~Capitolo 3~

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Tenni gli occhi sbarrati per quasi tutta la notte. Troppo silenzio mi urtava i nervi, ed i pensieri si diramavano, prendendosi parte del sonno che non arrivava, lasciandomi beare del nuovo giorno che incombeva lentamente, come a volermi agonizzare.
Portai le braccia incrociate, sotto la testa, fissando il soffitto, dove della muffa evidente data l'umidità, faceva capolino, come ad abbellire quelle mura quasi sgretolate.

Tastai nella tasca dei pantaloni, tirando fuori il biglietto con il numero di Matthew, che rigirai tra l'indice ed il medio, decidendo se chiamarlo o meno.
Ero tornato a respirare solo da due giorni la libertà.

Esalai uno sbuffo, prima di issarmi con un balzo dal letto, sentendo le molle scricchiolare pesantemente.
Mi avviai verso il bagno, dove la porta non vi era neanche, congiungendo le mani a conca, per lavarmi il viso e ridonarmi vigore, con la poca acqua che usciva dal rubinetto.
Mi strofinai i palmi sul volto, alzando lentamente lo sguardo, verso lo specchio quadrato e appena scheggiato agli angoli, fissando il mio volto.
La ricrescita della barba evidente, i segni dell'età appena accennati, sembrava fosse passato solo un mese. Non ero cambiato di tanto. I capelli castani più lunghi, formavano un ciuffo che mi ricadeva davanti agli occhi.
E le braccia ed il petto definito, ricoperto di inchiostro.
"Amico dopo tutto, sei ancora il meglio sulla piazza" mi lodai convinto da solo, cercando nel cassetto bianco lucido, delle forbici per sfoltire i capelli e la barba.
Alzai il mento, aggiustando e vedendo quei fili neri, cadere dentro al lavandino, ricoprendo quasi tutto il marmo, per annuire verso il lavoro finito. Certo non ero un cazzo di barbiere, ma quando si trattava di arrangiare, sapevo fare tutto. La vita mi aveva sottoposto a cose peggiori, cose che i ricchi di Miami non potevano comprendere, non potevano udire, neanche immaginare. No! Perché la vita con loro era stata giusta, non era stata una battaglia senza diritto di scelta.
Gettai con disprezzo le forbici nel cassetto, con un tonfo pesante, prima di sfilarmi i boxer neri, ed azionare dalla manopola, il soffione del box doccia, che invece di avere una cabina, aveva solo una tenda a fiorellini fucsia. Che cazzo ero una femmina?!?

Mi gettai sotto il getto d'acqua che scrosciava a picchi lenti, e rimbalzi come sassolini lanciati nell'acqua.
Sembrava da così tanto tempo che il mio corpo non veniva nutrito dall'acqua, che vidi nella piastrella di ceramica sotto i miei piedi, miscelarsi con il nero del mio corpo.

Uscii dal getto, frizionando il mio corpo con un telo, trovato dentro ad un cassetto, abbastanza lungo da coprire la mia nudità.
Scesi le scale, lasciando delle impronte con i piedi umidi, sul parquet usurato e trascurato, per andare verso il frigo.
L'unica cosa presente in quella cucina erano dei pensili di legno, ed un forno con sopra la piastra dei fornelli.
Aprii il frigo bianco consunto, che produsse un cigolio refrigerato, trovando dentro solo una bottiglia d'acqua ed una mela.

"Fanculo" borbottai, richiudendolo pesantemente, vedendolo oscillare appena, per la troppa forza che avevo ancora nelle braccia.
Stare in una cella, non era stata una delle migliori esperienze, e l'unica cosa che spazzava via i miei incubi presenti anche durante il giorno, erano le flessioni e gli addominali. Producevo endocrine, smaterializzando il dolore che nuoceva gravemente, più del tabacco.

Ritornai in camera, prendendo il cellulare e composi il numero di Matthew.
Dovevo uscire o sarei stato risucchiato dal buio che anche non volendo, era dentro di me, tessuto nelle fibre del mio essere.
Gli squilli iniziarono a riecheggiare nel mio udito, perdendo velocemente la pazienza, finché la voce calma di Matthew non presa vita dall'altro capo della line.

-Pronto?- trillò piano, e forse nel pieno risveglio, poiché avvertii il rumore delle lenzuola frusciare tra loro, ed uno sbadiglio cesellato.

-Matthew sono Rudy. È ancora valida l'offerta di vederci al Matador?- domandai beffardo, conoscendo già la risposta, che non tardò ad arrivare.

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