Capitolo 1

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Mi chiamo Amanda ed ho 19 anni.

Scendo in cucina a prendermi una tazza di caffè, credo ormai di drogarmi con la caffeina, ma non appena sento questo odore sobbalzo dal letto come se fosse il richiamo dell'amore.

Prendo la mia tazza e mi siedo sul davanzale della finestra, la apro, mi piace godere della vista degli alberi che mi circondano, sono così secchi, suscitano in me fascino e tristezza.

Penso.

Penso a mio padre, dio quanto mi manca, è sempre fuori per lavoro, okay che guadagna più soldi in modo da permetterci di pagare le visite di mia madre ma, così è come se mancasse un pezzo di me; con il passare del tempo sto imparando a fare meno l'egoista e a pensare più agli altri, precisamente a mia madre.

Non che io non le voglia bene, anzi, me ne preoccupo molto, si è ammalata qualche anno fa, ora è in una clinica al reparto di neurologia, non parla con nessuno, solo con papà, delle volte si impegna a mangiare qualcosa.

Io e papà andiamo a trovarla tutti i fine settimana, il sabato sera preferisco andare da lei piuttosto che in giro per locali a divertirmi con i miei amici; nessuno di loro conosce questo lato della mia famiglia, nessuno che mi fa domande e nessuno a cui io debba rispondere.

Va bene così.

Sarebbe meglio tornare a dormire.

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Mi alzo dal letto e inizio a prepararmi, indosso un pantalone skinny nero, una camicia a quadri bianca e nera e i Dottor Martins; corro in cucina a bere il caffè che mi ha lasciato mio padre con un biglietto:
"Sono tornato mentre tu dormivi, ti ho baciato la fronte e sono andato dalla mamma, non sta tanto bene, quando torni da scuola va da lei e stalle accanto, io torno al lavoro. Papà ti vuole bene."

Sorrido e mi incammino verso scuola.

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«Hey, sconosciuta.» sento una voce conosciuta, mi volto e vedo la mia migliore amica; «Hey, donna, stai entrando?» le dico sorridendole; «Sì, corriamo, il Professor James vuole parlarci.»

Entriamo nell'aula di biologia dove il professore inizia a fare il suo solito monologo da quattro soldi, una noia da morire.

«L'anno è iniziato e voi siete degli incapaci, senza problemi personali e con poca voglia di studiare, vergognatevi, se scopro il colpevole di chi ha fatto esplodere volontariamente una provetta nell'aula di scienze, lo faccio sospendere.» ci dice di prima mattina tanto per farci iniziare bene la giornata.

Inutile prenderci in giro, sappiamo tutti chi è il colpevole, è proprio in questa classe, terzo banco nella fila di sinistra, alto, moro, occhi verdi, braccia tatuate, un piercing sul sopracciglio sinistro, una voce calda e intensa che provoca in molte ragazze eccitazione e ossessione, il due volte ripetente, Nathan Brody.

È un ragazzo solitario, non segue mai la lezione, viene a scuola esclusivamente per fare presenza nonostante stia sempre per conto suo, è un tipo molto taciturno, in classe non interviene mai anche se in cortile si sente quasi ogni giorno il suo nome pronunciato all'interfono che gli comunica di andare nell'ufficio del preside, viene sempre coinvolto in qualche rissa; secondo me è lui a cominciare.

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Davanti alla clinica le gambe mi tremano, vado in tilt e non so mai se entrare o meno.

Entro, proseguo verso l'ascensore e seleziono il 15esimo piano, entro nella stanza e trovo mia madre seduta accanto alla finestra, com'è bella.

«Mamma, come ti senti oggi?» mia madre si volta per guardarmi, non parla più, gesticola e mi fa un sorriso, credo proprio che oggi sia un splendida giornata per lei.

Mi avvicino e mi ci siedo accanto, porto davanti a lei la minestrina che le hanno preparato le infermiere, avvicino lentamente il cucchiaio alla sua bocca in attesa che la apra e inizia a mangiare tranquillamente; sono contenta dei suoi sviluppi.

I medici dicono che ormai rimarrà così ma che ci sono molte probabilità che in futuro torni a parlare, anche se il suo vocabolario non sarà più così ricco come un tempo; finito di mangiare la faccio stendere sul letto e io accanto a lei, accendo la televisione e ci mettiamo a guardare i cartoni animati, adora i cartoni animati, così inizia a sorridere ininterrottamente, poggia la testa sulla mia spalla e passa la mano sul mio cuore, un po' come a dirmi che mi vuole bene.

«Ti voglio bene anche io, mamma.» le dico per rassicurare sia lei che me stessa.

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