Capitolo 3

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Sto correndo da circa 20 minuti, ho il fiato corto e inizia a mancarmi l'aria. Non so precisamente dove io stia correndo ma so che qualcuno mi sta cercando. Qualcuno che conosco molto bene. Mi giro, guardandomi alle spalle e, anche se sembra che l'abbia seminato, so che non è così. Continuo ad avanzare all'unica velocità che riesco a raggiungere ma è come se non mi stessi spostando di un centimetro; davanti a me vedo sempre quella stessa porta aperta che non riesco a raggiungere. Ad un tratto, sento delle dita esili aggrapparsi alle mie spalle. Bruciano, come se le sue mani fossero artigli affilati che lacerano la mia carne. Mi giro e lo guardo negli occhi. È lui; i suoi occhi vitrei e grigi mi fissano nello stesso modo di quando lo vidi per la prima volta e la sua bocca si trasforma in un sorriso maligno a denti stretti. I capelli scompigliati, tipici dell'uomo ubriaco, non si muovono di un centimetro all'alzarsi del vento e il suo viso spigoloso sembra deformarsi a tal punto, da ricordarmi un qualche essere demoniaco descritto nei libri di Stephen King. Ha ancora le sue mani avvinghiate alle mie spalle, come la presa di un boa che trattiene la sua preda. Resto immobile anche quando si stacca e comincia a parlarmi.
- Stavolta eri quasi arrivata a casa. È un peccato che di mezzo ci sia quel "quasi". Ti ricordi come urlavi l'ultima volta? Tanto da non farmi compiere l'atto fino alla fine? Bene. Oggi rimedieremo.
Inizia a toccare il mio corpo, come se fosse il suo giocattolo preferito; parte dal viso, con una carezza (se così vogliamo definirla) che a me brucia come se fosse uno schiaffo. Continua, porta le sue mani sul mio seno e lo stringe con forza: penso di stare sanguinando. Prosegue, va sempre più in basso, percorre i miei fianchi, io non ho la forza neanche per muovere un singolo muscolo e l'uomo arriva finalmente al mio ventre, sbottonandomi i pantaloni. Li abbassa e inizia toccando le mutande. Sta per abbassare anche queste, fin quando un allarme assordante lo fa sobbalzare, dopodiché inizia ad urlare.
Mi sveglio di soprassalto, con gli occhi sbarrati e il respiro affannato. Mi giro verso il comodino, spengo la sveglia e mi tocco la schiena; sono completamente bagnata dal sudore. Mi spoglio e vado a farmi una doccia, non posso presentarmi così a lavoro. Mentre l'acqua scorre sulla mia faccia, ripenso all'uomo che dieci anni fa ha fatto di me la sua bambola del sesso. Quella maledetta storia era andata avanti per qualche settimana; ogni volta che uscivo da scuola, lui mi seguiva, mi sbatteva al muro e iniziava a fare di me quello che voleva. Il più delle volte puzzava di vino; altre, vedevo le sue pupille grosse quanto biglie penetrarmi la la mente, mentre intanto penetrava qualcos'altro. La prima volta tentai di fermarlo, tirandogli qualche pungo e un calcio nei testicoli ma lui era troppo forte ed io troppo debole. I giorni seguenti mi abbandonai all'idea che, se quello era il mio destino, non valeva la pena di lottare; smisi di provare dolore, cominciai a pensare ad altro ogni volta che lui faceva di me la sua "svuota-palle". Un giorno però decisi che era ora di prendere le redini. Chiamai il 911, lo feci appostare al solito vicolo in cui lui mi portava e iniziai a gridare. Lo arrestarono e gli diedero parecchi anni di galera. Fu lì che iniziai a desiderare di fare del bene a chi se lo merita e del male ai pezzi di merda.
Esco dalla doccia, mi asciugo i capelli con un asciugamano e mi guardo allo specchio; ho ancora la faccia terrorizzata, l'acqua corrente su di essa non ha avuto l'effetto che speravo. Mentre mi osservo lì, nuda, penso a quanto sia strano che io faccia del sesso la mia arma, nonostante quello che mi è capitato. Aggiunto alla lista delle "cose strane che Kiara Johnson fa". Mi vesto e mi rimetto lo stesso cappotto del giorno precedente, mentre aspetto l'ascensore.
Arrivo con un po' di ritardo al NY Police Department e, come la mattina prima, tutti ripetono la loro routine giornaliera: levano il cappello con la mano destra e mi salutano, come si saluta un commissario di polizia. Arrivo nel mio ufficio e noto Dakota, già intenta a smanettare sul computer nel suo ufficio accanto al mio. Sono abbastanza contenta che tutte le stanze siano fatte di vetrate; posso spostare la mia testa a sinistra e trovarmela lì, mentre digita sulla tastiera, con la fronte corrugata a studiare i suoi (e i miei) casi. Appena mi vede sedermi alla scrivania, si alza dalla sua e viene a salutarmi.
- Buongiorno Commissario. Oh, scusi volevo dire Kiara. Dovrò farci l'abitudine.
- Buongiorno Dakota. Non si preoccupi, col tempo sono sicura che riuscirà a ricordarselo.
Mi fissa coi suoi occhi castano-verdi e con un'espressione un po' tonta in viso, dopodiché si schiarisce la voce e mi parla di un nuovo caso: il caso di Mark Dawson. Non è la prima volta che mi si presentano fascicoli sul presunto omicidio di qualcuno che ho ucciso io, perciò non sono preoccupata.
- È stato ritrovato ieri in un vicolo tra 4ª e la 5ª strada dalla proprietaria di un panificio che stava buttando la spazzatura. Non ha nessun famigliare e neanche amici o conoscenti. Ha solo degli allievi alla New York University ma loro non sono ancora al corrente dell'accaduto. Abbiamo già inviato il corpo al RIS per ispezionarlo.
Rimango zitta e attenta mentre ascolto la sua voce suadente e penso a tutt'altro che al caso.
- Kiara - dice ad un certo punto.
Alzo un sopracciglio e la guardo interrogativa.
- Ha del sangue sulla manica del giubbotto.

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