Sephiroth

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Onore.
Aveva dovuto cercarne il significato per conto proprio, perché, se vieni addestrato ad uccidere da quando hai iniziato a gattonare, la parte riguardante la moralità in generale viene saltata senza indugi.
La prima volta che aveva sentito quella parola era stato per bocca di Angeal, erano quindicenni allora, tutti e tre.

Compassione, gentilezza, dignità, non gli erano sconosciute, ma “onore” aveva una musicalità completamente diversa, forse era la voce dell’amico a conferirgliela.
Non aveva perso tempo ad afferrare il proprio vocabolario, una volta tornato in camera, assetato di conoscenza com’era, e a sfogliarlo fino ad arrivare alla O.

La sterile definizione, stampata con inchiostro nero sulle pagine sottilissime, lo gratificava ben poco. Pronunciata da Angeal, con il suo tono gentile e un po’ trasognato, acquistava un significato completamente diverso, caricandosi di aspettative, sogni, desideri.

Niente a che vedere con la ruvida quotidianità a cui era abituato, con le missioni, con gli omicidi, no, era la promessa di una vita migliore, lontana dal rimorso e dal sangue che grondava dalle sue mani già a quell’età.
L’idea di aver trovato uno scopo, di non essere più solo un burattino, lo rendeva pieno di orgoglio.
Sì, far parte dei Soldier significava avere un onore, condurre un’esistenza giusta, e lui l’avrebbe fatto.

Ogni qual volta stringeva l’elsa della Masamune, però, la sua mente si riempiva di dubbi, ogni qual volta la lama affondava nel corpo di un uomo, ogni qual volta ritornava al quartier generale con l’uniforme inzuppata, non d’acqua, e Genesis doveva infilarlo a calci sotto il getto di una delle docce del loro piano e lavarlo, perché lui era troppo scosso per muovere anche solo un muscolo.

Ogni qual volta lo stesso Genesis prendeva a calci i cadaveri sparsi sul campo di battaglia, o li pungolava con la punta della spada, aprendo nuove ferite sulla pelle già in via di putrefazione, e Angeal si voltava dall’altra parte, fingendo di non vedere. 
Si avvicinava all'amico, in quei momenti, sentendo lo stomaco contarsi e causargli fitte atroci.
Lo afferrava per il colletto, o per le spalle, lo scuoteva, provando a fargli recuperare il senno e girandosi occasionalmente verso l’altro ragazzo per cercare sostegno, ma come risposta otteneva spesso la sua schiena coperta di ferite e sangue rappreso.

Il tempo di tornare a fronteggiare Genesis e le loro labbra erano già unite, in un malinconico bacio che riusciva sempre a calmarlo.
Pensare di essere in qualche modo caro a quei due alleviava un po’ le sue sofferenze, le sue insicurezze, che, seppur ben sepolte, o forse non più di tanto visto il degenerare delle cose, ad un certo punto, c’erano.

Il tipo di sentimento che provava per entrambi era diverso, con Genesis era più di semplice affetto, molto di più,
i loro corpi si cercavano, si desideravano a vicenda, anche troppo ardentemente per la giovane età.
Ma io compagno non lo amava.
Certo, neanche lui era un tipo smielato, non pretendeva che gli si dedicassero poesie o roba simile, bastava già Loveless recitato ad ogni ora del giorno, ma forse avrebbe gradito qualche manifestazione d’affetto in più oltre ai biascicati “ti voglio bene” o “mi piaci” che a Genesis sembravano costare un’immensa fatica, era più bravo a gesti che a parole.

Litigavano troppo spesso, troppo violentemente perché il rapporto potesse essere sano e solido, e quando accadeva, quando i toni si incendiavano piuttosto che accendersi, la sua fiducia nell’onore che Angeal gli aveva inculcato vacillava pericolosamente.
Come poteva parlare di onore se non esitava a tagliarlo fuori al primo cenno di Genesis?
Onore significava voltare le spalle agli amici senza che ti avessero fatto nulla di male?

In ultimo lo avevano abbandonato davvero, le persone che amava di più al mondo, lo avevano lasciato indietro senza una parola, una spiegazione, comportandosi come fossero stati nemici da sempre.
Rimanere solo dopo aver provato cosa significasse avere degli amici fu cento volte peggio di quell’infanzia passata tra un laboratorio e l’altro.

Da quel momento in poi fu solo il vuoto di giorni passati a mangiucchiarsi le dita, saltando i pasti e non chiudendo occhio, la consapevolezza di essere stato ingannato.
Neanche la compagnia di Zack riusciva a distrarlo dai propri pensieri.

Tutto perse significato nel sotterraneo della magione Shinra a Nibelheim.

Onore.    A che serve quando sei un dio?
Amicizia.   Non ne hai bisogno, ci sono io qui con te.
Umanità.      Paragonarti a quegli esseri inferiori? Come sei sciocco figlio mio.

Genesis, Angeal, Zack, niente aveva più importanza se sua madre era lì con lui, nelle sue vene, in ogni cellula del suo corpo, non gli interessava il prezzo da pagare, non gli interessava di perdere definitivamente se stesso, finché erano insieme.
Cloud, la Shinra, una treccia castana legata da un fiocco rosa, chissà a chi apparteneva, frammenti di immagini sparpagliate come in un sogno.

Anche io sono qui per te madre, ma allora, perché continui ad essere triste?

Alla fine non aveva ottenuto niente, corrotto fino al midollo dal dolore e dalla sete di vendetta, doveva solo aspettare che il Lifestream lo espellesse da qualche parte del pianeta, costringendolo ad affrontare i propri peccati, incapace di morire ed essere accettato in mezzo alle altre anime.

I will never be a memory.

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