16. (M) Il mondo non si è fermato mai

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«Matthew, ciao.»

Il tono di papà al telefono è attento, misurato, potrei dire matematico.

«Siete arrivati?»

La mia risposta secca deve averlo preso in contropiede, perciò ci mette qualche istante a rispondere - e io rimango in silenzio sul letto a guardare il cielo grigio pesto fuori dalla finestra.

«Sì, stamattina presto. Pensavamo di fare una visita al Pergamon e poi di incontrarti, se hai tempo.»

«Sono libero dopo le quattro. Prima lavoro.»

Altro istante di silenzio da parte di papà - e io annuso il profumo di caffè che viene dalla cucina e penso alla colazione che mi aspetta tra poco.

«Va benissimo. Dimmi tu dove, io vedo di arrivarci.»

«Voi vedete» lo correggo, ma poi mi accorgo che il mio tono sembra ostile e io tutto voglio essere tranne che ostile. «Direi che vi posso raggiungere alla Museumsinsel. Poi ci spostiamo assieme.»

«È l'isola dei musei?»

«Sì, scusami. I toponimi li dico soltanto in tedesco ormai e...»

«No.» La voce di papà è diventata stentorea e calda. «Va benissimo, anzi. Sono felice di poterti incontrare a casa tua, finalmente. Sono quasi due anni che non ci vediamo.»

«Lo so» rispondo. E basta. Che altro devo dire? So benissimo tutto, esattamente come lo sa lui. Tutto quello che è stato e perché è stato così. Il motivo per cui sono così in ansia per la sua visita a Berlino e il cambiamento nel nostro rapporto che è causa di quest'ansia. Forse non ne abbiamo mai parlato sul serio, ma sono certo che entrambi sappiamo benissimo tutto ciò che serve sapere.

«Va bene, allora alle quattro all'isola dei musei.»

«Ci sarò.»

«Lo so». Un sospiro profondo, che immagino accompagnato da un sorriso. «Ti voglio bene, Matthew.»

«Anche io, pà. A dopo.»

Spengo la chiamata, veloce e lapidario, perché tutto quello che mi serve è correre via da questo immane casino, nascondermi da qualche parte e ficcarmi la testa tra le ginocchia finché questo tremore e questa nausea non se ne saranno andati. Perché, perché ho paura? Perché sento questa voragine dentro alla pancia che mi risucchia?

La risposta la so, ma non me la voglio dare. Non ora, non adesso. Più tardi so che diventerà palese, ma per ora, per adesso, cercherò soltanto di alzarmi da questo letto e andare a fare colazione, cancellando dalla mente ciò che mi aspetta e tutti i motivi per cui temo le persone che dovrò incontrare.

«Matt? La colazione è pronta se vuoi venire.»

Il tono lieve con cui Bella si affaccia alla soglia della camera rischia di farmi venire una crisi di nervosismo ancora più profonda: possibile che non si sia accorta che da una settimana a questa parte sono preso... così? Che mangio poco, dormo nulla, sono sempre in giro e mai qui da lei - che ormai mi ospita come se fosse casa nostra, questo appartamento tutto bianco e preciso, tutto Bella e niente me. Possibile che non abbia percepito il mio disagio? Che non ne voglia capire il motivo?

Calcio via il piumino e ciondolo verso la cucina, le palme dei piedi intirizzite dal freddo del pavimento e le gambe nude che tremano sotto la t-shirt. Ma io non sento - quasi - nulla. Sono tutto proiettato avanti, a ciò che succederà dopo le quattro.

«Ma non hai freddo? Così congeli» mi redarguisce Bella.

Sbuffo, scuoto la testa e mi siedo al tavolo. Il legno della sedia mi graffia la pelle delle cosce, ma non me ne curo. Tiro a me la tazza di caffè, due mani tremanti contro la tazza bianca con le nuvole blu - il contrario di com'è in natura, che il cielo è blu e le nuvole sono bianche pure nella grigia Berlino, ogni tanto, e dopo mesi che bevo in questa tazza ancora non mi riesco a spiegare perché le abbiano disegnate così, contrarie, storte, irreali, ché il mondo non si è fermato mai ha sempre girato per lo stesso verso e le nuvole sono sempre state bianche, al massimo grigie, e mai blu, e il cielo non s'è mai visto bianco, lo so, ne sono certo.

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