Capitolo due

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Louis

«Papà», chiamai, mentre bussavo alla porta. «Ti ho portato degli hamburger da quel posticino in fondo alla strada che ti piace tanto».

Sistemai le buste sul tavolo della cucina e cominciai a togliere i giornali e il piatto che erano rimasti lì dall'ora di pranzo. Almeno quel giorno aveva mangiato qualcosa. A volte tornavo a casa e sembrava che lui non si fosse neanche mosso dalla poltrono, se non per prendere le lattine di birra che poi giacevano vuote tutte intorno a lui.

Non era una novità.

Era sempre stato così negli ultimi sei anni, da quando la mamma se ne andò. Non sapevo cosa fosse successo, cosa le fece prendere la decisione che non fossimo abbastanza importanti per lei. Quando ci lasciò, chiesi a mio padre cosa fosse accaduto, ma si rifiutò di parlarne con me, un sedicenne con il cuore spezzato.

Da allora, smisi di essere un ragazzino.

Non avevo brutti ricordi di mia madre. Ricordo che i miei genitori non litigavano e non gridavano quasi mai. Lei era la madre con i biscotti appena sfornati quando ritornavo da scuola, e la nostra roulotte era sempre pulitissima e profumava di vaniglia e fiori. Non credo fosse infelice, ma a ben pensarci, non credo neanche che fosse davvero felice. Non riuscii mai a chiederglielo perché persi ogni contatto quando se ne andò, ricevevo una cartolina da lei solo per il mio compleanno. Ma non c'era il mittente, né un numero di telefono, o un indirizzo email. Era chiaro che non mi voleva più nella sua vita, quindi accettai la realtà e voltai pagina. Papà, d'altro canto, si chiuse in se stesso e non ne uscì più fuori. Smise di interessarsi alla sua piccola impresa di ristrutturazioni, che era sempre stato il suo orgoglio e la sua gioia, e cominciai a sostituirlo mentre finivo le superiori. Negli ultimi due anni di scuola, imparai tutto il necessario grazie ai corsi di formazione professionale, e lavorai ogni giorno dopo le lezioni.

Nel corso dei quattro anni dopo il diploma, avevo tirato su una buona impresa. Mi ero fatto un nome ed ero diventato un punto di riferimento per chi avesse avuto bisogno di fare qualche lavoro di ristrutturazione. Avevo messo da parte abbastanza per andare a vivere da solo; avevo anche pensato di acquistare un appartamento mio, ma quella non era un'opzione fattibile. Mio padre era in quelle condizioni da tanti anni, e aveva bisogno che mi occupassi di lui.

Così decisi di andare via da dove vivevamo, le Granite Estates. Pensai che il cambiamento ci avrebbe fatto bene, ma papà ebbe una crisi di nervi. Dove si trovava doveva solo pagare l'affitto del terreno perché la roulotte era a suo nome. Non l'avrebbe mai venduta. Puntò i piedi e non ebbi altra scelta.

Una parte di me si chiese se questo avesse a che vedere con mia madre, ma non glielo domandai.

Quindi o lo avrei lasciato solo, oppure sarei rimasto con lui.

Fu così che a ventidue anni ero obbligato a vivere a casa, mentre mi prendevo cura di mio padre.

Papà ciabattò verso il tavolo con una lattina di birra piena e si mise a sedere. Indossava una vecchia camicia di flanella che avevo lavato il giorno prima e un paio di jeans logori. Aveva delle occhiaie scure intorno agli occhi rossi, un effetto causato dallo stare tutta la notte a guardare la TV. Almeno questa sera prese posto accanto a me per mangiare. Tirai fuori un cheese-burger con patatine e glieli misi davanti.

«Com'è andata oggi?». Gli feci la stessa domanda che avevo l'abitudine di chiedere a ogni cena, e ricevetti la solita risposta.

Dimmi che ti manco. Larry StylinsonDove le storie prendono vita. Scoprilo ora