianto avevano scavato le gote, arrossate al tempo da quell'inverno pungente, ed il suo incarnato sembrava potesse essere l'unico cosa a colorare quella distesa di neve.
Erano nel giardino delle rose, quale fiore insignificante, ma resistenze, con alcune premure. Ogni suono appariva quasi appannato, al contrario il bagliore era frastornante, nella sua eccessiva potenza, che pareva quasi dover bruciare. La brina ricopriva i fiori, i petali come le labbra di quello stesso ragazzo che giaceva ora nel suo talamo, sangue. Nessuna descrizione avrebbe mai potuto calzare tanto, per descrivere quella bocca. Quanto tempo, prima di riuscire ad averla...
Si erano imbattuti più volte in quello stesso luogo, fino a desiderare di farci l'amore senza pudori, come animali.
«Mi dispiace, io... Non lo avrei mai fatto di mia volontà. Lo sai, tu più di qualsiasi altro» era riuscito a tirare fuori, cercando di misurare le parole, di soppesarle, dopo ch'era riuscito finalmente a rivelare una menzogna di mesi.
Erano a conoscenza entrambi che tutto ciò poteva essere soltanto una mera illusione, all'epoca, un sogno, delicato come le porcellane opalescenti del servizio da tè della regina. L'altro si asciugò le gote, pur senza fermare il suo respiro affannoso, il movimento ansioso delle sue mani.
Quelle mani ora sfioravano dolcemente il gelido ferro battuto della testiera, il corpo che si allungava come quello di un felino, dalle movenze armoniose, accompagnate dal fruscio delle coperte - troppo sottili per la corrente di quella particolare mattinata.
Non erano tremanti come allora, dove il più grande aveva timore che potesse avere un malore, da un momento all'altro.
«Dovremmo smettere di vederci» mormorò, dopo quel silenzio spaccato solo dal suo stesso, irregolare, respiro. La sua voce era stata così flebile che a malapena l'udì, il nostro eroe. Quella sarebbe stata certamente la scelta più responsabile, nei confronti del giovane, ma per il più grande la sua presenza era diventata indispensabile, una fame insaziabile che poteva essere soddisfatta solo dall'altro. Una droga di cui era ormai irrimediabilmente assuefatto, ma era una dipendenza della quale non si sarebbe mai pentito. La volontà dell'altro, solo pochi mesi prima, era qualcosa che non considerava particolarmente, essendo nato a palazzo era abituato a poter avere a portata di mano tutto ciò a cui era interessato, fosse un oggetto, un animale o una persona.
Gli sfuggì un brivido. Per lui, aprire gli occhi, era stata l'unica possibilità. Non aveva potuto fare altro e, guardando indietro, non riusciva ad immaginare di poter prendere una decisione diversa, eppure a palazzo sembrava normale possedere una persona. Scambiarla in cambio di gioielli, addobbarla, darle da mangiare e, disdetta, quando la padroncina si dimenticava di avere qualcuno da nutrire.
Lui avrebbe potuto vivere alla stregua di un cane.

«Non sei tu quello che prende le decisioni» aveva ringhiato, a denti stretti, non facendo nient'altro che spaventarlo, portando ad un fiume di lacrime disperate, i singhiozzi - prima soppressi - che si liberavano, scuotendone il corpo minuto. Tutto ciò aveva scatenato una collera cieca in lui, e avrebbe voluto fargli del male, farlo piangere ancora, di un dolore fisico, seppur non sarebbe mai riuscito a superare quello viscerale del tradimento. Voleva vederne il sangue, del suo amore.
E lo vide. I denti, nivei, affondarono nella vita del ragazzo, indifeso contro il licantropo. Come una menade, squarciò la carne, dipingendo quel giardino, ma non le sue rose, quello non era il Paese delle meraviglie. Sentiva il calore disperdersi, così come la sua forza, tutto intorno a se, realizzando quanto quella rabbia insensata fosse letale, non solo per chi stava morendo davvero, stretto fra le sue braccia.
Sapeva che avrebbe nulla sarebbe stato dimenticato, mentre correva dalla regina, l'unica creatura abbastanza potente, a palazzo, da poter salvare la sua anima, il suo respiro.

E viveva, il suo respiro, il suo Elros, (nda: schiuma di stelle), e quella cicatrice frastagliata capeggiava sul suo collo come un tatuaggio, indelebile. Il peccato e la condanna del suo amato espressi nello stesso corpo, lì dove chiunque poteva vedere.

«A cosa pensi?» chiese, dolce, avvolto in una leggera vestaglia di seta dal disegno elaborato, imitando l'altro nell'affacciarsi ad osservare l'alba, quasi giunta al termine. Il cielo di un azzurro limpido, in una mattinata priva di foschia, dove le cime dei monti parevano potessero essere sfiorate, se solo ci si fosse sposti un poco.

«Penso a te, Elros» rispose, strappandogli un bacio a fior di labbra, e ringraziando la luna per avergli lasciato la sua stella, nonostante gli avesse procurato così tanto dolore.

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