Capitolo 0 - Blue strawberries

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Ero un'orfana. Sono cresciuta marchiata da questa condizione maledetta.
Quando avevo poco più di 4 mesi, i miei genitori biologici mi abbandonarono ai piedi della scalinata dell'orfanotrofio Lebensborn, originariamente un edificio occupato dai nazisti.
Passai lì i miei primi otto anni di vita.
Sì, otto anni, in cui imparai il tedesco e l'inglese alla perfezione,con un unico difetto: non potevo pronunciare nessuna delle due lingue.
Una rara malattia alle corde vocali me lo impediva.
I dottori dissero che sarebbe stato meglio  non parlare finchè non fossero riusciti  a trovare una cura, altrimenti avrei perso definitivamente la voce.
Questo fu uno dei problemi che mi rese difficile l'adozione, gli adulti che venivano non volevano un figlio malato, uno che avrebbe sicuramente perso la voce.
Il mio destino ebbe una svolta improvvisa  quando di fronte alla me di otto anni fa comparve la dottoressa Theresa Ashworth, mia madre adottiva.
Sapeva benissimo che non potevo parlare, e le stava bene.
Diceva che non avrei dovuto preoccuparmi, che avrebbero trovato un rimedio.
Le credetti, ma ciò mi ferì ancora di più.
Mi portò a casa sua, un grande appartamento con quattro stanze, la mia, la sua, il bagno e uno sgabuzzino dove teneva strane cianfrusaglie.
La sua stanza era minimalista ed essenziale, con semplici mobili di legno bianco e due sedie di pelle nera. Su una scrivania di vetro, molto ordinata, trovava posto il suo portatile.
La mia stanza non era molto diversa, sembrava una versione in miniatura della sua. Mi diede una sensazione confortevole.
Mi sembrava già di essere una di famiglia.
La parte più grande dell'appartamento era il soggiorno. Come il resto della casa, questo locale (che consisteva in un quadrato all'incirca cinque metri per cinque) era arredato in maniera similare al resto della casa. Estremamente pulito e ordinato, era collegato alla cucina, attrezzata con un piano cottura a induzione e un lavandino incassato in granito. A ridosso del muro, vicino all'anticamera prima dell'entrata, stava un comodo sofà in pelle, questa volta bianca. Una grande TV al plasma  era ancorata alla parete opposta. Nonostante l'aspetto freddo e impersonale del tutto, la casa era piena di odori e il sorriso di Theresa contribuiva a scaldarla. Osservando il soggiorno, notai una libreria in un angolo.
La libreria era piena di libri, alcuni molto complicati, sulla psicologia, che non riuscii a capire.
Ero molto stanca per il viaggio e decisi di andare a dormire, così fece lei. Prima di andare a dormire, mi diede la buonanotte con un amorevole bacio sulla fronte. Mi sentii rassicurata. Le cose stavano andando benissimo.
Ma mi svegliai nel bel mezzo della notte dopo aver sentito strani rumori provenire dal soggiorno, e visto che la porta della mia camera era aperta, nonostante la paura, decisi di andare a controllare.
Sbirciai dalla porta camera  lentamente, facendo uscire piano  la mia testa attraverso la fessura, e vidi una sagoma nera come l'inchiostro, così profonda che risaltava ancora di più dell'oscurità che la circondava, nonostante la sua forma e i suoi contorni fossero indistinguibili e irriconoscibili.
In quel momento il mio cuore smise di battere.
Avevo paura, molta paura. Troppa paura.
L'unica cosa che avevo in mente era gridare, gridare, gridare.
E così feci.
Gridai così forte da iniziare a sputare sangue, tossendo e quasi soffocando.
L'unica cosa che ricordo è il sapore dolciastro e metallico che mi raschiava la gola.
Al mio risveglio in ospedale la prima cosa che notai furono delle fragole blu dipinte sul soffitto.
Avevo delle bende attorno al collo.
Quando arrivò un' infermiera fece una faccia sorpresa che subito dopo si rabbuiò.
Theresa entrò nella stanza e velocemente mi strinse tra le sue braccia.
Il dottore fece la sua diagnosi, la ricordo ancora alla perfezione, nella sua precisa e ineluttabile fatalità: "In seguito alle gravi lesioni alle corde vocali e all'aggravamento della malattia già da prima presente, la ragazzina non potrà più parlare". Mi guardò, e nel suo sguardo notai una profonda pietà, che mi fece sprofondare nello sconforto. "Mi dispiace molto di non aver potuto fare niente."
Sprofondai con la testa nel cuscino ed iniziai a piangere, ma nessun suono uscì dalla mia bocca.
Solo le lacrime potevano parlare a quel punto.
Ma Theresa non mi lasciò.
Mi strinse a sè ed in seguito a quell'episodio, per cause lavorative, ci trasferimmo lontano, molto lontano, in Giappone, a Tokyo.
Ci misi un po' ad imparare la lingua ed abituarmi allo stile di vita, quasi un anno, quando potei iniziare a fare tutto normalmente (o quasi, considerando il mio stato) avevo dieci anni.
Ad undici anni, dopo un anno passato relativamente nella normalità, tornando da scuola, per caso, sentii una dolce melodia. Una melodia che riassumeva tutte le parole che non sarei mai stata in grado di dire. Una melodia che mi diede una ragione di vita. Una melodia che raccontava la mia storia. Triste e bellissima. Fu allora che pensai per la prima volta che quel soffitto pieno di fragole blu, l'abbandono da parte della mia madre biologica,  Theresa e la mia malattia, fossero soltanto uno strano modo che il destino aveva escogitato per farmi ascoltare quella melodia e permettermi di trovare il mio sogno.

Il bardo senza voceDove le storie prendono vita. Scoprilo ora