Sulla finestra di un condominio

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ESTATE 2000

Anita sale le scale di fretta, i capelli spettinati e ricci le ricadono sulle spalle a ogni passo.
Aveva sempre pensato di essere una da appartamento dentro un condominio, solo che quello in cui vive ora è diverso da quello da cui è venuta.
Ha le targhette color oro fuori dai portoni e all'ingresso le cassette della posta si possono aprire con la chiave, poi c'è odore di detersivo che arriva da terra e un tappetino per pulirsi i piedi di fronte a ogni porta.
Non sa spiegarsi come mai, tutte le volte, nell'eco dei suoi passi sui pianerottoli riesce a sentire il sottofondo dei suoni che si è lasciata alle spalle.

Le sembra di sentire ancora le gomme dei motorini che stridono sulla strada a ogni frenata, e le pare di sentire anche le urla di nonna Rosa che affacciata alla finestra dice che chiamerà la polizia. Ricorda il rumore delle mollette che cadono nella cesta mentre ritira i panni asciutti, il cigolio del filo con appese canottiere di cotone e i calzini spaiati.
Rosa non era mai stata sua nonna davvero, ma lo era stata un po' di tutti nel suo vecchio quartiere, nipoti non ne aveva avuti, così si era presa cura di lei e di molti altri.
Le pare di sentire ancora la sua mano che l'accarezza quando correva sulle scale per rientrare a casa. Aveva solo dodocoanni allora, e per tutti lei era solo Bic.

Che razza di soprannome era poi, Bic.
Glielo aveva dato Giovanni.
Passava ogni giorno da sua madre alle quattro del pomeriggio, donne non ne aveva mai avute, diceva che erano un impiccio. Per questo ne aveva scelta una con cui passare qualche ora senza impegno.
Se lo ricorda bene Anita.
Le sembra di averlo accanto in quello stesso momento, mentre cerca le chiavi nella borsa e apre la porta di casa.
Giovanni lasciava il cappello sopra al bracciolo del divano quando arrivava e le chiedeva cosa avesse sempre da scrivere con la penna blu in mano. Una di quelle dal cappuccio di plastica che costavano poco alla cartoleria Stella, Bic si chiamavano.

Anita restava in silenzio, chiudeva il quaderno su cui appuntava le abitudini dei vicini e muoveva qualche passo indietro. Giovanni le lasciava sempre una sensazione strana addosso quando le poggiava la mano sulla spalla. La scia nascosta di un sentimento intriso di umida malizia.
Poi era successo che dopo la terza volta che l'aveva chiamata così, lei aveva appuntato quel nome su una pagina bianca, e ci aveva cercato parole dentro.

Bugiarda insopportabile caparbia.
Bastardo incontrollabile controllo.
Bisogno incontenibile, caldo.
Bellissima, indimenticabile creatura.
Bagni il cielo.
Baci il cuore.
Bic.
Bisogna immaginarla così.

C'erano un sacco di risvolti dentro le tre semplici lettere.
Era stato così che era diventata Bic.
E poi lei, il suo nome non lo voleva.
All'anagrafe sotto la sua data di nascita c'era scritto Anita, subito dopo il cognome della famiglia materna, perché suo padre non lo aveva mai conosciuto.
Non che fosse così importante nel posto in cui era cresciuta.
Eppure, lei lo aveva sentito lo stesso il peso di essere quella di nessuno, perché alla fine poteva essere di tutti, anche di Giovanni, che un soprannome giusto glielo aveva trovato.
Anita lascia scivolare la borsa sul tavolo, le luci dei lampioni filtrano dalle persiane socchiuse disegnando strani riflessi sul pavimento, le tende ondeggiano sospinte dal vento. Si avvicina al davanzale, si sporge appena.

La strada è luminosa e frenetica, calpestata da passanti frettolosi, colorata dalle insegne dei negozi.
C'è un anziano che porta a passeggio il cane, un ciclista fermo al semaforo. Poi c'è la donna alla fermata dell'autobus, capelli ricci densi di riflessi iridescenti, abiti malandati e occhi persi.
L'aveva notata da tempo Anita.
Se ne stava lì ogni sera, alla stessa ora, con un pacchetto di sigarette accartocciato nelle tasche che consumava lentamente, stringendo alle labbra un filtro dopo l'altro. Fissava i bus avvicinarsi, rallentare, far scendere i passeggeri.
Lei invece, non saliva mai.
Seguiva il flusso continuo del capolinea senza muoversi o scomodarsi dalla sua postazione.
Cosa ci facesse lì, Anita non lo sapeva.

Si era persa in milioni di supposizioni.
Forse aspettava qualcuno che non sarebbe mai tornato.
Forse voleva andarsene, ma non riusciva a trovare il coraggio.
Forse era matta o chissà cos'altro.
Il fatto era che Anita non era mai riuscita a perdere l'abitudine di spiare con ossessiva tenacia le vite degli altri.
«È l'ora delle fantasie alla finestra?» le diceva sempre sua madre quando la trovava affacciata alla finestra. Con i gomiti sul marmo freddo e il vento tiepido a scompigliargli i capelli, restava ore a osservare il mondo.

A quel tempo le quattro vie sotto casa erano l'unico spazio che conoscesse, l'unico ritaglio di vita che per lei esistesse.
Lorenzo Bontempi non le avrebbe mai chiamate così.
Si sarebbe avvicinato in silenzio con le mani spinte nelle tasche della tuta, con il volto spigoloso, buio e perfetto. Avrebbe raggiunto la finestra e indicato la donna alla fermata dell'autobus.
Solo dopo avrebbe cominciato a parlare.
Era un fantasma più spaventoso di tutti gli altri Lorenzo, un grido acuto e tremendo ancora dentro al cuore.

Era il ricordo della bellezza del dolore, delle cose che si desiderano all'infinito senza riuscire a trovare il momento giusto per viverle davvero.
Lui era una condanna, un tormento, qualcosa con cui fare i conti ogni notte e ogni risveglio.
Anita stringe gli occhi scacciando l'immagine di Lorenzo dai pensieri.
Pensa al ragazzo con cui ha intrapreso un'interessante discussione sui sonetti di Shakespeare che l'aspetta sempre fuori dalla biblioteca.
Si chiama Marco e le ha chiesto di uscire.
Era stato strano per lei trovarsi indecisa su cosa rispondere.
Sì, perché Anita, aveva deciso molti anni prima di non cercare mai più l'amore.
Aveva giurato a se stessa di restare per sempre una e basta.
Si chiedeva cosa ci fosse di sbagliato in lei, si chiedeva se il non riuscire ad aprirsi fosse una malattia, qualcosa da dover curare, di cui doversi preoccupare.

Ferma gli occhi sulle lancette dell'orologio appeso sopra la porta: le sette in punto.
Ancora un'ora prima di farsi trovare sotto casa.
Pensa di nuovo a Marco, il ragazzo dallo sguardo dolce e gentile con cui ha intrapreso un'interessante discussione sui sonetti di Shakespeare.
Le ha chiesto di uscire, e lei non sa ancora perché, ma alla fine ha deciso di accettare.

*

Lorenzo esce da casa della signora Accorsi.
Appena in strada si riconosce nei cassonetti sepolti dai sacchetti, si sente pieno di luci nella notte, proprio come il suo quartiere, con una ciminiera impiantata nel petto che sembra esplodere tanto è il fumo nero che esce verso il cielo.
Non se ne è mai voluto andare.
Si è sentito figlio e parte della rovina in cui è cresciuto e in fondo lo ha sempre saputo a cosa lo avrebbe portato.
Rientrando nella sera sente il segno della sconfitta, vissuta insieme ai suoi genitori che non erano riusciti ad abbracciarsi con la stessa felicità di un tempo negli occhi.
Niente, alla fine, era andato meglio.
Attraversa le strisce pedonali, alza gli occhi sulla facciata di un condominio tra tanti e pensa ad Anita. Un sorriso triste gli storpia le labbra.

Era sempre stato Matteo quello che rideva da solo passeggiando nella sera, ma a Lorenzo era sembrato di averla anche lui nascosta da qualche parte, la sua stessa follia.
Matteo aveva sempre un ombrello stretto tra le mani, aperto anche d'estate, anche sotto il sole cocente dei pomeriggi di luglio, anche dentro al Bar all'angolo, dove tutti ormai lo conoscevano e nessuno gli diceva più niente.
Aveva vent'anni anni quando lo avevano chiuso dentro un'auto in una notte di pioggia con un acido sotto la lingua. Non c'era stato giorno, dopo quello, in cui i suoi occhi non avessero visto nuvole pronte a gridare pioggia ovunque.
"Ci è rimasto" dicevano tutti.
Ma lui e Anita avevano sempre voluto cercare altro nelle abitudini delle persone, e tutte le volte che lo incontravano per strada provavano a dare un senso anche a ciò che un senso non lo aveva.

«Porta sempre quell'ombrello per proteggersi dagli insulti della gente» aveva detto lei una volta, indicandolo da lontano.
«E anche per nascondersi quando ne ha bisogno» aveva risposto lui, osservandolo meglio.
«O forse lo fa per fingersi pazzo.»
«O forse per cercare attenzione.»
Ci costruivano storie impossibili sulla vita, davano un nome a un destino che in un modo o in un altro, sarebbe toccato anche a loro.
Si sentivano meno soli con gli occhi puntati su ciò che avevano attorno.
Più veri.
Possibili.
Il guasto e la cura l'uno dell'altro, come la lancetta di un orologio che tenta di muoversi, ma resta ferma sullo stessoinstante all'infinito. Piena di un secondo che non è mai passato, di un tempo che da qualche altra parte, forse, avrebbero consumato insieme diversamente.

Lorenzo entra in un altro caseggiato di cemento.
Si sentono altre grida uscire dagli appartamenti, escono come il rigurgito del mondo. Ci si abitua a certi posti con il tempo.
Si appoggia al muro prima di entrare in casa e cerca di ripeterselo ancora una volta che ci si abitua a tutto alla fine.
Anche senza Anita.

Resta con me. Almeno stanotteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora