RATTO DI PROSERPINA

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RATTO DI PROSERPINA

La notte era diversa dal solito, era fine estate, l'aria gelida era spinta da un vento che mi penetrava le ossa.
Stavo camminando veloce, per le vie del mio paesino in Sicilia. Niente di che, un posto tranquillo, con le sue chiacchiere di corridoio e la semplicità di un comune ristretto. Ci si conosceva tutti. Almeno così credevo.

Mi chiamò Anita, non volli rispondere subito, cercare il telefono nella borsa era un'azione noiosa, soprattutto se si trattava della mia tracolla.
Lo feci, ero in ritardo – come sempre – ed era giusto avvisare la mia cara amica del liceo che stavo per arrivare.
Una riunione, un ritrovo, quando Anita tornava giù dal Nord si festeggiava sempre. Io, che non avevo mai avuto chissà quale coraggio nella vita, non ero stata in grado di inseguire quel sogno, quello della partenza, dello staccarsi dalla famiglia per avere fortuna.
Ero rimasta nei campi di mio padre a coltivare la terra, vendendo i miei prodotti al mercato del paese.
Diciamo che si sopravviveva. Inoltre ero ben voluta dal posto, la vita mi aveva regalato una sola gioia: la bellezza.
Me lo ripeteva sempre mio padre: 'Proserpina ti chiamai, perché sei beddaa com unu statua.'
Eppure non riuscivo a mantenere quella tanto elogiata bellezza, tenevo sempre i capelli raccolti, avevo le unghie sporche per il lavoro e dei vestiti mediocri, nulla di che.
Ma non mi dispiacevo, certo, ma qualvolta rivedevo Anita, notavo che ringiovanisse di giorno in giorno, come se, andando al Nord, avesse stipulato un meraviglioso patto col diavolo.
Ero invidiosa, ma non la trattavo male per questo, amavo la sua compagnia: mi mancava ogni giorno in paese.
"Pronto" – dissi con la voce affaticata dalla corsa – "Anita sto arriv..."
Non ebbi tempo di finire la frase che mi saltò sopra: "Pina" – era il mio nomignolo – "Dove sei tesoro? Ti stiamo aspettando al bar sbrigati!"
Mi velocizzai ancora di più, facendo svanire ogni ombra di freddo dal mio corpo, sentendomi sgridata dalla mia cara amica.
Arrivai sudata, con i capelli sciolti ma ora gonfi per l'umidità del mio corpo, così li legai poco dopo averla salutata con due baci sulle gote.
Mentre passavo l'elastico sulla testa sentii un ragazzo pregarmi di smetterla: "Bedda di matri, non legarti i capelli!"
"E tu sì un surci" – gli rispose in modo provocatorio Anita.
La rimproverai, era stata maleducata, chiamare ratto un ragazzo che mi stava facendo dei complimenti.
"Tesoro, al Nord una donna non viene toccata nemmeno con un fiore, figurarsi urlarle contro che è bella."
Era vero? Non saprei, il mondo di cui mi parlava ogni volta era così distante dal mio da apparirmi irreale.
Comunque i complimenti a me non dispiacevano, anzi, era ormai quel poco che mi rimaneva.
Fissai il ragazzo sorridendogli, alzando il bicchiere verso di lui.
Forse capì male, fatto sta che quel drink mi venne gentilmente offerto.
"Lasciali stare quei poracci Pina. Sei così disperata da cercare marito? Hai ventisei anni, sono i nuovi sedici. Lascia stare e pensa a vendere la terra di tuo padre."
Le sue parole erano difficili da comprendere, non li accettavo in vero questi consigli, ma annuì comunque.
Non ero una ragazza capace di rispondere mai a tono, le paranoie mi assorbivano tenendomi ferma, come sull'occhio di un ciclone.

Mi invitò a farmi accompagnare a casa, con la macchina di sua madre, ma volevo camminare, questa volta con calma, lasciandomi abbracciare dal vento di fine Settembre. La salutai e mi incamminai.
Era nuvoloso il cielo, copriva le stelle, ma anche al buio non temevo quelle strade, erano le stesse di ogni giorno e ogni notte, le avrei potute fare ad occhi chiusi e sarei arrivata comunque sana e salva.
In un istante però, quell'immagine di quiete notturna, si distaccò completamente. Arrivava il caos intorno a me, in un secondo troppe azioni, difficili da ricordare in ordine.
Prima sentii una presa sui miei fianchi, l'alito alcolico di quell'uomo, poi altre mani si unirono su di me.
Ero bloccata in un abbraccio soffocante, poi riconobbi il ragazzo del bar.
"Sei andata via senza darmi un bacio" – disse, schiaffandomi sul naso tutta la puzza delle sue interiora.
"L'ho ringraziata per il gesto" – parlavo del drink offerto – "ma non potevo trattenermi."
Tremavo come non mai, non riuscivo in alcun modo a farmi forza.
"Ora hai tempo per darmi tutta la gratitudine che vuoi."

Dopo quella affermazione, iniziò a leccarmi il collo, io smisi di respirare. Le altre mani mi spogliarono, mentre io mi dimenavo come un maiale spinto al macello.
Ero carne senza anima per loro, invocavo Dio, ma anche lui mi voltava le spalle, oppure si aggiungeva a quel maledetto momento, godendo di ciò che mi veniva fatto.
Se non avevo più Dio, nemmeno lui, non avevo vita.
Mi entrarono dentro, uno alla volta, scavando nelle mie viscere con prepotenza, tappandomi la bocca anche se non emettevo alcun suono ormai. Lacrimavo con gli occhi aperti, guardando il cielo che finalmente si apriva, mostrandomi la luna.
Eccolo, lo vidi, era l'occhio di Dio, che mi diceva: "Non sei più una donna. Sei una bestia."
Non saprei dire con certezza in quanti mi violentarono. Due o cinque poco importa, non smisero nemmeno quando iniziai a perdere sangue, perché il mio corpo si rifiutava di cedere alla loro presenza, stringendosi di più, sottraendosi nell'inconscio a quella brutalità, irrigidendo ogni mio muscolo.
Poi lasciarono tutta la mia carne solamente a lui, la persona che aveva iniziato questo infinito abbattimento – del mio spirito – il ratto. Il sorcio, che mi tirava su da terra, sporca ora del sudore dei suoi compagni, penetrandomi da in piedi ovunque gli fosse possibile, mentre io per un'ultima volta mi dimenavo per allontanarlo, spingendolo via con le mani. Gliele misi anche sul volto, ma la sua presa addentava la mia pelle come i denti di uno squalo.
Chiusi gli occhi e feci l'unica cosa che mi era possibile: sperare finisse presto, oppure, sperare mi uccidessero subito.
Mi buttò a terra come un sacco di patate, orgoglioso del suo orgasmo, mentre io ancora con gli occhi sbarrati, aspettavo che se ne andassero, continuando a rimembrare l'ultima scena che vidi.
Io e lui, come la statua del ratto di Proserpina, io che mi cercavo inutilmente di staccare ed egli, il re degli inferi, di ogni male, che mi toglieva ogni cosa.
Avevo perso tutto: la vita mi apparve improvvisamente inutile, la mia terra mi aveva rifiutata, gli uomini mi avevano abusata, Dio mi aveva giudicata ed io ora non riuscivo più a guardarmi allo specchio.

Ma la maledizione non cessò lì, no, ancora oggi mi ferisce con in grembo il figlio di uno stupro.
Non ho le forze per toglierlo dal mio ventre, non ho il coraggio per regalargli questa fortuna, la benedizione di non nascere.
Lui esisterà, ed io lo odierò.


Fine.

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