Depressioni e storie infelici

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"Elizabeth, tesoro, svegliati".

Mugugnai qualcosa in segno di dissenso.

"Beth, alzati e smettila di comportare come una bambina, sai benissimo che tutto ciò è necessario, sai benissimo che io è tuo padre cerchiamo di renderti la vita un po' meno dolorosa; capisco che sei depressa, ma hai bisogno di farti degli amici, di uscire e vivere la tua vita" esortò mia madre.

"La depressione é un effetto collaterale del cancro. La depressione é un effetto collaterale del morire" mi lamentai stiracchiandomi.

Era l'alba di un nuovo giorno dei miei insulsi diciassette anni, e mia madre aveva deciso che ero depressa, presumibilmente perché non uscivo molto di casa; passavo le mie giornate a letto a leggere il mio amato Rimbaud, o a guardare american's next top model, ponendomi ritualmente le stesse domande "Se non fossi malata, potrei partecipare ad ANTP?"-"Sarò mai sana?"-"Naomi Campbell imparerà mai l'arte dell'essere gentili verso il prossimo?".

Ovviamente la risposta era un "no" categorico per tutte e te le domande, ma come era divertente, perché in un certo senso cercavo di crearsi una prospettiva per il futuro, futuro che non avrei comunque avuto.

Mi preparai in fretta, trascinando il mio zaino con la bombola dell'ossigeno.

Salí in macchina rapidamente dopo aver dopo aver addentato metà del mio toast con la marmellata preparato da mio padre.

Destinazione Saint Mark, o meglio destinazione seminterrato di Saint Mark, luogo di ritrovo del mio gruppo di supporto.

Ci si incontrava ogni mercoledì. Ci sedevamo disponendoci in cerchio, nel 'Cerchio della fiducia', ascoltando Patrick, il capogruppo, raccontare la sua deprimente storia: di come avesse contratto il cancro alle palle e tutti lo dessero per spacciato, e invece eccolo li, a sfruttare il suo passato canceroso per farci sentire temporaneamente dei sopravvissuti, dei reduci di guerra.

E intanto noi, in tutta quella pagliacciata, eravamo costretti a presentarci, nome, età, diagnosi, e come stavamo quel giorno.

"Ciao sono Elizabeth, ho diciassette anni. In origine tiroide, ma con una solida e nutrita colonia satellite nei polmoni. Oggi mi sento così così" ripetevo ogni santo mercoledì. Finite le presentazioni, c'era sempre qualcuno che raccontava la propria storia, del combattere, del vincere, del ricadere nell'oblio del tumore.

L'unico aspetto positivo in quel buco di psicopatici e di falsi eroi era Ashton Irwin, un tipo bellissimo, australiano, magro, dai capelli biondo cenere tendenti al castano. Aveva un cancro agli occhi. Per quanto potesse essere triste la sua storia (gli era stato tolto un occhio da bambino), era una delle tante storie sul cancro, e non avevo nessuna compassione per lui, altrimenti avrei dovuto averne per gli altri e per me stessa, ed io odio essere compatita. Dunque Ashton portava la frangetta sopra l'occhio finto, e ciò gli conferiva l'aspetto di un emo. L'occhio sano lo teneva in bella vista perché "finché posso, voglio vedere le meraviglie del mondo", ma non sapeva che le vere meraviglie erano i suoi occhi, o meglio, quello sano, di un verde così intenso, che tutte le volte mi spiazzava e mi costringeva a fissarlo come una pervertita.

Ashton una volta mi raccontò di aver aver avuto la sindrome di Stendhal. Durante un viaggio in Francia, aveva avuto la possibilità di vedere la Gioconda, e contemplando 'cotanta bellezza' (parole sue), era giunto persino a svenire in mezzo ad uno sciame di giappocinesi, armati di reflex di ultima generazione, scatenando un putiferio all'interno del Louvre.

"Preferisco perdere l'uso di tutti gli altri sensi, ma lasciatemi la vista" si lamentava sempre. Ma per uno scherzo del destino avrebbe perso l'uso anche dell'occhio destro entro poco. E lui lo sapeva bene, ma cercava di mascherare la sua fragilità con l'uniforme da duro; infondo lo capivo, usavo lo stesso metodo.

"Hai l'80% di sopravvivere al tuo male" mi dissero gli specialisti, prima di scoprire che c'era un farmaco che avrebbe potuto tenermi in vita, prolungando il mio supplizio.

Da quel momento cominciai a fare da cavia per questo nuovo farmaco miracoloso, che in realtà di miracoloso non aveva proprio niente, perché non era una cura, ma una via più lenta per la morte. Già la morte.

Ogni tanto io è Ash ci mandavamo delle occhiate seguite da sospiri, quando il gruppo si inoltrava in temi del tipo 'i benefici del veleno dello scorpione blu per combattere il cancro' o 'quale dieta anti cancro seguire'. Si parlava di argomenti ridicoli, ma d'altronde mia madre forse aveva ragione; la mia passività/disinteresse si era notevolmente espansa, e forse avrei dovuto stare al passo con il mondo.

Quel mercoledì sarebbe stato diverso dai precedenti, perché avrei avuto il piacere di conoscere Luke Hemmings.

Une saison  en enferDove le storie prendono vita. Scoprilo ora