9. (M) Perdere la strada

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Domenica mattina.
Undici passate.
Terrazzino di casa.
Sole debole, un po' di vento.
Due tazze di caffè espresso preparato da Luciano.
Un po' di canapa rollata in due cartine da sigarette.
Due sedie di plastica bianca rovinate dalla pioggia e dal gelo.
Due coperte di lana, una rosso cupo e una di un giallo indefinito.
Un filo di musica che viene da dentro casa, di cui riusciamo a indovinare qualche accordo.

Io e Yuriy ci stiamo godendo l'inizio del nostro weekend con tutta la placida stanchezza di chi sa di avere un giorno libero tutto per sé.

Il gigante è venuto qui con Luciano, come ogni settimana, per pranzare tutti assieme, e mentre Lucs e Theo stanno dentro a leggersi il giornale, noi ci accaparriamo il nostro muto angolo di serenità. Non vola una parola, tra noi due, solo tacito assenso sul fatto che un'oretta di calma e di silenzio, al freddo di Berlino, tra aroma amaro di caffè e dolciastro odore di Cannabis bruciata, non possa che giovare alla salute – fisica e mentale.

«Mmh, Matt, ascolta. Ti ricordi l'altra sera?»

Alzo di poco la testa, la scuoto violentemente e torno a poggiarmi sullo schienale della sedia. «Yuryi, perché interrompi il sacro silenzio della domenica mattina?» borbotto.

«Dai, non fare il pedante. Devo dirti una cosa.»

«E non lo puoi fare dopo? Tipo... dopo

«No, cazzone. Ne dobbiamo parlare solo io e te.»

Con queste parole Yuryi ha inevitabilmente attirato tutta la mia attenzione. «Ehi. Che succede?»

Il gigante scrolla lo spinello, lo appoggia sul tavolino che ha a fianco e poi beve l'ultimo sorso di caffè. Sembra agitato, si muove a scatti, e io inizio sul serio a preoccuparmi. «Niente di grave. Te la ricordi o no, l'altra sera?»

Annuisco. Qualcosa ricordo, tra alcool e giramenti di testa. Poco, ma l'essenziale: mi sono ubriacato, ho vomitato e poi Theo mi ha portato a casa.

«E quindi ricordi anche quello che ti sei scritto sul braccio?»

«Sul braccio?» Che cavolo sta dicendo? Istintivamente alzo entrambe le mani e osservo gli avambracci per un secondo: niente, tutto come sempre. «Che intendi, Yuryi?»

Il batterista scuote la testa. «Va bene, non lo ricordi.» Si alza in piedi, spostandosi di fronte a me, e poi si piega sulle ginocchia, poggiandosi con le mani alle mie. «Hai incrociato una donna, mi sa. Ti ha colpito a tal punto che, pure da ubriaco, ti sei scritto delle frasi con una penna sul braccio per imprimertele addosso.»

Una donna? Delle frasi che mi sono scritto sul braccio? «Ma che...»

«Ora, a me non interessa chi fosse questa tipa. Ma parliamoci chiaro, Matt: sono mesi che non scrivevi nulla. A quando risale l'ultimo spartito che hai abbozzato? A un mese prima del provino? O di più

«Penso di più» mormoro, ormai incapace di capire che stia succedendo.

«Capisci anche tu cosa ciò significa? Hai trovato un istante di ispirazione. E credimi, le parole erano fantastiche. Se la musica fosse bella anche solo la metà... avremmo un singolo che spacca, potremmo tornare a galla.»

Ora inizio a capire. Capisco la preoccupazione che tende le corde vocali di Yuryi, il luccichio dei suoi occhi di ghiaccio che tiene stretti, serrati, quasi chiusi. So perché è preoccupato, so cosa teme. Non me ne ero reso conto, di avere la sua stessa paura, ma ora inizia a salirmi in testa la consapevolezza di quello che ho fatto negli ultimi mesi: niente. Non ho scritto nemmeno mezza nota, nemmeno una parola smozzicata. Ci siamo presentati al provino con una canzone vecchia, di dicembre ormai, ma quella andava bene, io pensavo che poi avrei ricominciato. E invece niente, non è uscito altro. 

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