Era un normale, innocuo e fresco pomeriggio di primavera. Da settimane mi dicevi che ti eri stufato di mandarmi messaggi. Da settimane mi dicevi che desideravi una conversazione faccia a faccia. Da settimane lo desideravi, ma evitavi di vederlo come un appuntamento. Ammetto che nemmeno io volevo pensarlo in quei termini. Ero d'accordo con te. Parlare solo per telefono era sbagliato, restrittivo, non sufficiente per mostrare l'altro lato della medaglia, quel lato di te più tenero e gentile che con gli altri stentava a uscire.
Da settimane lo desideravo anche io e, per non farlo sembrare un appuntamento, mi avevi suggerito di venire a casa tua in un qualunque pomeriggio di primavera. Mi dicesti che avresti fatto il caffè più buono di tutti o, semplicemente, più buono del mio. Qualche giorno prima ti avevo invitato a pranzo da me, così... All'improvviso. Eravamo a scuola, mi chiedesti un aiuto in matematica e sapevo che a casa, quel giorno, non ci sarebbe stato nessuno. Così ho colto l'occasione. Era davvero imperdibile. Mia madre torna da lavoro ogni giorno all'ora di pranzo e mio padre nel primo pomeriggio, ma quel giorno la casa sarebbe stata vuota. Non perché fossero in viaggio o in vacanza. Mia madre stava male, era ricoverata in un reparto di neurologia di città e mio padre era lì, accanto a lei. Colsi l'occasione solo perché lui voleva imparare qualcosa di matematica ed io... Io non volevo pranzare da sola mentre pensavo a mia madre.
La cosa fu talmente improvvisata che non sapevo cosa avrei dovuto cucinare, così, per facilità, passammo a prendere del cibo pronto in un bar.
Mentre mangiavamo insieme, uno di fronte all'altro, ricordo di non aver provato quel senso di imbarazzo che, di solito, contraddistingue i primi appuntamenti. Già, non lo era affatto. Eravamo solo due compagni di classe che avrebbero dovuto fare i compiti di matematica insieme. Ti feci il caffè. Ti feci un caffè terribile. Non ero (non sono ancora) un'abituale consumatrice di caffè. Lo prendo così raramente che a farlo non sono mai io. Non sapevo fare il caffè e tu te ne eri accorto.
Quando arrivai col treno sotto casa tua, mi guardai intorno e non vidi nessuno. Oltre te, in classe c'erano altri ragazzi e ragazze del tuo paesino. Sapevamo che se ci avessero visti insieme avrebbero iniziato a sospettare. E sospettare significa curiosare. E curiosare significa intromettersi. Tutte cose che entrambi non volevamo. Quando arrivai sul tuo pianerottolo ed entrai tu non c'eri. Sentii delle voci e subito capii che i tuoi genitori erano lì, magari in cucina e che tu non avevi nemmeno pensato di venirmi ad accogliere alla porta per chissà quale motivo.
Credo sia stato meglio. Feci un grande respiro e mi dissi:" vah! Non imbarazzarti!". Arrivata in cucina vidi tuo padre, un uomo alto, pelato con una leggera barba sul mento. Gli strinsi la mano con cortesia. Mi rispose che a momenti sarebbe arrivata anche la moglie ad accogliermi e che molto gentilmente mi avrebbe preparato il caffè se avessi gradito. Dalle nostre parti il tè o la camomilla sono considerati dei purificanti, più che delle merende, perciò non mi stupii di sentire tuo padre non nominarli. Fortunatamente arrivasti tu a salvarmi.
Volevi dimostrarmi di saper preparare un caffè buonissimo, così ti avventasti sulla caffettiera, impedendo a tuo padre ogni tentativo d'approccio.
Tua madre apparve con una folta e riccia chioma castana, una camicetta velata bianca e con il cappotto sul braccio. Salutai anche lei con cortesia e decisione, per vederla svanire con il marito verso chissà quale supermercato.Il caffè era davvero buono. Sicuramente era migliore del mio. Mi appoggiasti persino la caramella. Mi dicesti che se ci fosse stata tua madre ad accogliermi, certamente me l'avrebbe offerta. Ti sorrisi e la rifiutai, perché se era già raro che prendessi il caffè, era ancor più raro che prendessi la caramella dopo il caffè.
La tappa successiva fu lo studio di tuo padre. In mezzo alla stanza c'era una lunga scrivania quasi vuota, riempita solo con qualche fotocopia e un vecchio computer. Ovviamente c'era la gran poltrona nera di pelle. Ti ci sedesti sopra e poi, tirandomi il braccio, mi facesti sedere sulle tue gambe. Era la prima volta che accadeva. Di solito eri tu quello che, senza ritegno, veniva a disturbarmi mentre facevo gli esercizi a scuola per poterti sedere su di me.
Ero felice ed imbarazzata allo stesso tempo. Così imbarazzata che preferii guardare lo schermo del computer dove ci stava un planetario così vecchio che bloccò immediatamente il sistema. Ti mettesti a ridere perché mi avevi avvertito di non aprire il programma, ma io lo feci lo stesso.
Fu lì che ci guardammo negli occhi. Ad un tratto sentii le tue braccia avvolgermi e il tuo viso sul mio petto:" Hai un buon profumo".
È l'unica cosa che provasti a dire. Mi baciasti il petto e, prendendomi la mano, mi portasti in camera tua per mostrarmi la tua vasta collezione di monete commemorative.
Adesso eri tu quello in difficoltà. Non durò molto. Dovevo andare via e non volevi. Ci appoggiamo al muro faccia a faccia, braccia su braccia, occhi su occhi, naso su naso per non so quanto tempo. Volevo baciarti, ma ero estremamente imbarazzata. Credo lo fossi anche tu. Preferivi continuare a osservarmi in silenzio anziché provare a rovinare l'atmosfera. Il treno di certo non aspetta gli innamorati. Fortunatamente avevi una fermata sotto casa. Mi accompagnasti e, questa volta, venimmo sgamati da degli amici. Ci salutarono soltanto, ma il loro sorrisetto sulle labbra lasciava presagire la loro infinita curiosità.
Passai il viaggio appoggiata ad un finestrino. Ero appoggiata sul fianco destro, con la mente vuota e silenziosa.
In quel normale, innocuo e fresco pomeriggio di primavera avrei tanto voluto che ci amassimo.
STAI LEGGENDO
QUELLO CHE NON TI HO DETTO
RomanceStoria di un amore mai rivelato. Storia di due compagni di classe che si innamorano con un sorriso, con qualche pagina di storia da ripetere e qualche pennarello rubato dall'astuccio. Storia di un amore mai davvero iniziato e mai davvero finito dopo...