Mi siedo, lasciando penzolare le gambe dal decimo piano del palazzo in rovina.
Le mie mani tremano, e il mio sguardo si offusca.
I miei occhi scuri setacciano ogni cosa, dall'alto al basso.
Nessuno.
Non c'è nessuno.
E, anche se ci fosse qualcuno, non mi noterebbe, perché io sono proprio quel tipo di ragazza invisibile.
E no, non intendo che le persone mi vanno a sbattere contro perché non mi vedono per strada.
Intendo che sono quella ragazza che non viene mai invitata da nessuna parte, e origlia con invidia gli altri mettersi d'accordo sul l'orario.
Intendo che sono quella ragazza che se c'è o non c'è a scuola, non riceve messaggi del tipo “come stai?” “Cosa hai fatto?”, “successo qualcosa?” “Poi oggi ti aggiorno, tranquilla”, perché a nessuno davvero importa di me.
Intendo che sono quella ragazza che nessuno indica nelle foto d'istituto, che siede sempre sola sul tram e viene perennemente esonerata da ogni tipo di conversazione, perché infondo a chi interessa la mia opinione?
Quella ragazza che non ti ricordi mai il nome, o il colore degli occhi, o il tono della voce, perché non é che le dai attenzione, ma noti di sfuggita.
Quella ragazza con gli occhi troppo grandi, che vede sempre troppe cose, anche cose che non vorrebbe vedere, anche cose che preferirebbe ignorare.
Le lacrime minacciano di inzupparmi le guance e una morsa al petto continua a stringermi, fino a rendermi complicato persino respirare.
Lascio che il vento freddo mi pizzichi il naso e mi arruffi i capelli.
Mi ricordo che dentro alla tasca del mio giubbotto ho ancora una lametta, perché ieri ero così stanca che sono crollata e mi sono dimenticata di toglierla.
Come una calamita, attrae le mie dita, che bramano di stringerla.
Il metallo è freddo e duro, e subito una scarica elettrica, partendo dai miei polpastrelli, si libera nel mio corpo.
Una serie di ricordi attraversano il mio cuore.
Lentamente, la passo sulla pelle pallida del mio polso.
Penso che sono così bianca che le vene risaltano in modo esagerato sul mio incarnato.
Prima lentamente.
Un bruciore si espande, guardo dritto, davanti a me.
Sono in periferia, e il cielo mi riempie lo sguardo.
Tempo fa, l'avrei sicuramente fotografato.
Tempo fa, avrei allungato le braccia e avrei scritto nell'aria poesie.
Tempo fa avrei pensato al suo sorriso e avrei iniziato a sorridere anche io.
Ma il tempo passa e le cose cambiano.
Il sangue colora quel taglio, dapprima superficiale, e lentamente sempre un po’ più profondo.
Penso che il mondo é stupido e non é tanto la vita a fare schifo, quanto più le persone.
Quanto odio le persone.
Nutro un odio represso nei loro confronti.
Se penso alla parola “Persona”, subito il mio cervello la collega con “Perso”.
Perché non ho più nessuno.
E, checazzo, detesto ammetterlo, ma quanto mi mancano.
Mi mancano quegli abbracci alla stazione che ti rendevano il lunedì mattina un po’ meno lunedì mattina.
Mi mancano tutti gli audio, i messaggi, le risate, i segreti, i nomi di quei ragazzi che stalkeravamo da lontano, la musica ascoltata quando tutto era troppo rumoroso, i libri letti e scambiati, i film, le pizze sempre troppo grandi per finirle tutte.
Involontariamente la mia rabbia cieca mi ha avvampato il petto e ora il mio braccio gronda sangue.
Ma io, continuo.
Perché mi do la colpa.
Mi do la colpa di aver finito tutte le cose belle che avevo, tutta la felicità costruita, tutti i rapporti legati al cuore.
É colpa mia. É colpa mia.
E fa male.
Fa così male essere invisibili soprattutto ai loro occhi.
Fa così male stare di fianco loro e non potergli parlare, non eliminare tutte quelle foto sfocate e quei video disagiati.
Fa così male, ma così male, guardarle ma non essere vista, sfiorarle ma essere respinta, cercare di rimediare quando loro ormai ti Han detto “di te non me ne è mai importato niente”.
Fa male vederle con altre persone, perché migliori di te.
Fa male essere sostituite, dimenticate ed infine cancellate.
Tutto inizia a diventare scuro e sfocato, e mille macchie mi offuscano la vista.
Ma continuo , continuo, continuo e non mi fermo.
Ho deciso che voglio arrivare fino in fondo.
Ogni taglio libera un nuovo ricordo.
E ad ogni ricordo liberato, mi rendo conto che nonostante tutti gli adii non le ho mai davvero cestinate.
E mai mai mai riuscirò a perdonarmi del fatto che sono un disastro e come al solito, quando sto troppo bene, per non soffrire, per paura di affezionarmi, ferisco e allontano tutti prima io.
Continuo a domandarmi che forse, forse, e dico forse, se ti avessi mandato un messaggio in più, se ti avessi stretto un po’ più a lungo, se ti avessi fatto ridere una volta in più, se ti avessi ricordato quanto sei importante per me, forse ora non sarei qui.
E da quando sono diventata quella ragazza invisibile per te, per voi, per loro, lo sono diventata anche ai miei occhi.
Non mi guardo più allo specchio, non mi curo più; mi annullo pezzo dopo pezzo col passare dei tramonti.
La mia famiglia si é abituata e anche per loro trasparente sono diventata.
A nessuno interessa di me.
A me non interessa di me.
A nessuno interesserà se oggi tornerò a casa o meno.
Proprio come se domani sarò seduta al mio banco o no.
I giorni passeranno, il ricordo del mio volto sbiadirà del tutto.
Nessuno si ricorderà più chi sono.
E va bene così.
Con le ultime forze che mi rimangono mi spingo completamente in avanti.
E mentre precipito, già pronta all'impatto, una voce nella mia testa mi assilla, prima sottovoce e adesso grida, così forte da trapanarmi i timpani.
É la voce telefonica, dal cellulare che ho nella tasca dei jeans, di quel ragazzo in ultima fila che mi aveva raccolto la matita, fissandomi i polsi. Sta dicendo “dovevo dirtelo prima. Non sei sola, anche io ci sono passato. E voglio aiutarti. Ti tengo il posto di fianco a me domattina così ti faccio vedere una cosa.
Sai, ti ho fatto un ritratto; sei circondata da fiori perché come loro , dopo aver passato l'inverno sotto al freddo buio del terriccio, creperai la terra e sboccerai, portando la primavera ovunque andrai”.
E in quel momento, poco prima di diventare una poltiglia sul cemento ghiacciato sottostante al palazzo, ho realizzato che c'era ancora una speranza, e che in fondo, ogni problema, era risolvibile.