9 febbraio 1965
Madre e figlia emersero dalle profondità della terra.
Sbucarono nel cuore del parco, dai resti dell'antico acquedotto, portandosi dietro l'odore delle vecchie condutture e dei binari roventi.
La madre scivolò sul fianco di un arco murato e atterrò senza fare rumore.
Il parco era più freddo e più silenzioso di quanto si aspettasse. Al buio però le ci volle un momento per registrare i riflessi bianchi e azzurri che punteggiavano i blu e i grigi del paesaggio notturno, rotolando giù dal cielo come polvere spazzata via da uno scaffale.
«C'è juste de la neige» sussurrò, più a se stessa che alla figlia, e la sua voce non sembrò altro che un soffio di vento. Fece segno alla bambina di saltare giù dall'acquedotto e la prese al volo.
Costeggiarono l'acquedotto in silenzio, una contando i passi, l'altra cercando di prendere al volo i fiocchi di neve.
In tutti gli anni da quando la donna era venuta a Roma per la prima volta non aveva mai nevicato, neanche negli inverni più freddi. Eppure sembrava in qualche modo naturale che il mondo dovesse andare a rotoli in un'unica notte, finire e ricominciare senza che nessuno se ne accorgesse.
Si discostarono dal sentiero e addentrarono nel parco. La donna prese in braccio la figlia perché le scarpe non le si impregnassero di neve sporca e la bambina protestò appena. Era insolitamente silenziosa, quasi stesse camminando nel sonno.
Mi servi vigile, avrebbe voluto dirle, mi serve che urli se succede qualcosa, ma erano quasi arrivate. Ancora qualche passo.
Fu come attraversare una pellicola della consistenza dell'acqua e sprofondare in uno strato della realtà più rarefatto. La sensazione di vuoto, la stretta allo stomaco, la mancanza d'aria – tutto durò appena qualche istante, poi il corpo si adattò alla nuova realtà come vino versato in un bicchiere.
Il parco era sempre lo stesso, era ancora notte, stava ancora nevicando. Ora però nell'aria c'era un brusio elettrico, il freddo era meno pungente, e davanti a loro sorgeva un edificio che aveva la fluidità apparente del vetro soffiato. Elegante ma non imponente, di quello che poteva essere stucco come marmo, rame come oro rosa.
«Nous sommes arrivés» mormorò la donna posando un bacio sulla tempia della bambina e poi accarezzandole i riccioli neri. «Nous sommes arrivés» ripeté mentre copriva gli ultimi venti metri con passi rapidi e falcate così ampie che sentì la stoffa della gonna tendersi pericolosamente. Indossava un vestito troppo elegante per essere pratico – rendeva sensuale ogni suo movimento, ma anche costretto, e scopriva tutti i punti più vulnerabili di un corpo umano.
Il portone era aperto. Il portone delle ambasciate sconosciute doveva sempre essere aperto, ma lei lo spinse comunque con tutte le proprie forze e fu assalita dal sollievo quando si spalancò su una sala illuminata.
L'aroma di salvia e cannella riempì loro i polmoni e un uomo abbronzato venne loro incontro.
La donna sorrise. Mise giù la bambina e allargò le braccia in segno di saluto.
Poi il tempo si fermò. La realtà si contrasse intorno a loro, imprigionandoli nei loro corpi e nei loro movimenti.
Il ronzio elettrico si interruppe, le ombre si fissarono sulle pareti, le luci si fecero statiche e fredde. La mente era lucida, i pensieri rapidi come il flusso di una cascata, ma la carne era imprigionata nel proprio moto. Non immobile, non del tutto, ma rallentata, rallentata fino all'inverosimile.
Qualsiasi decisione presa in quel momento si sarebbe compiuta solo molto, molto più avanti. Persino muovere gli occhi sembravano registrare le immagini in estremo ritardo.
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D'incanti e d'oblio
FantasyNDA: cercasi lettori critici, voglio i commenti peggiori di cui siete capaci. oOo Una mutaforma con un passato da prostituta. Un geco mannaro che cerca di seguire orme dei genitori. Una sensitiva sempre più estraneata dal mondo. Un fuoco fatuo che h...