CAPITOLO VENTIQUATTRO. RYAN

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Finalmente l’avevo ritrovata, non riuscivo ancora a crederci. Era lì, a poco meno di un metro da me. Potevo guardarla, sentire il suo profumo. Dio quanto mi era mancata, più di quanto volessi ammettere a me stesso. Quando l’avevo vista uscire dal negozio, il cuore aveva preso a martellarmi nel petto. “So che la stai cercando, so dove puoi trovarla. Quanto sei disposto ad aspettare per riaverla? Un’ora? Mezza giornata? Un giorno intero? Hai solo una possibilità. Vai al 19-20 in New Bond Street… e aspetta.” Quando avevo ricevuto quel biglietto ero scettico. Mi era stato recapitato a casa, senza mittente, non lo trovavo attendibile, ma non riuscii a ignorarlo. Ci andai, nonostante tutti i dubbi che non smettevano di ribollire nella mia mente. Una leggera speranza vinse una piccola battaglia contro la ragione. Il messaggio in un primo momento l’avevo classificato uno scherzo di pessimo gusto, ciò nonostante continuai ad aspettare. Se qualcuno mi avesse detto che un giorno sarei rimasto ore in mezzo a una strada ad attendere di vedere una donna, gli avrei riso in faccia, dandogli del pazzo, e invece, a dispetto di tutto, ero rimasto immobile lì, in attesa. Presto l’illusione si smorzò, ributtandomi nello sconforto: il tempo passava, ma di lei non c’era nessuna traccia. «Stai bene?» le chiesi con una voce mi uscì più dura del solito, ma ero troppo arrabbiato e inquieto per preoccuparmi della sua sensibilità. Lei sobbalzò e poi passarono secondi
senza che udissi anche un solo suo respiro. «Sì, mai stata così bene... perlomeno fino a dieci minuti fa» rispose scontrosa, senza degnarmi di uno sguardo. Era arrabbiata, si vedeva benissimo, ma non mi avrebbe ingannato. Le sue parole potevano esprimere insofferenza nei miei confronti, ma il suo corpo diceva ben altro, perché, il modo in cui aveva ricambiato il mio bacio, non era di certo quello di una donna indifferente. Era senza alcun dubbio attratta da me, ma aveva deciso di proposito d’ignorare l’attrazione che c’era tra noi, nonostante fosse palese anche agli occhi di un estraneo. «Sappiamo entrambi che non è così, smettila di insultare la mia intelligenza, Elizabeth. Mi vuoi, tanto quanto io voglio te.» Lei continuò cocciutamente a evitare il mio sguardo. «Io non voglio proprio niente, non ho bisogno di te, come non ho bisogno di nessuno.» «Forse non hai bisogno di me, ma mi vuoi eccome. Puoi negarlo quanto vuoi, puoi anche urlare fino a perdere la voce, ma sappiamo entrambi qual è la verità.» Si girò all’improvviso, puntandomi contro uno sguardo colmo d’ira. Il suo sdegno era quasi palpabile. «Non m’importa quello che pensi, voglio solo essere lasciata in pace.» Era prossima alle lacrime. Si sentiva sopraffatta, confusa, arrabbiata. «Vedremo, Elizabeth… vedremo.» Restammo in silenzio per parecchio tempo. Guardai all’esterno, notando che avevamo finito con l’imbottigliarci nel traffico. Mi voltai ancora verso di lei, le sue mani posate sul grembo tremavano, mentre continuava a torcerle, come se quel movimento potesse alleggerire la tensione. Non mi piaceva per niente vederla così tormentata, ma l’avevo ritrovata, e questa era l’unica cosa che contava. «Dove sei stata fino a oggi? Ti ho cercato ovunque, non puoi capire quello che mi hai fatto passare. Stavo perdendo la ragione, mi chiedevo se tuo padre ti avesse trovato, se fossi ancora viva.» Strinsi le mani a pugno dalla rabbia, le ultime parole uscirono così piano, che pensai non mi avesse sentito. «Per giorni abbiamo chiamato ospedali, polizia, senza sapere niente di niente. Un messaggio, Elizabeth, bastava solo un cazzo di messaggio per non farmi impazzire, per farmi sapere che stavi bene e che non eri finita nelle mani di quel bastardo.» La quiete calata attorno a noi era sempre più opprimente. La tensione mi stava schiacciando, sembrava soffocarmi. Chiusi gli occhi per un attimo: avevo bisogno di staccare la spina, di calmarmi, ma sapevo che la giornata era ben lontana dall’essere conclusa. «Oddio, Ryan… Mi… Mi dispiace… Io… Io non sapevo… Non credevo… Non volevo che ti preoccupassi… Non era questo che…» Il suo sguardo era nuovamente rivolto a me: quello che vi leggevo dentro era forse rammarico? Respirai profondamente: era tutto così sbagliato. Avevamo sofferto entrambi per questa lontananza, era un errore continuare a rinvangare e infierire su qualcosa che ormai si era conclusa bene. Tesi una mano verso di lei: l’urgenza di toccarla di stringerla e accertarmi che era veramente lì mi faceva impazzire. Il desiderio che smettesse di tenermi a distanza cresceva di secondo in secondo. Il bisogno viscerale che avevo di lei era tanto da scioccare me stesso. «Avvicinati, lascia che ti tocchi: ne ho bisogno, Elizabeth. Non negarti ancora, non oggi, non adesso.» «Non credo sia una buona idea, Ryan. Credimi è meglio che le cose restino così.» Aveva scosso la testa, come per dare più enfasi alle sue parole. La fissai a lungo negli occhi, senza rispondere, ma lasciando la mano tesa. Per la seconda volta nello stesso giorno mi trovai ad aspettare… ad aspettare sempre lei. Strinsi gli occhi e presi un lungo respiro: «Penso che a volte nella vita bisogna lasciarsi andare senza pensieri o ragionamenti. Buttati nel vuoto, Elizabeth. Per una volta segui il tuo istinto.» Il suo viso cambiò espressione, come se fosse stretto dalla morsa del dubbio. Mi resi subito conto del momento in cui prese la sua decisione: mi guardò dritto negli occhi e allungò il suo braccio, posando finalmente la sua mano nella mia. Non distolsi mai lo sguardo dai suoi occhioni blu, che non smettevano di scrutarmi, così l’attirai senza fretta tra le mie braccia. La strinsi forte, come se volessi assorbire la sua essenza, poi mi obbligai ad allentare la morsa. La feci sedere sulle mie ginocchia, cercando un contatto ancora più profondo. Tuffai il mio viso tra i suoi capelli morbidi e profumati, accarezzandoli senza sosta. Per la prima volta, dopo giorni e giorni d’angoscia, mi sentivo sereno. «Non hai una buona cera, stai bene?» le domandai a bassa voce scostandomi per guardarla meglio in viso. Lei mi osservò con espressione un po’ perplessa. «Per l’amor di Dio, Elizabeth, non dirmi che non ti sei accorta di quanto sei dimagrita! Sei forse stata malata? Rispondi!» Alzai il tono di voce ma solo il tanto che bastava per farle capire che era il momento di smetterla con la sua riluttanza a rispondere alle mie domande. Avevo notato che era incline alla disciplina, e la sua innata sensibilità all’autorità la spinse a obbedirmi, senza ulteriori discussioni. «Credo si tratti solo d’influenza, non è niente di serio e sono in via di guarigione» rispose come se avesse paura di contraddirmi. Posai la mano sulla sua fronte, constatando che era un po’ più calda del solito. «In effetti, scotti un po’.» Mi rivolsi immediatamente a John, spronandolo a spingere sull’acceleratore: bisognava rientrare subito e chiamare il medico. Presi il telefono con qualche difficoltà, avendo ancora Elizabeth seduta sulle gambe che limitava i miei movimenti, e iniziai a comporre il numero. Per riavere la mia attenzione lei coprì con la mano il mio cellulare. «È una banale forma influenzale, Ryan. Non è il caso di agitarsi A parte la nausea, sto piuttosto bene. Prendo degli antipiretici per la febbre e ho già consultato un medico giorni fa: è tutto a posto, credimi.» Sospirai sollevato. Aveva perso parecchio peso, forse proprio a causa del virus che l’aveva colpita. In ogni caso mi sarei preso cura personalmente di lei, assicurandomi che riprendesse a mangiare con regolarità, cosa che, era più che evidente, non aveva fatto nell’ultimo periodo. «Hai mangiato oggi?» Il suo imbarazzo fu più che eloquente, e questo mi fece infuriare: «Ti rendi conto di quanto sei dimagrita? Dimmi, Elizabeth, quanto pesi? Sono certo che non arrivi neanche ai cinquanta, troppo poco considerando la tua altezza.» Non rispose a nessuna delle domande, ma la cosa non mi sorprese per nulla. Si avvicinò lentamente, e adagiò la fronte sulla mia spalla. Il mio corpo s’irrigidì all’istante, lasciandomi spiazzato. Era la prima volta che mi toccava con spontaneità e consapevolezza, e questo mi piacque. La desideravo, ma mi resi conto di quanto fosse provata. Era stata una giornata pesante per entrambi e lei doveva mangiare e riposare, poi avremo parlato, ma per il momento dovevo riuscire a controllarmi. La strinsi ancora più forte tra le mie braccia e lei non tardò a rannicchiarsi addosso a me, arrendevole. Le passai le dita tra i capelli, e lei sollevò lo sguardo. Ci fissammo a lungo, coscienti l’uno dell’altra. «Sto bene, credimi, sono solo molto stanca» mi rassicurò. Annuii e lei chiuse gli occhi, posando la testa nell’incavo del mio collo. Restammo fermi e in silenzio, finché sovrappensiero mormorai: «Non ti permetterò più di lasciarmi, Elizabeth. Voglio che tu ne sia consapevole.» Provò ad allontanarsi, ma non glielo permisi. Dovevo trovare un modo, ma soprattutto dovevo scoprire un sistema per poterla rintracciare ovunque, nel caso fosse scappata una seconda volta. «Io non ti appartengo, Ryan. Non hai nessun diritto su di me.» Nascose il viso tra le sue piccole mani. «Le puttane... non... non appartengono a nessuno.» Un pugno in pieno stomaco: sapevo di averla ferita profondamente, non mi avrebbe perdonato con tanta facilità. Dovevo trovare una maniera per riuscire a curare quella ferita. «Ciò che ho detto alla festa è stato imperdonabile, per questo ti faccio le mie scuse, ma ti garantisco che non l’ho mai pensato. Ero arrabbiato, furioso con me stesso. Sei stata il capro espiatorio di tutti i miei problemi, un comportamento inammissibile da parte mia. Hai tutte le ragioni per avercela con me. So che delle banali scuse non sono sufficienti per riparare al mio errore, ti chiedo solo di darmi la possibilità di rimediare.» Non disse nulla, chiudendosi ancora più in se stessa. Il suo corpo rimase rigido, confermando quanto fosse riluttante ad accettare le mie ragioni. L’avevo offesa nel peggior modo in cui un uomo potesse insultare una donna. Dubitavo fortemente di riuscire in breve tempo a riconquistarla, ma non avrei rinunciato a lei, pensasse pure che fossi arrogante e senza scrupoli. «Perché? Perché lo stai facendo?» «Perché cosa, Elizabeth?» «Dammi un solo motivo perché io ti debba perdonare? Dimmi perché ti sei fissato con me? È tutto così assurdo.» Si coprì il viso con le mani, esasperata. Che cosa avrei dovuto risponderle? «Tu sai perché. Mi piaci, non chiedermi il perché, ma io ti voglio, più di quanto abbia mai desiderato qualcuno in vita mia. L’attrazione che sento per te è così intensa che non ho la forza o la volontà di rinunciarci. Ti potrebbe sembrare irrazionale tutto questo, ma non so che altro dirti.» Ero nervoso: non mi piaceva dovermi esporre così, o parlare delle mie emozioni. Cosa provavo? Non ne avevo la più pallida idea! L’unica cosa che sapevo era che non ero pronto a lasciarla andare. «Mi hai già avuto, Ryan. Hai già preso ciò che volevi, non c’è altro che possa darti.» Il rossore che invase il suo viso mi eccitò, provocandomi un’erezione che non fui in grado di controllare. Il mio membro spinse verso le sue natiche, e il suo volto si fece ancora più scarlatto, svelandomi che non le era sfuggita la mia condizione. «Credimi, puoi darmi molto altro, e non vedo l’ora di mostrartelo» dissi malizioso. «Quello che abbiamo fatto finora è solo una piccola parte di ciò che il sesso può dare.» Mi schiarii la voce che si era arrochita sempre di più. Quando arrossiva a quel modo, l’effetto che aveva sulla mia libido era incredibile, ma per quanto la bramassi, non si meritava di essere presa in una macchina come una qualsiasi. Meritava il mio rispetto. Mi aspettai che si spostasse nell’udire quale erano le mie intenzioni, invece mi sorprese e osai di più: «Posso farti provare un piacere incredibile che ancora non conosci» sussurrai allusivo. «Siamo arrivati, signore.» La voce di John giunse nel momento meno opportuno e se non fosse stato per il divisorio alzato l’avrei incenerito con una sola occhiata. Lo sportello si aprì. Aspettai che Elizabeth scendesse, seguendola subito dopo. Posai la mano al centro della sua schiena, dirigendola verso casa. Quando fummo a due passi dall’entrata, si aprì la porta. Garth apparve subito dopo con un viso tirato, ma evidentemente sollevato. Elizabeth si bloccò appena lo vide, forse cominciando a realizzare tutto il trambusto che aveva causato la sua fuga. Si voltò verso di me. «Mi dispiace… Non volevo.» L’abbracciai, e con discrezione feci un cenno a Garth di levarsi subito dalle scatole. «Adesso ascoltami, Elizabeth: ognuno di noi ha temuto per la tua incolumità. Non so come fai, ma chiunque abbia la fortuna di conoscerti, non può fare a meno di amarti, per questo eravamo tutti molto scossi.» «Anche… anche tu?» Senza lasciarla andare, mi scostai da lei di qualche centimetro, per guardarla meglio negli occhi. «Anch’io cosa, Elizabeth? Che cosa vuoi sapere?» «Anche tu, come gli altri, non puoi fare a meno di amarmi?» abbassò il volto impedendomi, di scrutarla. M’irrigidii. «Certo che tengo a te, Elizabeth, credevo che questo lo avessimo già appurato da un po’.» «Non ti ho chiesto se tenessi a me, ma...» So cosa voleva che io dicessi ma si trattava di qualcosa che io stesso mi rifiutavo di prendere in considerazione. «Vieni con me. Sei stanca, hai bisogno di mangiare qualcosa, e riposarti.» Infastidito dalla piega presa dal discorso, indietreggiai
di un passo. Una luce si spense nei suoi occhi e a passo deciso si diresse verso casa. Sapevo di doverla seguire, ma non mi mossi. Ero da sempre avverso a una relazione stabile, ma con Elizabeth si era creata un legame che non riuscivo a spezzare. Era troppo per me, io non lo volevo questo legame e capii in quell’istante di essere fottuto. Appena entrai nell’atrio trovai Elizabeth in lacrime e Garth che la confortava accarezzandole il volto. Una rabbia irrazionale m’investì come un fiume in piena: la rifiutavo, ma nello stesso tempo non tolleravo che nessun altro uomo si avvicinasse a lei. I miei pensieri erano irrazionali? Sì, lo erano, ma poco m’importava. «Elizabeth, dobbiamo parlare» richiamai la sua attenzione. La afferrai per un polso e me la trascinai dietro. Non oppose nessuna resistenza, seguendomi con docilità. Entrai nel salottino, teatro del nostro primo incontro intimo, e chiusi la porta dietro alle nostre spalle, con un calcio. Trasalì, era nervosa, ma non si allontanò. Lasciai il suo polso, ignorandola completamente, come se non fossimo neanche nella stessa stanza. Presi il cellulare, componendo subito il numero di telefono di mia sorella. «Ciao, Phoebe, volevo…» «Ryan, dimmi che l’hai trovata» disse in tono angosciato. «Sì, l’abbiamo trovata. Sta bene, è qui vicino a me» mi sbrigai a rispondere, prima che l’ansia la divorasse. Dopo un breve silenzio, iniziò a singhiozzare. Sorrisi. L’affetto che provavo in quel momento per mia sorella era immenso. Elizabeth, intanto, mi osservava con gli occhi spalancati, come quelli di un cerbiatto. Nonostante la sua vulnerabilità, non potei fare a meno di realizzare a quanto male avesse provocato la sua fuga alla mia famiglia. «Phoebe… Smettila di piangere! Lei sta bene, mi ascolti?» Non sentii altro che un susseguirsi di singulti, stava scaricando la tensione accumulata in quei giorni. «Ci vorresti parlare? Phoebe… Ti prego, sai che non sopporto sentirti piangere.» Elizabeth scosse la testa sommersa dal senso di colpa. Vederla così smarrita mi diede soddisfazione e mi avvicinai di più a lei. «Sì, ti prego. Voglio sentirla» acconsentì mia sorella con un sussurro. «Ok, te la passo, ma cerca di stare tranquilla: ormai è al sicuro.» «Grazie, Ryan.» Sentii un rumore come se avesse tirato su col naso a mo’ di una bambina. «Per la mia sorellina farei questo e altro: non te lo dimenticare mai, Phoebe.» Fece una risatina leggera e questo mi rincuorò. «Stai diventando sentimentale, Ryan, e questo non è da te. Però grazie, non lo dimenticherò! Adesso, prima che mi rimetta a frignare, passami Beth.» Sorrisi ancora. Il rimorso che si era portata dietro sembrava scomparso. Feci caso all’aspetto davvero provato di Elizabeth e, vederla così, mi toccò dentro. Le passai il telefono, sfidandola con lo sguardo a opporsi, ma con mio grande compiacimento, prese il cellulare. «Pronto… Ciao Phoebe, mi dispiace… Mi dispiace così tanto… Ti prego, perdonami. Non avrei mai dovuto coinvolgerti. Sono stata un’irresponsabile, ed egoista… ma è vero, tu… Anche per me è la stessa cosa… Sì certo, sono stata bene. In questi giorni qualcuno si è preso cura di me. Ti prego, scusami tanto con Nicole, so di non meritare il vostro affetto … Va bene, come vuoi. Grazie a domani. Ciao.» Con chi era stata tutto questo tempo? Chi si era preso cura di lei? A parte il biglietto anonimo non avevo nessuna informazione. Si girò per restituirmi il cellulare e il suo sguardo era colmo di tristezza, vergogna e rimpianto, ma dovevo ammettere, almeno con me stesso, che una parte di responsabilità era mia. L’avevo trattata in modo ignobile, inducendola a prendere quella drastica decisione. Senza mai distogliere i miei occhi dai suoi, avvicinai il telefono all’orecchio. «Phoebe, ora stai meglio?» «Sì, ora che le ho parlato va decisamente meglio. Però, Ryan, se farai scappare un’altra volta Beth, potresti non essere così fortunato nel ritrovarla, spero che tu sia consapevole di questo. Trattala come si merita, perché un domani potresti pentirti delle tue azioni, e allora potrebbe essere tardi.» «Farò del mio meglio, Phoebe, ma posso prometterti una cosa» Fissai intensamente in viso Elizabeth. «non le permetterò più di scappare.» La rabbia offuscò il suo sguardo e una strana frenesia m’invase. «Tu non hai nessun diritto sulla mia vita… Tu…» Bloccai le sue proteste sul nascere, rivolgendomi ancora a Phoebe: «Ora devo lasciarti, ricordati di avvertire mamma e Thomas, ma soprattutto avvisali che ci sentiremo domani. Adesso ho bisogno di parlare con lei, e non voglio nessuna interruzione.» «Aspetta un attimo, cosa vuoi dire che…» «Phoebe, parleremo domani, te lo prometto. Ora chiudo, e non provare a richiamare o a venire a casa, perché darò ordini che non voglio ricevere nessuno, compresi i parenti.» Ci fu silenzio per alcuni secondi. «Lo sai che sei un vero despota quando vuoi? Domani aspettami perché non mancherò, dittatore dei miei stivali.» L’avevo fatta arrabbiare, ma ero riuscito a spuntarla. «Va bene, Phoebe. Ci sent …» Non mi lasciò neanche il tempo di salutarla che riattaccò. Era furiosa, ma ero certo che presto le sarebbe passata. Nel frattempo Elizabeth si era allontanata verso la finestra: era rimasta lì, ferma, ad aspettare in silenzio, senza muovere un muscolo. Potevo percepire la tensione, e le sue spalle rigide ne erano la conferma. «Queste sono le regole, Elizabeth: tu obbedirai, e quando ti sarai riguadagnata la mia fiducia, forse potrai riavere la tua privacy. Fino ad allora…» Si voltò verso di me, con occhi spalancati dall’incredulità. «Non puoi farmi questo» protestò. Sorrisi. «Posso e lo farò, Elizabeth. In questo momento non m’interessa la tua opinione, cerca di fartene una ragione, più ti ribellerai e peggio sarà.» Mi sarei accertato che non si verificasse mai più una simile situazione. Una marea di emozioni si alternarono sul suo viso: rabbia, impotenza, tristezza, e accettazione. «È questo che vuoi da me, Ryan? Una bambola che obbedisca e basta? Un corpo senz’anima con cui sfogarti? Perché se è questo che pretendi, non accadrà mai.» «Oh no, non è esattamente ciò a cui io ambisco, Elizabeth. Io non voglio un guscio vuoto. Non devi assolutamente cambiare di una virgola, ti voglio così come sei. Ma basta con le fughe o altri colpi di testa!» «Va bene, te lo prometto, io non…» «Stai zitta, e non ti affannare a promettere nulla perché sarebbe del tutto inutile. Ti sei giocata la mia fiducia il giorno in cui hai deciso di scappare. Ti ci vorrà più di una promessa per riconquistarla.» «Tu non capisci, vero? Non sai perché sono dovuta andare via da…», gesticolò indicando ciò che la circondava, «da tutto questo. Tu non ci arrivi proprio!» Strinse i pugni lungo i fianchi, tentando con fatica di mantenere la calma. «So di aver sbagliato con te, e ti ho già chiesto scusa, non so in che altro modo fartelo capire.» La situazione stava diventando spinosa. Non mi avrebbe perdonato lo scivolone che avevo fatto. «Lasciami andare via, Ryan. Se veramente ti dispiace, lasciami tornare a casa, io…» Mi offrì un debole sorriso, lasciando la frase in sospeso. Mi passai una mano tra i capelli, mi sentivo come se la mia mente fosse divisa in due parti: una, determinata a non cedere e tenerla con me a qualunque costo, l’altra che non desiderava altro che compiacerla. «Non posso, Elizabeth. Mi dispiace, ma non posso.» Il fragile sorriso si spense sulle sue labbra. La sua espressione rivelava che non si sarebbe arresa, avrebbe tentato la fuga alla prima l’occasione. Mi allontanai di qualche passo, poggiandomi con le spalle alla parete. Presi il cellulare e composi il numero. Sarah rispose al secondo squillo: «Come posso esserle utile, signore?» «Come stanno andando le modifiche apportate con Wilson?» «È andato tutto come aveva previsto, signore. Anzi, negli ultimi due giorni i profitti sono aumentati del tre per cento. Possiamo ritenerci più che soddisfatti delle entrate, e il signor Wilson è più che compiaciuto del risultato.» La mia assenza dall’ufficio non aveva avuto nessuna conseguenza negativa, avevo l’equipe di collaboratori migliore del Paese, e nelle ultime settimane me lo avevano dimostrato. «Bene, altro di rilevante di cui debba essere messo al corrente?» «Solo che domani le farà visita Landon, perché occorrono alcune firme, nient’altro che non possiamo risolvere da soli.» «Non avete bisogno della mia presenza? In tal caso posso fare un salto in mattinata.» «No, signore, al momento non c’è bisogno di lei.» Non volevo lasciare sola Elizabeth, almeno fino a quando non sarei riuscito a risolvere il problema. Le mandai un’occhiata e mi parve del tutto estraniata, visti i miei discorsi di natura lavorativa. «Meglio così» dissi a Sarah. «Credo che resterò a casa ancora qualche giorno. Ah, quasi dimenticavo: ho bisogno di parlare urgentemente con Alex.» «Certamente, signore. Attenda in linea.» «Evans» rispose dopo un paio di secondi il mio collaboratore. «Alex, devi fare un lavoro per me.» Alzai lo sguardo per assicurarmi che Elizabeth non ascoltasse, il riserbo era essenziale perché tutto andasse liscio, ed esposi in breve ad Alex il mio piano. Chiusi la chiamata. «È così, vero, Ryan? È questo ciò che hai in serbo per me?» mormorò all’improvviso Elizabeth facendomi quasi venire un colpo. Aveva sentito tutto? «Non puoi tenermi segregata. È tutto sbagliato. Tu sei  sbagliato. Anche noi lo siamo. Lo sai che è così, ma continui a negarlo.» Tirai un sospiro di sollievo, perché aveva udito solo parte del discorso con il mio responsabile della sicurezza. Sì, mi rendevo conto del mio egoismo, ma non l’avrei mai ammesso, soprattutto con lei. «Niente è sbagliato, se ti fa stare bene» risposi con semplicità e senza dubbi. «E poi cosa faremo? O per meglio dire: cosa succederà dopo che ti sarai stancato di me?» Non avevo mai pensato al dopo, e questo mi sorprese. «Perché pensare al domani, Elizabeth? Vivere alla giornata è la cosa migliore per entrambi.» Mi guardò a lungo, dritto negli occhi, poi mi sorrise tristemente. «Sono stanca, Ryan, ho bisogno di rilassarmi, non ho più voglia di stare qui a discutere con te.» Annuii e mi mossi per aprirle la porta. Lasciai che mi superasse, ma poco prima che uscisse, la fermai: «Prima di ritirarti dovrai mangiare.» «Veramente ho ancora la nausea.» «Non ci provare, Elizabeth. Tu non andrai a riposare fino a quando non avrai finito tutto ciò che avrai nel piatto, a costo di tenerti sveglia per tutta la giornata, e sai che non scherzo.» Sollevò un sopracciglio con una scintilla divertita negli occhi, strappandomi un sorriso. «Ma certo, paparino. Mangerò tutta la pappa, te lo prometto.» Mi fece il primo sorriso sereno, mandandomi completamente in tilt il cervello. In quell’istante capii perché non riuscissi a lasciarla andare. L’innocenza e la sensualità che Elizabeth emanava, riusciva ogni volta a scatenare in me un desiderio irrefrenabile, accendendo un bisogno di possesso primitivo.

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