Julian

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"Mettiti i pantaloni!" mi disse mia madre, mentre si sbrigava a prendere tutte le cose. Cercavo quelli blu che mi piacevano tanto, e che piacevano tanto anche a papà. Magari mi avrebbe visto per un attimo e mi avrebbe detto qualcosa di carino.

Stavamo andando all'ospedale a vedere come stava mio padre... O meglio, mia madre avrebbe visto come stava. Io non potevo vederlo, perché avevo solo sette anni, e così sarei stato da solo con qualche medico o infermiere, come al solito. Al contrario di quanto potrebbe sembrare normale, l'ospedale era un posto che mi piaceva molto: i lunghi corridoi bianchi, le persone vestite di bianco, i reparti tutti bianchi, i primari che ti salutavano con la mano e ti davano una caramella quando potevano... Era tutto bianco. E il bianco mi piaceva. Poi c'erano anche delle finestre strane... Non so se sia così in tutti gli ospedali, ma il reparto nel quale era ricoverato mio padre aveva delle finestre oblique, impossibili da aprire senza l'aiuto del personale, e trasmettevano sempre riflessi strani. Mi piaceva starmene seduto vicino a uno di quegli oblò sul mondo, a guardare la gente che passava. Comunque, la cosa più particolare di tutte era che qualche volta venivo lasciato da solo per un po'. So cosa state pensando: un bambino da solo in un enorme ospedale. Suona molto male. Eppure era normale per tutti.

Ovviamente dovevo rimanere sempre nello stesso posto, ma potevo farlo.

"Che stai facendo?! Perché non ti sei messo i pantaloni?". Mia madre era più nervosa del solito. E io ero più pensieroso del normale.

"Mamma, non li ho trovati... Volevo quelli blu!" le dissi, con voce spezzata ma irritata, a metà tra l'incerto e l'arrabbiato.

"Non c'è tempo! Mettiti i primi pantaloni che trovi... Ah, che rottura di scatole!" mia madre mi mise addosso i pantaloni più brutti che avevo, con fare indignato.

Scendemmo per strada, dove ci aspettava mia cugina con la macchina. Noi non avevamo un'auto, e dunque per muoverci avevamo bisogno sempre di qualcun altro; al limite potevamo prendere i mezzi pubblici, ma non era sempre così comodo. L'unico in casa che guidava era papà, ma mamma diceva che i medici erano concordi sul fatto che, probabilmente, non avrebbe mai più potuto farlo.

Mia cugina mi accolse strizzandomi affettuosamente la guancia, ma io non ricambiai l'affetto. Perché in qualche modo, anche in quel corpicino piccolo e indifeso, la odiavo. Non tanto per quello che faceva (del resto era buona con me), ma per come lo faceva. Era sempre allegra, anche ai funerali, e sorrideva continuamente in modo strano, scoprendo i suoi denti gialli. Questo per me all'epoca bastava per odiarla.

"Mettiti la cintura di sicurezza, tesoro.". Mia madre cambiava tono di voce e modo di fare con me ogni volta che c'era qualcun altro. In quei momenti non sopportavo neppure lei.

Arrivammo all'ospedale dopo venti, forse venticinque minuti.

Mio padre era nel reparto psichiatria, al quale si accedeva dall'esterno con una lunga scalinata al termine della quale bisognava suonare a un portone. Volevo vedere tantissimo il mio papà, ma, come al solito, appena entrati mia madre mi lasciò a quello che io chiamavo il "bancone degli infermieri", e si incamminò per un corridoio illuminato di luci bianche insieme a mia cugina. Mia mamma mi diceva sempre che papà stava veramente male, e che per me vederlo sarebbe potuto essere brutto. A me però all'epoca non interessava: volevo solo averlo vicino.

Mentre ero lì, dottori vestiti di bianco mi passavano accanto, alcuni senza lanciarmi neppure un'occhiata, altri guardandomi per qualche secondo.

A un certo punto, sentii una voce dietro di me: "Ehi, ragazzino!".

Mi voltai. Accanto al bancone, in mezzo alla folla di infermiere e infermieri, operatori sociosanitari e addetti all'assistenza di base, c'era un uomo vestito di bianco. Aveva capelli lunghi – gli arrivavano sotto le spalle – e ricci. Ma quello che mi colpì fu che erano di un biondo acceso, il colore del sole. Aveva un sorriso amichevole sul volto.

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