Mankind

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12settembre


Pioggia.Freddo. Il vento non smette.

È debole, ma questo non mi aiuta. L'acqua è gelida, ed il tempo pessimo. È quasi ironico che faccia troppo caldo per della neve;cade sciolta e non è meno fastidiosa.

Rimango appoggiato alle assi col capo riverso su di un sacco di sabbia caduto dall'alto, la cosa più vicina ad un cuscino che conosca. Ho sonno.Il mio stomaco si lamenta, ancora contratto da ieri; anche se mi sento meglio sono affamato.

Ogni volta che chiudo gli occhi sento qualcosa che non ho udito prima che mi tiene sveglio. Uno scalpiccio alla mia destra, un tintinnio alle mie spalle, passi di fronte a me.

L'acqua non smette di cadere. Il vento la spinge all'indietro, verso il rifugio. Mi inzuppa il volto ed il gelo la rende simile ad un'ustione diffusa. Dentro stanno riposando gli altri, ed hanno anche una piccola lampada. Leggerei se potessi accendere una luce qui fuori.

Non posso. Sono stanco, tuttavia non devo dormire. Alle mie spalle, i miei compagni dormono un sonno leggero. Chissà se sognano la loro casa, i loro figli, le loro mogli. Io di certo no. Ho ricevuto qualche lettera, ma non ho ancora risposto. Non ne ho avuto il tempo.

Mi strofino gli occhi e mi do qualche colpo sul viso per scacciare la sonnolenza e continuo a guardare fisso nel buio, di fronte a me.Nelle centinaia di metri di fronte a me non vedo nulla, solo qualche debole luce. Sono a duecentoquindici metri esatti, oltre mezzo chilometro di filo spinato e gli stessi duecentoquindici metri di crateri, cadaveri e silenzio.

Guardo il mio orologio: l'una meno dieci. Ancora dieci minuti e potrò andare a riposare, forse addirittura all'asciutto. Faccio scorrere l'otturatore del Mauser avanti ed indietro un paio di volte. Così,per noia. Con i guanti zuppi tolgo un po' di fango dall'elmetto e continuo a fissare la Terra di Nessuno.

«Konrad»sento chiamare alle mie spalle, mi giro e vedo un soldato fuori dal posto di vedetta. Dev'essere l'una. Mi alzo e gli vado incontro.

«Ben svegliato Hans»gli dico. Gli si legge in faccia che è stato addormentato fino a poco prima. Ha con sé una gavetta fumante. «Tè?» mi chiede,«Certo»

Mene verso un po' nella mia e lo sorseggio piano. È bollente e senza zucchero, ma è caldo ed al mio stomaco non può fare altro male.

«Torna alla retrovia. Gli altri sono riusciti a farne una pentola piena» ed indica la gavetta. Metto la sicura al Mauser e me lo metto a tracolla. «Grazie, buona fortuna» gli dico prima di andarmene.

Scendo dalla postazione e comincio a camminare col fucile a tracolla per la trincea. Affondo nel fango fino al collo del piede, e la pioggia non sta smettendo. Vedo molti altri uomini accucciati o seduti a terra,su delle travi o dei sacchi di sabbia per restare all'asciutto il più possibile. Molti parlottano. Vedo anche quel bavarese che intaglia un cucchiaio con la sua baionetta.

Supero la trincea di fuoco e svolto in quella di comunicazione. Una dozzina di ratti mi passa davanti smuovendo il fango ed i detriti. Una folata di vento mi investe e devo coprirmi il naso. Le latrine sono esondate di nuovo.

Cammino ancora, e dopo poco sono arrivato alle retrovie. Ho freddo e ancor di più fame quando arrivo al rifugio che ormai è la casa del reggimento. La porta è aperta - non che la si possa chiudere, da quando è stata divelta dall'artiglieria dei francesi - e vedo il bagliore sulla soglia. Entro.

Dentro gli altri stanno dormendo già da tempo; c'è caldo e vedo un paiolo sul fuoco che sta bollendo ed un uomo con una benda sulla testa. È Karl.

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