Sul ciglio di una strada

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ESTATE 2000

Anita cammina sul ciglio della strada.
La borsa di pelle le sbatte sulla schiena allo scontro con un passante, i fari delle auto le sfrecciano accanto.
La finestra del palazzo sotto cui sta passando si apre proprio sopra di lei: una donna che potrebbe avere l'età di sua madre accende una sigaretta, i gomiti sono piegati sul marmo freddo del davanzale. Anche nell'ombra della sera, Anita riesce a immaginare le rughe sul suo viso, lo sguardo stanco di chi deve aver trascorso una giornata faticosa.
Se lo chiede da sempre com'è che tutte le facce che incontra assomiglino a quelle del posto da cui è venuta, quello che ha lasciato per scelta, senza alternativa.

È sempre pronto ad aspettarla dietro l'angolo un ricordo che manca. Sono nei suoi occhi i condomini agganciati l'uno all'altro in cui è cresciuta, l'odore di umido negli androni freddi è ancora lì, sulla punta del suo naso.
Tutte le volte che è sola prova a calpestare quello che è stata, ma le torna addosso con più forza il senso del disagio vissuto.
Sente il rigurgito di chi sarebbe diventata se fosse rimasta nella casa che aveva odiato ogni attimo della sua vita.
Si domanda se sarebbe sopravvissuto qualche sogno là, nel posto dove ogni cosa sembrava poter essere dimenticata.

Anita Poggi era fuggita lontano in un giorno tra tanti.
Un giorno grigio, stanco.
Aveva messo dentro lo zaino due magliette, un paio di jeans, la copia di Romeo e Giulietta presa dalla libreria dell'oratorio, la scatola di latta con dentro i quattro soldi guadagnati senza amore che sua madre nascondeva sotto il letto e il biglietto con scritto sopra l'indirizzo di sua zia.

Il giorno in cui se ne era andata, salendo sull'ultimo treno si era chiesta chi avrebbe trovato una volta arrivata di fronte alla porta di una casa sconosciuta.
Non aveva creduto un solo istante che tutto potesse andare meglio, né che avrebbe trovato una famiglia, amore e sostegno a sufficienza da poterle garantire qualche certezza.
Con il lavoro come lavapiatti al ristorante in centro riesce a pagare l'affitto e la rata universitaria: la laurea inseguita con sacrificio e pazienza è ormai alle porte.
Aveva deciso di togliersi di dosso un po' di se stessa, di fare finta di non avere attaccata alla pelle l'etichetta del posto da cui era venuta.
Ma c'era qualcosa sempre pronto a riportarla indietro, dentro le mura in cui era cresciuta, sottili come carta sgualcita, strappata dalle grida di chi le era vissuto accanto.
Sembra che gli anni possano portarsi via ogni attimo vissuto, eppure Anita, appena di fronte al portone di casa, riesce ancora a immaginare il volto di Lorenzo Bontempi.
È solo più lontano ora, ma sempre presente.
È nascosto nel tempo, che ci prova a portarsi via i momenti, ma mica ci riesce.

*

Lorenzo Bontempi cammina sulla strada.
Tiene i piedi sul bordo del marciapiede, le suole delle Adidas invecchiate strusciano sull'asfalto.
Ci aveva riso lui sulla vita, si era anche convinto di non volerne una diversa da quella che gli era capitata, di più quando Anita aveva deciso di andarsene. Indossa il solito giubbotto di jeans, quello con le scritte a pennarello sul risvolto della manica.
Sotto il taschino c'è ancora il taglio che aveva fatto quando era una moda fingere di averlo indossato abbastanza da farlo cadere a pezzi. Poi ha un ciuffo castano di capelli sbattuto sugli occhi, il cappello di cotone stretto alla fronte con l'elastico slabbrato.

Glielo aveva fatto sua madre per un Natale passato.
Soldi per i regali non ce ne erano mai stati.
Lo aveva visto nascere da un rotolo di filo scadente comprato al banco del mercato. Il rumore dei ferri pronti ad annodarlo lo aveva accompagnato nei suoi rientri a casa quando era solo un ragazzino con un motorino di seconda mano parcheggiato fuori dal portone. Pensare che funziona ancora: una nuova ammaccatura sulla scocca sinistra, un altro adesivo mangiato dalla pioggia sulla vernice nera.
A Lorenzo Bontempi era sempre piaciuto far vivere a lungo ogni cosa. Ha ancora stretto al polso il braccialetto di corda comprato in spiaggia in una domenica estiva di quattro anni prima. C'è un nodo in più proprio a metà, dove si è rotto prendendosi a botte con Alessio.

Ci vedeva un pezzo di lui negli strappi, nelle toppe.
Il suo sguardo era sempre rimasto fermo indietro, al ragazzino che era stato.
Eppure, il tempo lo aveva cambiato. Con i muscoli definiti sulle braccia, con qualche centimetro in più di altezza, con un pelo in più sul mento.
Lo aveva così spaventato la consapevolezza di un'inevitabile crescita che un giorno aveva deciso di non cambiare più. Etutte le volte che si era guardato allo specchio non si era accorto di essere diventato la versione peggiore di se stesso.
L'inganno della dipendenza in cui si era buttato a braccia aperte gli aveva sempre fatto credere che esiste un posto dove poter restare intatti e immobili per sempre.
Un posto dove smettere di affrontare ogni ostacolo, dove sentirsi indifferenti a tutto. Solo troppo tardi si era reso conto di aver ceduto a un'illusione.

La signora Accorsi lo aspetta seduta al tavolo della cucina con il viso stanco.
Lorenzo si era sempre chiesto come ci fosse finita una come lei lì, tra l'intonaco di un muro scrostato e un altro.
Non c'erano professori in pensione nelle vie del suo quartiere, solo morti di fame in cerca di un lavoro dalla notte dei tempi.
Si era anche chiesto come mai avesse deciso di aiutarlo a ottenere il diploma con le ripetizioni prima dell'ora di cena.
Apre il palmo della mano sul portone, nell'androne risuonano le grida che escono dagli appartamenti. Così come le televisioni accese su canali diversi, le forchette che sbattono sui piatti, il vapore delle pentole sul fuoco che esce dagli spifferi delle giunture.
Lo zaino in spalla gli cade di lato mentre sale la rampa di scale di corsa. Sul primo pianerottolo vede la sagoma di un corpo ripiegato su se stesso: le spalle incurvate in avanti, la testa appoggiata al muro di lato, le labbra appena aperte di un ragazzo con cui a schiaffi e pugni ci era cresciuto. Poi gli occhi vuoti piantati nei suoi, grigi e sbiaditi di un male che solo chi l'ha provato può riconoscere.

È che lui lo sapeva che per vivere in un posto così bisognava finire dentro la disperazione. Metabolizzarla, farsela amica, e poi, forse, arrivare a credere di poterle sopravvivere.
«Dove sei finito, Loré?» Alessio prova ad alzarsi. Apre la mano sul pavimento sporco, piega le ginocchia per prendere forza, ma ricade a terra un attimo dopo.
«Ho avuto da fare.» Lorenzo osserva la maglietta sgualcita fuori dai jeans, la goccia di sudore malato che gli scivola sulla fronte.

Tutto gli ricorda chi un tempo anche lui era stato.
Sente qualcosa muoversi dentro.
Rabbia, forse rancore verso gli errori commessi.
Sente anche dell'altro, la punta tagliente dell'odio verso se stesso, nato senza che potesse opporsi.
Il portone del secondo piano si apre lentamente.
Un "Ci vediamo in giro" gli esce dalle labbra con esitazione prima di riprendere a salire le scale.
La signora Accorsi allunga la testa sull'ingresso prima di farlo entrare. Se lo era sempre chiesto Lorenzo, cosa ci facesse una come lei, lì, tra l'intonaco di un muro scrostato e un altro.
Posti così erano per quelli che non hanno una pensione con cui campare.
Erano per i dispersi, per gli stonati.
Erano per quelli senza via d'uscita.
Erano per quelli come lui.

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