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La luce tornò a impossessarsi della mia vista, a volte pensavo così tanto che credevo di perdermi, chiudendo gli occhi e abbandonandomi al buio scetticismo dei miei pensieri.

Probabilmente, se mi avessero chiesto di presentarmi, lo avrei fatto così: "Ciao a tutti, mi chiamo Anya Carwey, ho diciassette anni e sono la figlia di uno degli uomini più ricchi d'America. Ho i capelli pieni di boccoli ramati e gli occhi color nocciola. La mia vita è perfetta, ho un bellissimo fidanzato (ovviamente uno dei più popolari della città), abito in una villa a San Francisco con mio padre e non ho amici."
Già, non avevo amici, il mio ragazzo stava con me solo perché avevo i soldi, mia madre era morta due anni prima e mio padre mi usava come se fossi una bambolina da esporre. Avrei detto che la mia vita era perfetta? Avrei detto la più grande cazzata immaginabile.
Ma in fondo, agli occhi di tutti lo era, io ero la figlioletta viziata di John Carwey, il proprietario della famosissima azienda Carwey, produttrice delle più innovative attrezzature della FBI, potevo avere qualsiasi cosa io desiderassi: scarpe, vestiti, cellulari, accessori e gioielli all'ultimissima moda.
Ma anch'io avevo dei limiti: non avevo amici, non avevo una madre, non avevo un ragazzo che mi amasse e mio padre si dimenticava pure del mio compleanno. Ah, a proposito: quel giorno, 22 novembre, era il mio diciassettesimo compleanno. Ci sarebbe stata una grande cena nella sala ricevimenti di casa mia, organizzata da mio padre, c'era solo un piccolo particolare: la cena non era per me, ma per convincere alcuni azionisti che mio padre non aveva alcun interesse nel distruggere l'azienda di Ronald Fynman.

Ronald Fynman era l'uomo che con mio padre si contendeva il titolo di "uomo più ricco d'America" da anni, possedeva un'azienda di alta tecnologia che, come l'azienda di mio padre, forniva attrezzature d'avanguardia alla FBI. Lui e mio padre erano nemici giurati.
Ma in fondo Ronald Fynman era l'uomo più odioso che conoscevo, anzi esisteva solo un'altra persona più odiosa di lui: suo figlio!
Si chiamava Lion, alto, biondo, occhi azzurri, il ragazzo più popolare della scuola, presuntuoso, insopportabile e odiosamente intelligente, conoscevo pure la data del suo compleanno... come mai? Bè, era nato il mio stesso giorno!

E come se non bastasse vederlo a scuola, poiché era un mio compagno di classe, lo dovevo vedere anche quella sera con il suo "papino" alla cena "di pace".
Io e lui non avevamo ottimi rapporti, in realtà non ne avevamo proprio, l'unica conversazione civile fra noi avveniva quando dovevamo decidere qualcosa riguardo ai progetti cui partecipavamo. Lui, come me partecipava a ogni progetto che avesse la caratteristica di allontanarlo da casa il più possibile. Tuttavia, non sempre era stato così: da bambini io e lui eravamo parecchio amici.
Eravamo sempre stati compagni di classe, fin dall'asilo, probabilmente nessuno dei nostri genitori aveva voluto contraddire il caso, o magari la vedevano semplicemente come un'altra forma di competizione fra loro, o per meglio dire, fra la loro progenie. A discapito di tutte le aspettative, io e Lion ci divertivamo parecchio insieme e facevamo di tutto per vederci più spesso: alle medie eravamo soliti farci mettere in punizione per restare a scuola anche dopo la fine delle lezioni e avere una scusa con i genitori, che dal canto loro, credevano che ci odiassimo così tanto da farci anche dispetti pesanti l'uno all'altra. Sfortunatamente o fortunatamente, dipende dai punti di vista, capivamo il valore dei soldi anche a quell'età: era con quelli che pagavamo gli insegnanti, affinché dicessero ai nostri genitori che non andavamo d'accordo, quando invece eravamo complici in tutto. Lui mi difendeva quando venivo attaccata da dei bulli ed io, invece, pianificavo crudeli vendette contro chi lo prendeva in giro. Non sono mai stata una brava e dolce bambina, mi piaceva un sacco vedere come gli altri bambini cadevano nei miei tranelli.

Le cose iniziarono a cambiare una volta entrati al liceo: io, al contrario di Lion, non stavo simpatica a nessuno, alcuni affermarono anche di avere paura di me, lui iniziò a evitarmi e non veniva più nemmeno a scuola, correva voce che fosse malato, e quando tornò, gli chiesi come stava e cosa avesse avuto, ma l'unica risposta che ricevetti fu l'ordine di non avvicinarmi mai più a lui né di rivolgergli in alcun modo altre parole. Quel giorno rimasi sbalordita dal suo comportamento e pensai che preferisse l'amicizia di altri piuttosto che la mia, così non gli rivolsi mai più la parola se non per casi di estrema necessità. Da quel giorno rimasi davvero sola.

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