Ballade 1 - Träumende Mädchen

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Vienna, 1855

La reggia dello Schönbrunn è il centro di Vienna, il luogo in cui politici, regnanti e generali si riuniscono per decidere gli affari di Stato. Nessuno si sarebbe mai aspettato che, nello stesso palazzo, ogni notte una triste melodia riempiva le stanze vuote. Ogni qualvolta che veniva scoperta la provenienza della canzone, essa cessava e la sera successiva cambiava stanza.
E mentre passavan vent'anni, ogni prete, filosofo, scienziato o chiunque fosse d'aiuto a Vienna, spesso era nella reggia a tentare di mettere un punto, fallendo.

Interrogarono domestici, politici, chiunque avesse accesso alle stanze del castello compresa la famiglia imperiale, ma nessuno venne sospettato perché nessuno era il misterioso pianista. In due decadi non s'era trovato e, mentre le persone andavano e venivano, lui continuava a suonare. Non saltò neanche una notte, neanche per sbaglio.
Esso era in realtà una lei, una ragazza dalla bellezza malinconica e dalle labbra sottili ch'era tutto, meno che ciò che credevano di star cercando.

Il nome completo era Maria Mefistofelia Teodora von Ruthven, che però si presentava come Felia, una ragazza che pretendeva d'essere una duchessa austriaca ma che in realtà era la principessa dei vampiri dalle zanne ben in vista, la pelle chiara e gelata nella sua immortale giovinezza. Quel fantasma che ogni notte suonava come i grandi maestri, quella creatura introvabile era introvabile perché, effettivamente, non esisteva. Nossignore.

Che fosse su un'enciclopedia aggiornata, il più antico dei libri o un giornaletto, il termine "vampiro" non esisteva. La sua famiglia sì, era esistita ed esisteva ancora celata tra le tende bordeaux del loro maniero apparentemente in rovina nelle foreste austriache. Sulla carta, però, Madama Mefistofelia non esisteva, ma era esistita molte stagioni prima degli eventi che stiamo narrando.
Si poteva, forse, sentire in Romania il nome di una creatura simile alla sua specie, ma neanche tanto simile! Creature oscure, brutte, folkloristiche che nulla avevano a che fare con l'aspetto graziato della buona pianista.

I fianchi che vantavano sei chili in più rispetto a quello che viene definito"peso ideale" erano stretti nel corsetto bianco con dei ricami rosa, a differenza delle mani scheletriche e degli arti snelli. Come se tutto ciò che passava per il suo stomaco si fermasse sul busto e non andasse né nelle coscie né nelle braccia. Ella raggiungeva a malapena il metro e cinquantacinque centimetri d'altezza, ma di fianco agli altri membri della sua famiglia sembrava ancora più piccola.

I capelli erano lisci come la seta, neri come ali di corvo e lunghi non oltre le spalle ove si fermavano con una scalatura. Il viso pallido che incorniciavano non si era neanche una volta colorato di rosso o rosa, neanche per l'imbarazzo o il freddo, ma l'unico colore che aveva mai conosciuto era l'oro delle iridi che risiedevano in quei suoi occhi grandi ed espressivi.
I tratti erano quelli angelici della madre e si notava dal viso gentile e dalle labbra poco carnose.

Le lentiggini coprivano quel punto sotto gli occhi e sul naso e non andavano oltre, si congelavano sull'epidermide sensibile nel centro del viso per poi lasciare spazio alle occhiaie scure. Sul collo era posizionato un ematoma violaceo che risaltava sul pallore, così come gli altri disegnati con il trucco scenico su tutta la pelle visibile. Solo alcuni erano falsi e solo lei sapeva quali.
Era la sua tipica bellezza melancolica, con il pallore e l'illusione dell'eccessiva magrezza che la caratterizzavano.

Come ogni notte, in una delle tante stanze vuote del palazzo, Mefistofelia suonava il suo pianoforte dalle rifiniture in oro. Concentrata sullo spartito a leggere le note e con l'anima unicamente concentrata sul suono dello strumento, attenta a non sbagliare. Chiuse poi gli occhi, lasciandosi andare a quella canzone che conosceva a memoria.

Aprì un poco le palpebre e lesse il suo nome inciso nel nero poi tinto con l'oro fuso: Mefistofelia.
In realtà difficilmente si presentava con il suo nome, non credeva che fosse semplice per gli umani da pronunciare senza balbettare o senza associarlo a Satana. Preferiva un semplice Felia, oppure Ofelia inventando che il padre volle darle il nome del personaggio Shakespeariano. Come se dare alla propria figlia il nome di una ragazza impazzita per amore fosse una cosa normale, sicuramente chiamarla con il nome del demonio era ben peggio. Almeno in un Paese a maggioranza cattolica.

Poi s'alzò velocemente dalla seggiola, con quel suo vestito dorato decorato con brillanti, mezzo lungo e mezzo rimasto su quel cuscinetto ricamato. Il forte e meccanico ticchettio di un orologio da taschino del pendolo prese il posto delle corde pizzicate. Felia andò in iperventilazione, non riusciva quasi a respirare.
La porta era aperta.

Per quanto cercasse di rimanere calma, Mefistofelia non riusciva a darsi pace. Iniziò a pregare che fosse colpa sua, che si fosse dimenticata di chiudere la porta o che fosse stata la corrente, che una folata di vento fosse arrivata senza che se ne accorgesse.
—Va' tranquilla. — si ripeteva — non v'è nessuno, è il vento! Sì, il vento. Non mi sono accorta che c'era il vento e s'é aperta la porta. Solo questo.—

Eppure il fascio di luce dei candelabri a muro che arrivava dal corridoio non lasciava dubbi e il terrore ebbe la meglio su di lei. Iniziò a tremare leggermente quando si strinse nelle sua braccia scheletriche e, piano piano, iniziò a camminare per sapere almeno chi l'avesse sentita. Sapeva, un poco, che non avrebbe dovuto guardare, ma la curiosità era più forte di lei.
Un passo dopo l'altro, si avvicinava sempre di più verso la porta aperta e il suo corpo gradualmente veniva illuminato sempre di più dal fascio di luce.

I tacchi degli stivali alti per poco non prestarono la gonna del vestito, ma inciampò nella sua sottogonna due passi dopo, cadendo e sostenendosi sull'anta chiusa del portone. Continuava a tremare e ad avere il respiro tremolante come fosse bersagliata.
Ci volle un momento per riprendersi, poi aprì con cautela la porta cigolante e pregando che non ci fosse nessuno.

Si trovò nel corridoio illuminato solo dalle candele, con quel tappeto bordeaux che lo percorreva in tutta la sua lunghezza e le grandi finestre ad arco. Mefistofelia sentì la sua paura dissolversi quando vide la Luna piena su Vienna illuminare il firmamento con quella sua luce riflessa. Avanzó di tre passi verso la finestra e guardò intensamente il cielo ripassando le note della sua melodia.

Sentì del metallo freddo sul collo, proprio sotto la testa, e si irrigidì. La paura che era sparita ritornò puntuale come un orologio svizzero a farla tremare e sudare freddo. I capelli corvini iniziarono ad appiccicarsi alla pelle gelata della fronte.
Con le iridi dorate verso destra, notò un giovane uomo che le teneva la lama dello stocco attaccata al collo, a contatto con l'epidermide quasi a tagliarla.

Provo a dire qualcosa, ma quando aprì le labbra sottili non uscì nulla che non fosse un suono strozzato. A malapena riuscì a respirare. Solo dopo una manciata di secondi riuscì a proferire parola.
—Non ho fatto nulla di male. Non è un reato suonare il pianoforte, o  sbaglio?— chiese con voce tremante.

—Lo conoscete?— chiese l'uomo senza farsi attendere. Le sue parole furono dirette, taglienti, come proiettili d'argento.
Ofelia deglutì e provò, senza successo, a pensare a una frase che potesse salvarla.
In più di vent'anni era la prima volta che s'era fatta scovare, cambiando ogni notte sala, sempre in ordine casuale e sparendo ogni qualvolta qualcuno si avvicinasse troppo.

—Di chi state parlando?— chiese ingenuamente, percorrendo con lo sguardo tutto il percorso che separava gli occhi azzurri del giovane dal ferro dello stocco.
Deglutì e sentì la lama nitidamente sulla sua gola, a contatto con la pelle gelida. Non riusciva a respirare benché non ne avesse bisogno.
—So benissimo che non siete un'idiota, o perlomeno non abbastanza da non capire. Il pianista. Lo conoscete? Siete una sottospecie di erede o simili?—

—No, nulla di tutto ciò. Volevo solo suonare il pianoforte.— cercò di giustificarsi lei senza successo. Mefistofelia iniziava già a sentire il metallo nelle carni, entrarle dentro, tagliarle la pelle e inutile è dire che il terrore la stava consumando. Le avrebbe fatto male, molto male. Non che, nel suo rango di essere non del tutto umano, non fosse dotata di recettori del dolore.

—Certamente. Mi credi uno stupido? Suonate la melodia che per vent'anni viene eseguita nel castello e dite di non conoscere l'autore? Siete ingenua. E inutile.— detto ciò fece pressione sul collo della ragazza da far quasi entrare il ferro della spada. Lentamente, quasi a far uscire il sangue. Ma lui non andava oltre, non si muoveva in quella sua lenta tortura.
Avrebbe preferito finisse subito, che le tagliasse quella sua gola e che la credesse morta, sarebbe finito tutto in fretta.

Ofelia non riusciva più a sopportare quella tensione, quegli occhi azzurri che neanche provavano piacere nel farla soffrire in quel modo. Con quel ferro sul collo e il ticchettio dell'orologio nella testa le sembrava di impazzire.
Poi, impercettibilmente, aumentò la pressione e una goccia di sangue rigò il candido collo della corvina.

—Sono io!— gridò la giovane per poi spostarsi e indietreggiare di due passi. Guardava dritto negli occhi il suo aggressore che rimetteva nel fodero la spada senza interrompere il contatto visivo.

Bathed in GoldDove le storie prendono vita. Scoprilo ora