Vittorio

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«Entrate, su. Non fatevi pregare.»

Edda sospinge indietro la porta, cerca a tentoni l'interruttore. Una luce tremula si diffonde, si allarga pallida nel corridoio angusto.

Vittorio la segue. Varca la soglia con un misto d'ansia e timore. «Permesso?» chiede, una frase innaturale perfino alle sue stesse orecchie.

«Siamo noi due soli» risponde Edda, un sorriso appena dischiuso.

«Bene» ribatte l'altro, impacciato.
Non mostra la minima emozione, lei. No.

Gli indica una porta, con fare pratico e sbrigativo. «Accomodatevi nel soggiorno, vi va? Preparo qualcosa da bere, nel frattempo.»

E lui si accomoda, obbediente.

Un soggiorno come non ne aveva mai visti. Mobili moderni, in quello stile asciutto, dalle forme rigide e diritte, delle tanto decantate arti decorative che Vittorio, prima di adesso, non aveva mai avuto modo di ammirare. E quadri, quadri privi di una consistenza o di una forma, geometrie confuse e colori vani.

Si siede sul divano, cercando di apparire disinvolto. Con un gesto secco, sgancia i primi due bottoni della divisa, per sembrare a suo agio.

E riallaccia il secondo, perché teme di sembrare eccessivo.

Com'è che ci si comporta, in questi contesti? Non gli è mai successo, mai. E dire che è un uomo di mondo – non un ragazzo di primo pelo, questo è certo. Un uomo che ha viaggiato, che conosce le case di tolleranza così come la fama libertina delle donne del nord Europa. Ha sedotto e corteggiato, ha appoggiato le mani ruvide su pelli candide e morbide, su gambe che si sono serrate, sconvolte dal suo ardore; ha assaporato così tante volte il brivido dell'assedio e della resa.

«Vorreste dell'altro vino, magari?»

No, non ne vorrebbe. Non vuole ubriacarsi, non vuole che quella notte, quale che sia la sua conclusione, scivoli via in un confuso delirio di stanchezza ed ebbrezza. «Preferirei un caffè» risponde, la voce alta che chiama un viso assente.

«Venite, allora. Il caffè impiegherà un po' a salire» ribatte Edda.

Vittorio segue la scia dei rumori dell'altra: un'anta che cigola, lo sbattere di un barattolo. Varca la porta della cucina e la trova; gli dà le spalle, mentre riempie d'acqua il serbatoio della caffettiera. Si volta, lo guarda.

«Sicuro di non desiderare altro?» gli chiede.

Lui scuote appena il capo, intenerito dai movimenti lenti e un po' impacciati di lei, così lontana dal suo mondo, in quella cucina fin troppo pulita. Le mani di lei non sono nate per quel misero e umile compito: sono mani fini, eleganti.

«Lasciate fare a me» dice, ed è compiaciuto vedendola farsi da parte.

Appoggia il filtro sulla caldaia, vi rovescia dentro qualche cucchiaino di polvere di caffè, la comprime. Avvita con forza, appoggia la macchinetta sul fornello. Accende un fiammifero con un gesto secco, gira la manopola del gas. Semplice, eppure così distante da lei.

Si volta e la guarda prendere da uno sportello due tazze. Perfino quelle non hanno nulla di consueto: non è la porcellana fine che si riserva agli ospiti.

«Ci volete dello zucchero?» gli chiede.

«Sì, grazie.»

«Una o due zollette?»

«Due.»

Ed Edda prende le due zollette dalla zuccheriera, le sistema sul fondo della tazzina. «Amate le cose dolci, vedo» commenta, un sorriso.

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