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Il Gioco e il Giocatore

Aveva le lacrime agli occhi quando poggiò la sua biro argentata, usata fino al midollo, sulla scrivania, a fianco dei fogli di carta impregnati di lettere di inchiostro e piccoli cerchietti d'acqua. Si asciugò velocemente gli occhi, non volendo far notare la sua debolezza. A chi poi? Era solo in casa. A chi avrebbe dovuto far notare che non era debole? Beh, forse a sé stesso.
Sospirò, passandosi nuovamente una mano sul viso, poi rilesse con calma, assaporando ogni parola, non ancora pronto a lasciare che quella lettera di addio partisse.

"Cara mamma,
ciao, come stai? In realtà lo so, ma me lo hai insegnato tu a chiederlo sempre, per educazione, anche se sai benissimo che la persona a cui stai parlando soffre. Mi dispiace mamma, per non essere lì con te. Mi dispiace perchè non ti sto stringendo le mani, sicuramente più fredde di come le lasciai sette mesi fa. Lo so, mi dispiace. È trascorso davvero molto tempo. Non passa notte che io non cerchi di ricordarmi la tua ninna nanna. Eri bravissima a cantarla, sembravi proprio una sirenetta, come quella nel cartone della Disney. La tua canzoncina mi faceva dormire sereno la notte. Non avevo più paura del mostro sotto al letto (o qualunque cosa ci fosse realmente), non temevo più che dal mio armadio uscisse un lupo bavoso che mi avrebbe mangiato in un sol boccone. Tutto questo quando ero un bambino. Ora, invece? Ora, nel ricordarmi la tua canzoncina, sono sicuro che c'è ancora un po' di umanità in me. Non diventerò pazzo, non uscirò di testa. Grazie alla tua dolce ninna nanna e alla tua dolce voce e ai tuoi severi ma giusti insegnamenti, io diventerò un grand'uomo, come papà. Ah! Papà. Stento persino a ricordarmelo, il papà. Certe cose vengono automaticamente resettate nella mia mente. Mi ricordo però che era un valoroso soldato pronto a combattere e sacrificarsi per il proprio Paese. Un eroe alto quasi due metri, forte come un gigante, dalle mani grandi e calde, accoglienti, anche se piene di sfregi. Un volto ovale dai lineamenti duri e marcati, l'espressione perennemente sospettosa, apparte quando c'eravamo io e te che lo coccolavamo, labbra sotili e capelli molto corti. Stava sempre via. E quando stava via, mi ricordo, mamma, che tu, ogni sera, ti inginocchiavi davanti al crocifisso sul tuo letto e facevi una preghiera e mi facevi segno di dirla anche io e io la dicevo, anche se all'inizio non sapevo perchè lo facevamo. Poi, papà tornava e piangevi dalla felicità e anche io piangevo. Eravamo sempre in un mare di lacrime quando papà tornava. Poi non tornò più. Arrivò qualcun altro e tu ti misi a piangere ancora. Ma lui non era tornato. Fu il giorno più brutto della mia vita. Sai, mamma, ricordo che in inverno, quando ancora vivevamo a Perth, in quel cortile sotto casa nostra, giocavamo sempre a palle di neve e facevamo anche il pupazzo. Tu mi accompagnavi al supermercato e mi dicevi di prendere il necessario per costruire Todd, così lo chiamavamo. Mi dimenticavo sempre qualcosa, quindi tu mi davi un colpetto affettuoso sulla testa e poi andavamo a cercare il pezzo mancante, poi ci facevamo prestare la pala da papà e costruivamo il pupazzo più alto del mondo (o almeno così credevo). Era più alto di me a quei tempi. Facevamo le foto e mi ricordo che poi le stampavamo tutte e le mettavamo nell'album di famiglia. Le sfogliavamo sempre, ogni Natale, per ricordarci come eravamo, anche le cose più imbarazzanti. E tu, ogni volta che facevamo vedere le mie foto al mio primo bagnetto e io mi nascondevo, mi dicevi che ero il bambino più bello del mondo e non dovevo vergognarmi di nulla. Anche papà lo diceva, poi mi scompigliava i capelli e sorrideva. Tornava sempre per Natale. Mi portava un regalino, anche se piccolo, un pensierino che faceva con il cuore. Una volta mi regalò una penna non cancellabile. Ricordo di essere stato il bambino più felice del mondo. Quella era la mia prima penna non cancellabile. La prima in assoluto. Le maestre mi avevano detto che quelle non cancellabili erano per i grandi, quindi io avevo sempre avuto paura di averne una, ma quando me la diede papà, mi sentii sicuro, proprio perchè me l'aveva data lui, perchè mi guardò negli occhi e mi disse: « Sei diventato grande, Edward. Sono molto fiero di te.» Era bastato, mamma. Mi erano bastate quelle poche parole per essere il bambino più felice della Terra. E poi tu mi hai guardato e hai annuito, con le lacrime agli occhi ed io, euforico corsi subito in camera mia e riposi la mia preziosissima penna, una semplice biro nera dalla plastica argentata, nel mio astuccio, presi il mio regalo e lo diedi a lui. Si trattava di qualcosa a cui avevo lavorato per molto tempo. L'avevo fatto tutto da solo, senza il tuo aiuto, mamma. Gli avevo scritto una lettera. Proprio come quella che sto scrivendo adesso a te. Ovviamente era un po' più corta, con un'ortografia orrenda e dei pasticci qua e là. Ma lui si mise a piangere perchè l'avevo fatto da solo. E lui era fiero di me. Solo questo desideravo. Che lui fosse fiero. Perchè io sapevo, mamma, che tu mi volevi bene. Stavi sempre con me, me lo ripetevi in continuazione. Ma papà no. Papà partiva per tantissimo tempo e non sapevamo più niente di lui e quando tornava io volevo che fosse fiero di me. Poi se ne andò per sempre. Gli avevo preparato una bellissima sorpresa, sai? Era una poesia per la sua festa. L'avevo scritta io stesso. Ero pronto a dirgliela sorridendo, mentre i suoi occhi si riempivano di gioia. Ma non è più tornato.

La Trappola Del DiavoloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora