Ci sono momenti in cui non ricordo molto di quella notte, e altri momenti in cui invece miricordo tutto. Credo sia un qualcosa che abbia a che fare coi ricordi rimossi, o qualcosa del genere,una di quelle cose che con il tempo ti imponi di dimenticare perché rischi altrimenti di rimanerearenata in un pozzo con le pareti alte e sudicie senza la possibilità di guardare cosa c'è fuori.Faceva caldo, il tipico caldo di Roma, quello che bagna l'aria, che non appena esci da unqualunque locale climatizzato ti senti mancare il respiro. Non ricordo cosa indossassi quella volta. Né che tipo di profumo arrivasse dalla cucina.Non ricordo il colore dell'inchiostro, e neanche se il foglio sul quale stavo scrivendo fosse arighe o a quadretti.La penna richiusa e lasciata sul foglio, mia madre in cucina a preparare la cena.Dopo aver perso il lavoro poco prima che nascessi, mia madre non era più riuscita a rimettersi incarreggiata. Faceva la casalinga, cercava di gestire meglio che poteva lo stipendio di mio padre, nonriuscendo quasi mai ad arrivare a fine mese. Avevamo perso il conto delle rate arretrate dell'affitto,e la luce veniva staccata a intervalli regolari.Vivevamo in periferia, vicino a un parchetto con le panchine rotte tagliato in due da un sentierinoche cercava di resistere all'erba alta.Quel parchetto conduceva due vite differenti.Di giorno c'erano le mamme che portavano a giocare i propri figli con il pallone scolorito, lescarpe dalle suole quasi scollate, i pantaloni della tuta con i bottoni laterali.Di notte era tutto silenzioso, sulle panchine vedevi delle sagome chine su se stesse, ogni tanto lafiamma di un accendino illuminava temporaneamente dei cucchiaini, poi di nuovo il buio. Lacciemostatici abbandonati tra i fili d'erba, tra le buste di plastica e i sogni dei bambini del giorno dopo.Mia madre mi diceva sempre "mi raccomando, non parlare con gli sconosciuti", mi diceva di nonfare deviazioni, di non cambiare strada quando uscivo da scuola, "fai sempre la stessa e nonguardarti intorno, sguardo basso e passo deciso". A volte mi sono ritrovata a pensare che forse siastata quella sua eterna raccomandazione a generare tutti i casini successi dopo, ma in fin dei contiquale madre avrebbe mai raccomandato ai propri figli il contrario?Mio padre ci picchiava.Suppongo che ci potrebbero essere mille modi alternativi per descrivere una situazione delgenere, magari prendendola larga, facendo prologhi, mettendo le mani avanti. Ma quando si diventaprolissi arrivi alla fine del discorso che nessuno ti sta più ascoltando, proprio quando sarebbe divitale importanza farlo.Perciò, ecco qua.Mio padre ci picchiava. Tutt'e due. Mia madre un po' di più, probabilmente qualche volta si saràpresa pure quelle destinate a me. Mio padre puzzava costantemente di vino rancido e rum da quattrosoldi, non rideva mai e s'incazzava senza motivo, sbottava all'improvviso davanti a ogni minimacosa, anche la più piccola, anche un cucchiaino sporco. Incolpava sempre mia madre di essere unafallita, di non essere stata in grado di rendersi utile per la famiglia, e che se la nostra vita andava aputtane era tutta colpa sua. Mia madre incassava e non rispondeva, e mio padre esplodeva davanti aquel silenzio, la prendeva per il braccio e glielo strattonava forte, lei tentava di liberarsi e a quelpunto volavano gli schiaffi. Una volta mi misi in mezzo, e lui colpì anche me sulla bocca,spaccandomi il labbro con la fede nuziale che portava al dito, simbolo senza valore di unmatrimonio senza amore.C'erano notti in cui scappavo, solo per qualche ora, solo per un momento. Uscivo di nascosto,mica per andare chissà dove. Non prendevo né autobus né tram. Semplicemente disobbedivo a miamadre e facevo una strada diversa. O meglio, la attraversavo, fino al portone del palazzo di fronte,fino a casa di Stefano.Stefano era la casa in cui avrei voluto dormire sempre. Era stato il primo compagno di classe concui avevo parlato tra i banchi di scuola, e avevo capito che mia madre non sempre aveva ragione, glisconosciuti non vivono fuori, a volte con gli sconosciuti ci vivi tra le mura di casa per anni, tichiamano "amore" mentre ti spaccano il cuore in due. Stefano mi fece alzare la testa in una giornataqualunque di scuola quando, seduta al mio banco con le mani incrociate sul quaderno aperto,ricevetti un suo bigliettino con scritto "Hai i capelli bellissimi". Mi chiese se avessi già il compagnodi banco. No, non ce l'avevo.La realtà in cui vivevamo non era all'altezza della fantasia di Stefano, che non faceva altro cheparlarmi di quanto gli sarebbe piaciuto un giorno cambiare casa, guadagnare un sacco di soldi ancheper mamma e papà, e mi dava un pezzo del suo panino all'olio con la mortadella mentrecamminavamo verso casa, dopo la scuola. Spesso ci fermavamo pochi minuti sulla panchina delparchetto, con i piedi che non toccavano terra, un po' come le nostre teste, che quand'eravamoinsieme se ne andavano chissà dove, tra le nuvole. Un giorno Stefano mi chiese dove mi sarebbepiaciuto andare a stare, mi chiese che posto avrei voluto per il resto della mia vita. Gli risposi:"Basta che ci sia il mare". Mi promise che ci sarebbe stato.Certe notti mi affacciavo alla finestra dalla mia camera, che dava esattamente su quella della sua.Tiravo sul vetro i pezzetti del pellet che usavamo per la stufa. Dopo vari tentativi riuscivo asvegliarlo, apriva la finestra con la faccia assonnata, gli dicevo di stare pronto ad aprirmi la porta.Le uniche notti in cui mi sono sentita a casa sono state quelle in cui ero lontano dalla mia. Nonfacevamo nulla di che, niente di così speciale da essere meritevole di finire in chissà quali annali dimomenti meravigliosi, ma forse era proprio questa la nostra forza. Semplicemente ci sedevamo agambe incrociate sul suo piccolo letto parlando sottovoce di quanto ci sarebbe piaciuto, matantissimo veramente, svegliarci un giorno e scoprire che tutto quello che c'era intorno a noi non eranient'altro che una gigantesca scenografia di cartone, e in realtà i prati erano verdissimi e pieni difiori di ogni colore e profumo, e si poteva sentire il rumore del mare. Quando c'era la luna piena e ilcielo cosparso di nuvole, giocavamo a individuare le figure, e io gli dicevo che quella nuvolasembrava la faccia di un leone, e lui riusciva a capire esattamente quale, esattamente dov'erano gliocchi, la criniera, i baffi, ed ero abbastanza convinta che non fosse una cosa comune, visto cheognuno vede ciò che è nella sua fantasia. Avevamo le nuvole in comune, io e Stefano, che forsevaleva più di qualunque hobby, di qualunque gusto di gelato.Parlavamo un sacco e lui ogni tanto si imbambolava e perdeva il filo del discorso, guardava unpunto indefinito tra i miei occhi e il mio naso, e io gli schioccavo le dita davanti alla faccia, eridevamo in silenzio.Poco prima dell'alba ci alzavamo dal letto cercando di fare il più piano possibile, aprivamo laporta lentamente e ci salutavamo consapevoli che ci saremmo rivisti da lì a poco per andare insiemea scuola."Ci vediamo tra poco" ci dicevamo sorridendo.Era quasi ora di cena. Sentii bussare alla porta di casa e i passi svelti di mia madre sulpavimento. Sentii la voce di mio padre, e poi quella di mia madre a un volume troppo alto. Unaserie di tonfi, mia madre cominciò a gridare, mio padre le dava della puttana, il rumore di una portaaperta con violenza. Li sentii litigare, un oggetto di vetro si ruppe da qualche parte, strizzai gli occhie mi tappai le orecchie, finirà anche questa volta, mi dicevo, come tutte le altre volte, finirà con miopadre che esce di nuovo di casa senza chiudere la porta e sgommando con la macchina, con miamadre che fa dei respiri profondi incrinati da principi di pianto, poi verrà da me e mi dirà che è tuttookay.Non quella sera.Quella sera mia madre cominciò a urlare dalla paura. Mio padre imprecava e bestemmiava, legridava: "Ti ammazzo, maledetta, ti ammazzo", lei chiedeva aiuto, urlando. Aprii gli occhi, corsi dilà. Vidi mia madre sdraiata per terra e lui che, sopra di lei, le teneva i capelli stretti in pugno, ilcoltello nell'altra mano, le urlava in faccia, corsi verso di loro, gli dissi "papà ti prego fermati, tiscongiuro, basta, papà, ti prego", mi buttai a terra vicino a mia madre che mi abbracciava piangendoforte. Mi sembrava tutto così ovattato mentre lo guardavo spalancare gli occhi e guardarsi le mani,sentii un fischio in sottofondo, basso e continuo, i singhiozzi di mia madre, la porta dietro miopadre che si apriva di scatto facendo saltare i cardini, e due poliziotti che prendevano mio padre e loportavano via di peso, ammanettato.Mi sembrava tutto parte di un film senza lieto fine, una specie di dramma scritto male e con icopioni sbagliati, i ruoli invertiti, i sipari che non si chiudono mai tra gli applausi.Quel foglio sulla scrivania venne piegato in quattro parti e infilato in una busta. Sul retro ciscrissi il suo nome. Fu l'ultima volta che attraversai la strada di casa mia, guardando prima asinistra e poi a destra, nel silenzio totale del quartiere, per bussare alla porta di casa di Stefano.Lui non c'era, certo che non c'era, ci eravamo lasciati pochi giorni prima con la promessa dirivederci appena fosse tornato da casa di sua nonna, nelle Marche.Ci eravamo lasciati con un "ci vediamo tra poco" che sapeva di speranza, perché noi eravamoconvinti che, se lo avessimo voluto, il tempo sarebbe passato più in fretta, anche quei tre mesi,anche quel caldo tremendo, persino la puzza di fogna della nostra zona: tutto, tranne noi.Quella notte lasciai la lettera a sua madre. Dopodiché smisi di guardarmi indietro, sicura che ciòche contava davvero mi avrebbe trovato, prima o poi. Quella notte, io e mia madre lasciammo lacittà.C'era un silenzio strano sul treno, interrotto ogni tanto da qualcuno che russava qualche sedilepiù avanti. Mia madre dormiva accanto a me, mentre io tenevo la fronte appoggiata al finestrino,piangendo silenziosamente, così tanto che mi facevano male gli addominali. Piansi tantissimoperché avevo paura.Avevo paura del futuro che non conoscevo.Stefano, appena leggi la lettera vieni da me okay? Cercami, Stefano. Dobbiamo crescere ancoraun po' insieme e cercarci la casa che dicevamo. La casa con vista mare, te la ricordi? Quella con ilcornicione rosa che a te fa schifo anche solo l'idea. Te la ricorderai? Non dimenticarmi, Ste.
STAI LEGGENDO
Ci vediamo tra poco
RomanceQuante delle persone che incontriamo nel corso della nostra vita sono destinate a rimanere per sempre? Dalla terribile notte di dieci anni prima in cui tutto precipitò all'improvviso sconvolgendo la sua esistenza, la vita di Alice è cambiata radical...