Insofferenza

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Il piacere nello sperare in un incarico all'Infermeria era stata una deliziosa nota al passare del tempo, alla Struttura. Vedere Margie, immergermi nel suo eccentrico cinismo colorato, era un piacere di cui non mi resi conto fino a quel giorno. Quando quel piacere mi fu portato via, iniziai a sentirne una mancanza che mi schiacciava.

Fortunatamente, nei giorni successivi alla dipartita di Margie, fui assegnata alla Classe, per seguire i bambini nel processo didattico preciso e asettico della Struttura, senza ritrovarmi, a disagio, nell'infermeria, lo sguardo perennemente attirato dal vuoto della brandina appartenuta a Margie.
Mi domandavo, come se soffermarmi ripetutamente sul pensiero avrebbe potuto consumarlo, plasmarlo, fino a coglierne un senso, dove fosse Margie, se stesse già meglio, cosa stesse facendo, cosa le stessero facendo.

'Grazie, soggetto 7542. Non dimenticare la tua dose di placebo giornaliera. Buona giornata!'
Dopo aver ingollato una barretta di cereali pressati e un bicchiere di latte vegetale, dieci minuti prima del tempo, uscii dalla mia Abitazione, la cui porta si chiuse dietro di me con un sibilo. I corridoi, ancora deserti, lucidi e bianchi a tal punto da non coglierne quasi la profondità, riecheggiavano dei miei passi. Arrivai alla Classe prima dell'inizio delle lezioni, per cui mi appoggiai ad un muro, fresco di lucido, e scivolai per terra. Appoggiai la nuca alla parete fredda, chiudendo gli occhi.
C'era qualcosa, da qualche parte in fondo al mio torace, compresso tra gli organi, che mi rendeva irrequieta e mi dava un senso di urgenza che non riuscivo ad associare a nessuna sensazione conoscessi.

- Tu, laggiù, tutto bene?
Un inserviente mi si avvicinò cauto. Aveva una squisita pelle color caffèlatte, liscia ed opaca, nonostante le luci al neon. Mi sentii in qualche modo attratta da lui.
Strinse gli occhi per leggere il mio numero di serie.
- Ah, sei tu, 7542. Uscita presto, eh? Vogliono vederti al Centro di Controllo. Seguimi, prego. - disse, elargendo un sorriso perfetto dalla dentatura dritta e compatta.
Mi puntellai sulla parete e mi alzai. L'attrazione istintiva si tramutò all'istante in antipatia. In qualche modo, il fatto che mi dicesse cosa fare mi infastidì profondamente.
Lo seguii, corrucciata, strascicando i piedi.
- Stai bene? - mi chiese, ad un certo punto, senza smettere di camminare.
Quella domanda fomentò la sensazione di antipatia che provavo nei suoi confronti.
- Sì - sentenziai a denti stretti.

Le porte del Centro di Controllo erano grandi, trasparenti ed automatiche. Si aprirono su una reception e una segretaria dallo sguardo affabile.
- Posso aiutarvi? - chiese dolcemente.
- Soggetto 7542. Deve essere portata al Centro d'Ascolto.
- Centro d'Ascolto? Perché? Non ne ho bisogno - mi lamentai.
L'inserviente mi osservò circospetto, poi tornò a rivolgersi alla receptionist.
- Ordini dall'alto - disse, seccato.
La segretaria annuì, ridacchiando.
- Da questa parte, prego.
Si alzò, precedendoci in un corridoio stretto, dove un viavai di persone lasciava poco spazio di movimento. Si fermò davanti ad una porta anonima, bussò, attese.
- Entra pure, 7542.
Aprì la porta, lanciai un ultimo sguardo glaciale all'inserviente ed entrai.
Un gruppo di giovani medici si affaccendava attorno ad uno schermo al plasma appeso al muro. Indossavano tutti gli stessi vestiti, dal taglio identico a tutti gli altri, ma di un caratteristico color ospedale. Non mi veniva in mente altro aggettivo per descriverlo, anche se la mia memoria per gli ospedali del Mondo di Sopra non era sufficiente a suggerirmelo.
- Benvenuta, 7542. Prego, siediti - disse uno di loro, indicandomi una brandina.
Mi sedetti, accondiscendente.
- Ora ti farò qualche domanda. Ti prego di rispondere nel modo più sincero possibile.
Non mi piaceva essere messa sotto esame, non mi piaceva che mi si facessero domande e non mi piaceva il senso di vulnerabilità che provavo in quel momento. Mi costrinsi ad annuire.
- Perfetto, iniziamo - annunció, trascinando rumorosamente una sedia davanti a me e sedendosi, all'altezza giusta per guardarmi dritto negli occhi.
- Vediamo... Come ti senti oggi?
Avevo risposto così tante volte a quella domanda, fra questionari giornalieri con faccine verdi e rotonde e domande di inservienti, che non ci pensai un secondo.
- Sto bene.
- Ottimo. Hai preso la tua dose di placebo?
Annuii di nuovo. L'ago mi aveva iniettato il farmaco nello stesso identico punto di sempre.
- Hai notato qualcosa di diverso nell'elaborazione dei tuoi pensieri?
Scossi la testa, ma una protesta mi affioró sulle labbra prima di potermi trattenere.
- Che significa? Sto bene. Dovrei essere a lavoro, a quest'ora. Stiamo perdendo tempo.
Il medico esibì un sorrisino che, forse, doveva essere rassicurante. Risultò farmi sentire inadeguata e fuori posto.
- Tranquilla, abbiamo quasi finito - mi rassicuró. - Su una scala da 1 a 10, quanto ritieni ti abbia condizionato la scelta del soggetto 1696  per le Cure Esclusive?
Faticai qualche secondo ad elaborare la domanda, dato che non era mia consuetudine chiamare Margie in quel modo.
- 2? 3, forse. Le volevo bene.
Il medico annuì, consultando i fogli che teneva fra le mani.
- Capisco. Secondo la prassi della Struttura, sono costretto a ricordarti che i legami affettivi non sono consigliati. Ledono alla produttività e al benessere personale.
Mi trattenni a fatica dall'alzare gli occhi al cielo, alzarmi ed andarmene.
- Certo. Grazie, lo terrò a mente - sentenziai, sperando che cogliesse la nota di sarcasmo.
Sorrise, indecifrabile, e non capii se il mio desiderio era stato esaudito.

Un fastidio inspiegabile mi pervase per tutto il giorno. I bambini mi sembravano stupidi, lenti e frivoli. Non avevo voglia di soffermarmi ad aiutarli a cogliere la bellezza del conoscere, non mi interessava cosa gli passava per quelle piccole testoline. Non mi importava di niente.

Quando la voce registrata annunciò la fine della giornata lavorativa, abbandonai la risoluzione di un'addizione e mi incamminai grata verso la mia Abitazione.
Appoggiai il dito sul piccolo schermo, la mia impronta digitale fu letta e la porta si aprì.
'Bentornata, soggetto 7542. Spero che la tua giornata sia stata piacevole e produttiva. Ti consiglio di dormire almeno 8 ore. Il tuo pasto serale è stato recapitato. Buon riposo.' La versione serale dell'inno venne suonata, una breve melodia d'arpa molto più piacevole del coro squillante della versione tradizionale.

Prima di pensare al cibo, mi spogliai, e rimasi nuda. Non avrei saputo spiegarmi quest'azione, ma aveva un sapore ribelle che mi fece sentire meglio. Recuperai il vassoio e mi sedetti sul letto, saggiando con lo sguardo il pasto serale.
Un hamburger di legumi, una pagnotta di pane integrale, una ciotola con del sedano tagliato sottile e della frutta secca. Affamata, mi avventai sul cibo, godendo del rumore fresco che il sedano faceva addentandolo, e benedicendo mentalmente il nuovo concetto di 'cibo sano e sostenibile'. Dopo il Collasso, l'umanità era stata costretta a rendersi conto che lo stile di vita tipico della società capitalistica era insostenibile. Le multinazionali avevano preso possesso della sanità, ma non erano riuscite a far fronte all'aumento dei tumori e delle malattie autoimmuni a causa del consumo sregolato di prodotti animali, mentre il clima era definitamente crollato sotto il peso di un gas serra che aveva ucciso fauna e flora. Così, magicamente, la collettività aveva finto di essere sempre stata contro l'industria alimentare. Agli esseri umani piaceva sapere di essere dalla parte dei buoni, anche se avevano distrutto la Terra, costringendoci a chiuderci sottoterra, in questa palla di vetro bianca e linda e soffocante.

Questo senso di insofferenza stava diventando insostenibile, oltre che frustrante nel suo essere inspiegabile. Gettai il vassoio vuoto a terra, mi feci strada a calci sotto le coperte, e lasciai che la mia mano scendesse verso le mie cosce. Qualcosa dentro di me sapeva con una sicurezza cieca che avrebbe potuto combattere quel fastidioso senso di incompiuto. Mi masturbai più volte, finché, stremata, mi concessi di scivolare nel sonno.

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