1 - Un doloroso risveglio

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Quattro anni prima
Londra - Bethlem Royal Hospital

Rachel guardò per l'ultima volta l'orologio che portava al polso, mentre percorreva i corridoi bianchi e quasi spogli di quell'ala dell'ospedale psichiatrico dove, da più di dieci anni oramai, lavorava come infermiera.

Il suo turno era quasi finito e lei non vedeva l'ora di tornare a casa da sua figlia. Non che il lavoro in quel reparto fosse pesante. In quella sezione dell'ospedale per malattie mentali più rinomato del Regno Unito, c'erano solo pazienti tranquilli e non violenti. La maggior parte viveva in uno stato catatonico, in mondi paralleli, del tutto estranei a loro stessi e alla realtà che li circondava. Avevano tutti subìto un fortissimo trauma, che li aveva portati a nascondersi e rifugiarsi in una parte della loro mente, rifiutando o non potendo sopportare la realtà della vita.

Rachel si fermò davanti alla stanza di Matthew, un uomo di circa quarant'anni, che dopo la scomparsa di moglie e figli in un tragico incidente, mentre lui era alla guida dell'auto che li aveva portati verso la morte, non era riuscito a superare il trauma e lo shock di sentirsi responsabile della loro perdita. E da allora continuava a vivere con la convinzione che nulla fosse accaduto. Ogni giorno parlava con la sua famiglia, ogni giorno salutava i bambini vedendoli, nella sua mente, andare a scuola. Ogni giorno baciava sua moglie, prima di guardarla andare al lavoro. Poi si sedeva sulla poltrona davanti alla finestra e non parlava più fino a sera, quando nella sua mente tornavano tutti a casa.

Rachel sospirò, aggiustandosi un ciuffo dei capelli biondi e corti, mentre i suoi occhi azzurri riflettevano tutta la tristezza per quelle povere vite spezzate. Perché, nonostante non fossero pazienti violenti e pericolosi, lei riusciva a sentire tutto il loro profondo dolore. Anche se certe volte pensava che in fondo, forse, erano più felici così, che affrontando una vita di solitudine.

Matthew dormiva tranquillo, quindi Rachel si spostò ancora lungo il corridoio, fermandosi dinnanzi alla porta del paziente che forse le stava più a cuore. Era arrivato nel loro ospedale da pochi mesi, ma lei gli si era già affezionata e nel suo caso, al contrario che per altri pazienti, sperava proprio si risvegliasse dal mondo onirico in cui si era rinchiuso. Il ragazzo aveva solo ventun anni, tutta la vita davanti per superare i traumi della sua infanzia e vivere una vita reale, non fittizia, non immaginaria.

Rachel aprì la porta lentamente, entrò nella stanza, cercando di non far rumore, rimanendo ferma dinnanzi al tavolo ricolmo di libri di ogni genere, come lo era l'intera camera. Testi medici e scientifici, piuttosto difficili da comprendere anche per lei, saggi storici, libri di giurisprudenza, di criminologia. Più che la stanza d'ospedale di un ragazzo mentalmente disturbato, sembrava quella di un giovane universitario, di quelli però dediti solo allo studio.

«Buonasera, Miki, com'è andata la giornata?» domandò con un sorriso, cercando di attirare la sua attenzione.

Miki, seduto al tavolo e concentrato su uno dei suoi libri, alzò la testa. I capelli lunghi un po' ribelli castano scuro, quasi neri, caddero in parte sul volto, coprendo l'occhio destro, su cui portava sempre una benda nera, come quella di un pirata, e che serviva a coprire l'orbita oculare vuota. Il suo unico occhio, di un colore grigio profondo e penetrante, si fissò sull'infermiera che aveva davanti, con una tale intensità che sembrava volesse leggerle dentro l'anima. Non rispose, non disse nulla e dopo qualche istante tornò a leggere il suo libro.

Rachel sospirò, oramai era abituata ai suoi silenzi, ma sperava sempre di poterlo stimolare in qualche modo a uscire dal mondo in cui si era rinchiuso. Non che fosse suo compito, affatto. Ma quel ragazzo dallo sguardo così attento e profondo, dall'intelligenza così particolare, tanto da permettergli di leggere e capire anche i più difficili saggi di fisica quantistica, le straziava il cuore. Avrebbe potuto fare tante cose nella sua vita e invece era lì, rinchiuso tra quattro mura di un istituto psichiatrico.

«Hai parlato con Sherlock, oggi?» si decise a domandare, mentre si sedeva dall'altra parte del tavolo, sapendo che era l'unico modo per comunicare con lui in quel momento.

«Sì, certo. Ha un caso molto interessante che lo sta tenendo impegnato, ma oggi verrà a trovarmi e a portarmi via da qui» rispose Miki, alzando lo sguardo sull'infermiera, come se la vedesse per la prima volta.

«Già, certo, immagino sia molto impegnato. È pur sempre il detective più importante di tutto il Regno Unito» rispose Rachel con un sospiro. Non amava alimentare le fantasie del ragazzo, ma era l'unico modo per convincerlo a parlare.

«Non solo del Regno Unito. Al mondo non esistono altri detective bravi come lui.»

«E questo è certamente vero. Tu però sei molto intelligente, potresti diventare bravo come lui, forse anche di più, se solo lo volessi.»

«Certo che lo voglio. E lui ne sarebbe molto felice e orgoglioso. Dice sempre che ne ho la stoffa. Irene dice sempre che, secondo lei, io gli assomiglio molto più di mia sorella Mary. Per questo sto studiando tanto, così quando verrà a prendermi, sarò pronto» Miki sorrise sulle ultime parole, come se stesse vedendo ora davanti ai suoi occhi tutto il mondo che si era creato e in cui aveva vissuto gli ultimi dieci anni.

«E fai bene, continua a studiare, Miki, vedrai che ti servirà molto. In qualche modo, ti servirà» rispose Rachel con un ultimo sospiro. Non poteva dirglielo, le era vietato. Non era lei che poteva dire al ragazzo che non era il figlio adottivo di Sherlock Holmes e Irene Adler, che non aveva una sorella di nome Mary, che nulla di tutto quello che aveva creduto di vivere negli ultimi dieci anni, era vero.

Era solo un frutto della sua fantasia, un mondo che la sua mente in stato di shock aveva ricreato, dopo essere fuggito dalla banda di trafficanti di organi che, fino agli undici anni di età, lo aveva tenuto chiuso in una cella e usato come carne da macello, prelevandogli un occhio e un rene.

Rachel si alzò dalla sedia, avrebbe voluto accarezzargli la testa con un gesto d'affetto, ma lui non lo avrebbe capito, né permesso. Guardò per l'ultima volta quel ragazzo, che avrebbe potuto essere chiunque avesse voluto grazie alle sue doti innate, poi lasciò la stanza, richiudendo la porta dietro di sé.

Miki, rimasto solo, tornò a tuffarsi nello studio del testo che era aperto sul tavolo. Sospirò a lungo, poi alzò di nuovo lo sguardo. Avrebbe voluto vedere le pareti della sua stanza in Eaton Square, o il salotto del 221B di Baker Street, ma l'unica cosa che vedeva era una camera d'ospedale.

L'angoscia lo assalì all'improvviso. Non ci riusciva, non riusciva più da qualche giorno a vedere la sua vita come l'aveva sempre vista negli ultimi anni. Non era vero che aveva sentito Sherlock, lo sapeva. Erano giorni che non lo sentiva, che non sentiva nessuno di loro, come se l'avessero dimenticato, come se lui non esistesse più, come se Miki Adler Holmes non esistesse affatto, non fosse nessuno, solo un Miki qualunque.

Un dolore sordo, fortissimo, prese possesso della sua anima, lo trapanò come se un missile lo avesse attraversato, strappandogli il cuore dal corpo. Mise le mani sul volto e iniziò a piangere, prima sommessamente, poi sempre più forte, un pianto disperato, che si tramutò alla fine in un urlo.

Cadde per terra, ripiegato su sé stesso, come se in quel modo potesse trattenere dentro il suo corpo e nella mente quel mondo che la realtà gli stava portando via.


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