Capitolo 4. Evitare l'inevitabile

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10.03.2015. Tutto ha avuto inizio da quel giorno maledetto per me. Il giorno in cui, per tentare di salvarle la vita, hanno amputato la gamba sinistra alla donna più importante della mia vita: mia madre. È con lei che parlerò in questo diario, è a lei che dedicherò ogni singola riga. È per lei che io troverò la forza di andare avanti.

10.03.2015. Il giorno in cui ha avuto inizio la fine. I medici, precedentemente, parlarono con mia madre, ricoverata al Gemelli di Roma, e le dissero che erano molto alte le probabilità di "demolizione".

"Demolizione". Sembravano stessero parlando ad un operaio, riguardo la demolizione di una qualche struttura. Invece no, stavano parlando proprio della sua gamba.

Mia madre rispose subito che avrebbero potuto amputarle, o meglio, demolirle, entrambe le gambe, se questo le avrebbe permesso di "veder crescere sua figlia".

10.03.2015. Arriva il giorno della grande operazione. Mamma esce dalla sala operatoria senza la gamba. Io mi sento morire dentro. Andiamo subito nel reparto di Terapia Intensiva Post Operatoria (Tipo), chiediamo ai medici se è possibile vederla e loro acconsentono. Dopo averla sistemata nella stanza, ci fanno entrare, uno alla volta, per soli cinque minuti. Entro. Mia madre è sveglia, quasi per nulla cosciente, poiché è ancora sotto l'effetto dell'anestesia e degli infiniti antidolorifici, ma è sveglia e trova la forza per accennarmi un sorriso quando mi vede sull'orlo della porta. Resto immobile su quell'orlo per qualche secondo. La guardo, con gli occhi pieni di lacrime. Faccio un respiro profondo e decido di entrare. Mi avvicino e subito la accarezzo, con delicatezza, e con una paura tremenda di porle far male. È esageratamente gonfia, probabilmente sempre a causa di tutti i farmaci che aveva in corpo. Dopo qualche attimo di tremendo silenzio, le parlo. Non ricordo con precisione cosa le dissi, ricordo solo di averle detto di amarla. Entra anche mio padre, il quale, al contrario di me, non riesce a trattenere le lacrime. Non appena mamma lo vede piangere gli chiede: "Avevi paura che io morissi durante questa operazione, vero?", "Si". È stata immediata la risposta di mio padre a quella domanda.

La stanza è piccola, piena di strani macchinari per il monitoraggio dei pazienti. L'odore non è gradevole, ma è l'ultima cosa a cui penso, mentre guardo mia madre. Dall'orlo della porta si vede il letto al centro della stanza, posto verticalmente, e una donna sofferente, a pezzi, sdraiata sul letto. Dalle lenzuola si intravede la forma di una sola gamba, dall'altro lato il vuoto. Posso sentire le mani congelate di mia madre. È una sensazione bruttissima. Mentre cerco, delicatamente, di riscaldarla, sento mio padre che, da fuori la porta, mi chiama e mi dice: "lasciamola riposare ora". I cinque minuti sono finiti e il reparto deve chiudere, dal momento che l'orario di visite è finito.

Uscita dal reparto mi sento male, ho un attacco di panico, che però riesco a gestire. Sento tutti ripetermi di essere forte, ma non ascolto, decido di crollare per un attimo, perché tutto questo non è giusto. Decido di crollare, di dedicarmi solo qualche secondo per piangere. Continuo a ripetermi nella testa frasi come "Sono forte", "Passerà anche questa", "Darò forza alla mia mamma in ogni modo possibile". Alzo lo sguardo e vedo mio padre preoccupato per me, ma ancor più per la mamma. Mi asciugo le lacrime e mi faccio forza. "Non posso mollare proprio ora, mamma non lo ha fatto", penso.

Quella sera prenotiamo una stanza dalle suore. Ah, le suore! Tipette molto simpatiche, gentili e premurose. Sono state molto educate nei nostri confronti, e più di una volta hanno dedicato una preghiera alla mia mamma. Arriviamo nella stanza in cui avremmo dovuto riposare e posiamo le nostre cose affianco ai rispettivi letti. Poco dopo vedo mio padre dirigersi verso il bagno. Lo osservo. Inizia a piangere e io lascio che sfoghi l'immenso dolore, provocato dalla visione di mamma in quelle condizioni. Continuo ad osservarlo. Inizialmente non capisco cosa stia facendo, poi tutto diventa più chiaro, dopo averlo visto tentare di stare in piedi su una gamba, poggiato con le mani sul lavandino. Cerca di immedesimarsi in mamma. Cerca solo di capire come si potrebbe sentire mia madre senza la sua gamba.

Quella sera le lacrime hanno prevalso sulla stanchezza, e le ore sembravano non passare mai.

Indescrivibile il dolore che ho provato nel vedere mia madre soffrire in quel modo, guardarla negli occhi e percepire il suo grido di dolore.

Il giorno successivo la portano in una stanza del reparto di Ortopedia e Chirurgia d'Urgenza, al settimo piano, dove, a insaputa di tutti, mia madre sarebbe rimasta fino alla fine. E con "fino alla fine" intendo proprio la Fine.

Settimo piano, stanza numero due. Entro e mia madre è ancora priva di sensi, a causa dei farmaci. Passa qualche giorno, ed inizia ad accusare dolore, un fortissimo dolore, che i medici e gli infermieri tentano di calmare costantemente, in ogni modo possibile. La vedo lì, di fronte a me, piangere dal dolore. Sento il cuore stringersi nel mio petto. Sono impotente di fronte a tale situazione, per cui, non sapendo cosa fare, le prendo la mano e cerco di dirle qualcosa per tranquillizzarla, ma nei suoi occhi vedi solo paura. Tanta paura.

È ora , per me, di tornare a casa, in Calabria, seguire le lezioni, preparare gli esami e continuare la mia vita, sapendo che mamma è in quella stanza, privata della sua gamba, della sua vecchia vita, di tutto ciò a cui aveva sempre pensato, perché, ovviamente, non avrebbe mai pensato di finire su un letto di ospedale a cinquantacinque anni, senza la sua gamba, con la paura tremenda e logorante della morte.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Jan 08, 2023 ⏰

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