Stava passando sotto uno di quei vecchi palazzi che si trovano a pochi passi dal bar in cui lavora. Uno di quelli con le scale esterne a vista e i mattoni rossi. Qualcosa a un certo punto le cadde quasi addosso. Si era spaventata, in un primo momento, ma presto e quasi come fosse una ladra si era avvicinata all'oggetto. Aveva alzato lo sguardo e si era guardata intorno, dopo un attimo di esitazione l'aveva recuperato. Era un diario. C'erano per di più pensieri, a volte scarabocchiati. L'aveva messo nella borsa e si era diretta all'università. Per tutto il tragitto in metro non aveva fatto altro che pensarci. Avrebbe dovuto restituire quell'oggetto al suo legittimo proprietario, non avrebbe dovuto leggere quelle parole, non avrebbe dovuto prenderlo.
«Ehi! Guarda avanti.»
«Mi scusi.»Era entrata di corsa nel primo bar che aveva trovato. Fuori il freddo tagliava il respiro. Aveva visto un piccolo tavolino libero in un angolo, vicino alla finestra, e si era accasciata sulla sedia. Aveva ordinato un caffè doppio e aspettato che il suo corpo recuperasse un po' di calore. Poi aveva preso il diario dalla borsa e lo aveva poggiato sul tavolo. Con le mani attorno alla tazza bollente stava decidendo cosa fare di quell'oggetto sconosciuto. Trovare il suo proprietario sarebbe stato impossibile. Appropriarsene non le sembrava giusto. Lo avrebbe buttato una volta uscita dal locale. Dove nessun altro avrebbe potuto rubarne i versi.
Due ore dopo era per strada, verso casa. Non era andata all'università. Il diario ancora nella sua borsa.
Le giornate passavano tutte uguali per Giulia. Università, lavoro, casa. Frequentava una facoltà che non le piaceva, in una città che non le piaceva. Una vita passata a prendere ordini, per il suo bene, le dicevano. Una vita passata a fare quello che gli altri le dicevano, perché era giusto così. Una vita passata a trattenere un urlo in gola.
«Giulia, per favore, va' a vedere se vuole altro quel tipo in fondo.»
«Certo, Cris.»
Avanzò verso i tavoli del locale, scansando i clienti, e si diresse veloce verso la figura quasi totalmente abbandonata sul tavolo.
«Mi scusi, vuole qualcos'altro?» chiese ormai di fronte. «Ehi...» disse bussandogli sulla spalla. Al tocco si ritrasse di scatto e la fissò. Aveva tra le mani una penna che usava per scrivere furiosamente su dei tovagliolini di carta. Di risposta prese di corsa le sue cose e scappò via dal locale.
Quegli occhi. Grandi, rossi, neri come il dolore. Gli occhi di una persona che non sapeva cosa significasse dormire da un bel po'.Era dalla sera prima che non riusciva a togliersi dalla mente quell'immagine. Così aveva deciso di uscire a fare due passi. Era andata nell'ormai solito bar, seduta al solito tavolino, con la tazza di caffè bollente tra le mani, a fissare il diario.
Della confusione distolse la sua attenzione. Sembrava che il titolare stesse litigando con un cliente. Gli intimava di andarsene. Allungò il collo cercando di cogliere la scena. Vide qualcuno uscire dal bar spinto da un cameriere. Giulia raccolse tutto velocemente e corse fuori.
«Aspetta! Ti prego, aspetta!»
Il freddo le rubava il respiro. Era difficile tenere il suo passo. Fino a che non la vide inciampare e cadere per terra.
«Ehi, come va?»
La ragazza avvicinandosi notò che si teneva la caviglia.
«Ma si può sapere che cazzo vuoi?»
Giulia prese il diario dalla borsa e glielo mostrò.
«Io non lo so, può essere che mi sbagli. Ma credo che questo sia tuo.»Entrarono nell'appartamento di Giulia venti minuti dopo. La padrona di casa la invitò a sedersi in salotto e andò in cucina.
Quando ritornò la vide intenta a guardare una foto, quella dei suoi genitori. Giulia posò due tazze di tè sul tavolino del salotto e si avvicinò a lei.
«Somigli molto a tuo padre» disse rimettendola a posto.
Giulia si perse un attimo a osservarla. Aveva ancora il cappotto addosso, gli occhi sempre più rossi, la coda disordinata e le labbra screpolate dal freddo, dai morsi.
«Così dicono.»
Le fece un cenno e si avvicinarono al divano.
«Si amavano?»
«I miei genitori?» Sì, credo di sì.»
«Io, io sono Eva.»
«Io Giulia.»Parlarono per ore. Si raccontarono le loro vite, senza che nessuna delle due l'avesse chiesto.
Parlarono dell'insonnia di Eva, dei suoi problemi dopo la morte di sua madre, di suo padre. Parlarono del dolore, della solitudine.
Parlarono dell'insoddisfazione di Giulia. Del suo essere guidata da ciò che si deve fare, deve volere, deve amare. Parlarono della frustrazione, della rassegnazione, del vuoto.
«Ho buttato quel diario in uno dei miei momenti peggiori. Avrei potuto farti del male.»
«Ma non è successo. Mi ha sfiorata appena.»
«È da quando sono al mondo che la vita ama mettermi di fronte a delle apparenti coincidenze. Mi fa credere di essere l'artefice del mio destino invece sono solo una marionetta, questo mondo il mio palcoscenico» e si strinse ancora di più le ginocchia al petto.
Erano sedute l'una di fronte all'altra.
«Hai freddo?» chiese Giulia vedendola tremare.
«Credo sia l'effetto dei miei nervi, dell'insonnia.»Giulia si alzò dal divano, prese per mano Eva e la condusse nel bagno. Aprì l'acqua calda e iniziò a riempire la vasca. Scelse del bagnoschiuma alle mandorle. Eva non disse una parola, si limitava a osservarla. Giulia si avvicinò e guardandola dritto negli occhi iniziò a spogliarla. Lentamente le tolse tutto quello che la copriva ai suoi occhi, mostrandone la pelle, strato dopo strato. Giulia guardò ogni centimetro del corpo di Eva, rabbrividendo. La percorse tutta, dal basso verso l'alto, poi si fermò sulle sue labbra, così morbide e piene. Ne delineò i contorni con la punta dell'indice, delicatamente, avendo quasi paura di romperle al solo tocco. E al solo tocco di morire dalla voglia di assaggiarle. Si avvicinò piano, le sfiorò con le sue. I lunghi capelli di Eva le cadevano sul collo, sulle spalle, fino a coprirle i seni. Giulia glieli scostò, sfiorandola. Quel tocco la fece tremare. La guardò di nuovo, fino a incrociare i suoi occhi. Non aveva mai provato nulla che la sconvolgesse così tanto. Le tese una mano e l'aiutò ad entrare nella vasca. Eva si immerse, ma per tutto il tempo non aveva accennato a staccare gli occhi da quelli di Giulia.
«Vieni, Giulia» disse Eva.
Giulia si spogliò dai suoi abiti, piano, aggrappando il suo sguardo a quello di Eva. Chiedendole aiuto.
Si spogliò delle sue convinzioni, delle sue paure. Entrò in quella vasca, si avvicinò a Eva, una mano a sfiorarle il profilo, il collo, un seno. Eva le prese il viso tra le mani iniziando a baciarla, lenta e intensa, con dedizione. La sua mano destra sotto l'acqua a rubarle il piacere.Era seduta in quel parco da ormai tre ore. Era diventata un'abitudine, quella di dedicarsi un pomeriggio alla settimana tutto per lei. Chiuse il diario e prese il cellulare. Dieci chiamate perse, tutte di Marzio, e un messaggio. Diceva che le avrebbe aspettate a casa sua quella sera alle otto, di essere puntuali e di portare un giochino per Angela, che non vedeva l'ora di vedere le zie.
Sorrise. Come avrebbe fatto senza di lui in quegli anni?
«Non ero la sola a poter godere di quel sorriso?»
Senza di loro. Eva sorrise ancora, questa volta anche con gli occhi.
«Marzio.»
«Ah, beh, allora te lo concedo.»Giulia si avvicinò e la baciò.
«Andiamo o faremo tardi, quel pazzo mi ha fatto venti chiamate.»Si presero per mano e iniziarono a camminare verso l'uscita del parco. Eva era silenziosa, la fronte aggrottata.
«Eva, che hai combinato?» la conosceva fin troppo bene ormai.
«Hai presente il mio diario?»
«Quello su cui stavi scrivendo la tua storia, o qualcosa del genere, giusto?»
«Esatto, qualcosa del genere. Oggi l'ho finito.»
«Fantastico. Finalmente potrò leggerlo.»
«Non puoi.»
«Ma...»
«Basta domande, muoviti o faremo tardi.»Giulia scosse la testa e sorrise, era fatta così la sua Eva.
Eva, che non sapeva di aver iniziato a sbrogliare la grossa matassa che teneva separate e incollate le loro vite.In un grande parco, all'ombra di un grande albero, giaceva un diario abbandonato. Le sue pagine per metà erano piene di inchiostro, per l'altra metà erano completamente vuote. Quelle pagine con il tempo si sarebbero riempite di storie, persone. Tutte diverse, ma con in comune qualcosa, un filo conduttore.
Quel filo che forse, alla fine, avrebbe unito tutti.
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Short Story"La tenevo stretta tra le mie mani, quasi fosse un tesoro inestimabile, e assaporavo il suo doloroso rinfrescarmi scendere lungo la mia gola ardente. Faceva caldo quel giorno, particolarmente caldo, ed era stata una fortuna aver trovato quella linfa...