Diana

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Roma, 21 maggio 2012

Sta per riporre l'ultimo libro sullo scaffale a muro dietro il divano crema, quando si ferma e si guarda intorno. C'è solo un tavolo in legno, con la base in ferro e con un paio di sedie abbinate al centro del soggiorno/camera degli ospiti, illuminata a giorno. E forse è per questo che le sembra eccessivamente grande senza più scatoloni, senza vestiti sparsi o oggetti sparsi. Senza persone. E poi, ovviamente, c'è anche il resto della casa...

Che non è così grande. Due stanze, un cucinino e un bagno. Ideale per una persona sola, anche se ci si potrebbe vivere comodamente pure in due. Peccato che Diana non voglia un'altra coinquilina. O coinquilino. Le sono bastate le ultime esperienze.

Perché sì, negli ultimi sei mesi le è successo di tutto. Dalla cozzala campana che, durante la notte, faceva entrare di straforo il ragazzo, che aveva deciso di vivere con loro per non pagare un altro affitto, alla quarantenne svampita che non pagava le bollette e non puliva. E accusava lei di non pulire.

Tre traslochi in tre case diverse, trascinando valigie strapiene e scatoloni carichi da una traversa all'altra. Fino a quando non ce l'ha fatta più e ha deciso che, a trentun anni, poteva anche dare una svolta alla sua vita e andare a vivere da sola.

Una decisione presa, forse, un po' d'impulso, poco ragionata. Ma che era diventata indispensabile, per evitare che il suo stomaco covasse e poi sputasse troppa acidità nell'esofago. E anche per evitare che gli omicidi non li commettesse più solo sulla carta.

E così ha affittato la prima casa che le è sembrata decente, in quel quartiere - l'Appio Tuscolano - dove ha trascorso gli ultimi nove anni. Un posto solo suo, dove vivere serena, lavorare serena, senza seccature, senza gente che, all'una di notte, ceni in cucina chiacchierando ad alta voce al telefono, o che fumi di nascosto nel bagno senza aprire la finestra. Un sogno. Un agognato paradiso.

Eppure ha passato le prime due settimane in quella casa con gli scatoloni dei libri dietro il divano, senza decidersi a sistemarli. Come se volesse scappare da lì. Come se volesse trasferirsi di nuovo. Ha impedito anche ai genitori, che l'hanno aiutata col trasloco e sono ripartiti solo il giorno prima alla volta di Molfetta, la sua città natale, di toccarli. Perché sapeva che sistemarli avrebbe reso tutto più reale. E temeva di sentire proprio quel vuoto alla bocca dello stomaco che la sta prendendo adesso, mentre siede sul bracciolo del divano bianco e stringe convulsamente la copertina di quell'ultimo libro.

Non che non ami la solitudine, è solo che le sembra definitiva. Razionalmente ne apprezza tutti i vantaggi: poter lavorare senza distrazioni, non trovare mai il bagno occupato o i fornelli occupati o i piatti sporchi nel lavandino a ogni ora del giorno e della notte o la roba sporca nella lavatrice. Non essere chiamata urgentemente per discutere di cazzate proprio mentre è alle prese con una scena particolarmente difficile o particolarmente importante.

Sembra che ci sia una qualche cospirazione: mai che la chiamino mentre cazzeggia su Facebook aspettando che le vengano in mente le parole giuste, no, sempre dopo che quelle parole le ha trovate e le deve fissare in quel momento, per non perderle.

Il problema, però, è che la convivenza non è solo questo. È incontrarsi in cucina, entrambe avvolte nel plaid e con una tisana tra le mani e scambiarsi un cenno d'intesa. È evitare di lavare i piatti perché la tua coinquilina sa che odi farlo e allora lo fa lei e tu, per ricambiare, asciughi anche i suoi. È bussare a una porta sempre socchiusa perché è appena successo qualcosa di buffo e si vuole raccontarlo a qualcuno che ne rida insieme.

Ed è questo che ha paura che le manchi, che le renda insopportabile quel silenzio assordante che adesso la circonda. Prende il cellulare per mandare un messaggio alla sua coinquilina storica, quella con cui ha convissuto per ben quattro anni, prima che la mollasse per andare a convivere con il ragazzo, a dieci fermate di metro di distanza.

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