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Gli anni delle medie sono stati i peggiori. Non avevo stimoli, forza, desideri. Andavo a scuola per abitudine e trovavo conforto nella scrittura. Ogni giorno era uguale al precedente, ogni ora passava lentamente e ogni minuto era straziante. Nonostante ciò studiavo con la speranza di risollevarmi un giorno, di acculturarmi per essere libera. La cultura rende liberi.

La mia giornata non era entusiasmante: la sveglia suonava quotidianamente alla stessa ora ricordandomi che anche quella giornata sarebbe stata deludente come le altre. Allora, quando avevo il coraggio di alzarmi, prendevo i miei vestiti, facevo una doccia veloce ed uscivo in poco tempo da casa. Il tragitto verso la scuola era abbastanza breve per cui non avevo tempo di darmi coraggio. Facevo le scale e salivo al primo piano: la mia classe era l'ultima a sinistra e la porta era di un giallo sbiadito, come la mia anima. A quel punto mi dicevo:
-Ignorale, non esistono.
Gli occhi delle mie compagne puntati su di me ed io silenziosa mi dirigevo verso il mio bianco, il primo a destra, aspettando che venisse la ragazza del posto affianco. Entrambe spente, taciturne, ascoltavamo la lezione come per sfuggire dalla nostra lotta interiore e dai pensieri logoranti. In questo modo passava la prima ora e la seconda, fino alla ricreazione. Tutti uscivano dall'aula per condividere quel momento di circoscritta libertà con il proprio gruppo. Io restavo seduta a guardare la stessa finestra, i cui vetri erano sempre poco puliti, sforzandomi di trovare nell'azzurro del cielo una fulminea serenità che mi desse modo di dimenticare quanto fossi sola in quel momento. La campanella, dopo un interminabile intervallo di tempo, suonava ed io facevo un respiro di sollievo con la mente proiettata verso la fine della giornata scolastica.

Mio nonno aspettava all'uscita con un sorriso caloroso, accogliente. La sua figura per me era sollievo, riparo, amore. Del resto mia madre era andata via per costruirsi la sua vita e mio padre era troppo interessato alle sue questioni personali. Salivamo in auto, parlavamo della mia mattinata e per non deluderlo cercavo di rendere il mio racconto un minimo più gradevole. Entusiasta, cominciava ad elencarmi le diverse pietanze che la nonna aveva preparato per me e annuivo con un finto sorriso sulle labbra. Il pranzo era un momento importante. Mi sentivo parte di qualcosa di bello, avevo di fronte la famiglia che desideravo, la felicità a cui miravo, l'amore a cui mi ispiravo. Avevano il dolore dentro anche loro ma erano più forti di me. Io ero solo una vigliacca.

Era il pomeriggio a darmi sofferenza. Non potevo uscire essendo priva di amicizie. Quando i pesi diventavano macigni sul petto, alleggerivo la testa ascoltando musica o leggendo libri. La vera salvezza è stata mia nonna che contornava le mie giornate di serenità sublime seppur fugace e per distrarmi mi narrava della sua infanzia, del suo primo incontro con l'amore della sua vita e degli orrori che il Secondo Conflitto Mondiale portò nel suo paesino dell'epoca. Oltre lei, nessuno aveva piacere nel dialogare con me e capii dopo anni che il problema non fosse nella mia persona. Volevano vedermi a terra, volevano vedermi in lacrime. Quando la gente crede di non saper brillare di luce propria impiega tutti i suoi sforzi per spegnere l'altro. Tutto ciò nasce da una grave mancanza di autostima. La cattiveria è debolezza. Per anni ho riposto in me le cause di ogni fallimento come se fossi io un errore immutabile ma ad oggi mi concedo il piacere di discolparmene. Una persona a me cara mi disse un giorno: -Sbaglia chi pensa male.
Care persone, abbiate coraggio e amatevi perché sbaglia chi pensa male. Non siete voi il problema ma coloro che lo vedono in voi. E ripeto, amatevi.

-Per qualsiasi cosa, sono disponibile all'ascolto e al conforto. G.

Io ce la faccioDove le storie prendono vita. Scoprilo ora