VIII

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Come dovrei iniziare? Quali parole dovrei pronunciare? Ci sarebbero talmente tante cose da dire, ma ora non riesco a raccontarne nemmeno una.
Inizio parlando di me, non accennando di proposito a Severo. Gli racconto della mia famiglia, di mio padre con lo sguardo del quale non reggevo il confronto, di mia madre, che si chiudeva in se stessa, non si lasciava sottomettere, ma non faceva nulla per rendersi indipendente. Gli spiego che tra noi non c'era un buon rapporto, o meglio, non c'era un rapporto. Non mi sentivo libera di esprermi o di rivelare i miei segreti a loro. Non erano cattivi genitori, preciso. Semplicemente, erano altri tempi.
Gli dico che iniziai la scuola a sei anni, ovviamente, e che mi trovai a confrontarmi con miei coetanei. Mi rivelai una bambina scontrosa e l'unica persona con cui riuscivo a parlare era un bambino non troppo alto, alquanto minuto. Continuammo a parlare e parlare. Ogni volta che ci trovavamo insieme avevamo qualcosa da dirci, qualcosa da scoprire dell'altro. Si era creato un rapporto quasi di fratellanza, mi pareva di essere piú forte con lui accanto, come se si trattasse di un'anima divisa in due corpi. Con lui riuscivo a essere sincera come con nessun altro. Era, in realtà, l'unica persona con cui avevo un dialogo. Non so dire cosa di lui mi facesse sentire libera. Forse era il suo sguardo, che mi sorrideva sempre e la cui profonditá rifletteva e catturava i miei pensieri.
Non vivevamo nelle fiabe, però, e non tutto era meraviglioso. Lui era un ragazzo appartenente ad una famiglia di un ceto medio, mio padre, invece, era un ricco medico, tra i piú stimati del quartiere.
Egli non era contento della mia amicizia con lui e temeva che in futuro volessi sposarlo. Io, nel frattempo, ero diventata un'adolescente e, come tutti gli adolescenti, facevo e desideravo tutto ciò che i miei genitori non volevano per me.
Avevo quattordici anni quando iniziai a sentire un brivido guizzarmi dalla testa alla punta dei piedi non appena il mio amico mi si avvicinava. Evidentemente non riuscivo a nascondere tanto bene la mia timidezza, mi mostravo impacciata nei movimenti e sembrava che non ascoltassi le parole che altre persone mi rivolgevano. Non so se sia stato un bene, perché il nostro rapporto divenne meno intimo e provavamo vergogna quando ci parlavamo. Espongo la mia riflessione con un pizzico di amarezza e noto nello specchio che i miei occhi si incupiscono.
Credo che mio padre si accorse di ciò che stava succedendo. Allora mi chiedevo come facesse a intuire tutto, ma ora che mi trovo dalla sua parte e che ho visto crescere mio figlio, posso dire che il legame che unisce un genitore al cuore e alla mente del suo piccolo riesce quasi a farti percepire le sue sensazioni e leggere nei suoi occhi o interpretare le parole non dette, diventa estremamente facile.
Continuo a narrare il seguente anno della mia vita, di quando mi resi conto che anche lui provava quel brivido, di tutti i pomeriggi passati girando per il nostro quartiere, di quando lui cambiò voce e poi crebbe improvvisamente superandomi di dieci centimetri o più.
E poi arrivò il giorno in cui mio padre mi disse che dovevamo trasferirci. Ammetto di non ricordare molto di quel periodo, forse perché la nostra mente tende a cancellare i momenti in cui ci sentiamo piú affranti.
La mia memoria salta alla mattina in cui partii e in cui il mio amico mi salutò con un'elegante riverenza, rammento.
Da quel momento cambiai vita. Mi trasformai in una ragazza amichevole e presto mio padre mi presentò il mio futuro marito, il padre di mio figlio. Un ragazzo di una famiglia benestante, che parlava un italiano perfetto e vicino alla laurea. Perfetto, secondo lui. Ammetto di avergli voluto bene, molto bene, ma nella mia mente vagava sempre il pensiero del mio amico. Affondava nelle profondità dei miei ricordi fino quasi a scomparire, per poi riaffiorare improvvisamente. Avevo paura di dimenticarlo, gli rivelo, e trovai il modo per assicurarmi che non succedesse.
"Si chiamava Severo" dico "Come te".

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⏰ Ultimo aggiornamento: Sep 15, 2017 ⏰

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