Capitolo 1

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Amavo Roma.

Quella caotica, asfissiante, imperfetta e magnifica città di cui non riuscivo mai a saziarmi. L'amavo come si ama una vecchia amica, come una canzone che non ti stanchi mai di ascoltare, come un vestito che anche se sei cresciuta e non ti entra più, non vuoi smettere di indossare. Roma era la mia amante, la mia confidente, la custode dei miei segreti. Era anche un po' la mia mamma, che con una mano mi teneva con i piedi per terra, e con l'altra mi portava in cima al Colosseo.

Roma mi diceva: «Sorridi, bambina. Il mondo è tuo.»

E certe volte, anche se sapevo che non era così, a quelle parole quasi ci credevo. Per qualche istante mi sentivo davvero la padrona del mondo, proprio come in quel momento.

Lassù, tra gli alberi di Monte Mario, guardavo la mia Roma e in silenzio le confessavo il mio amore, mi dichiaravo sua.

Che i francesi si tenessero pure la loro città dell'amore e gli inglesi quel loro bell'orologio; io avevo la storia.

Avevo il grande Augusto e Cesare e Adriano; avevo l'anfiteatro Flavio, la breccia di Porta Pia. Avevo tra le mani tutto quello che era accaduto, quello che stava accadendo e, forse, anche quello che sarebbe accaduto.

«Giulia! Andiamo via. Lo so che tu non hai problemi perché i tuoi non ci sono, ma se mia mamma scopre che sono fuori a quest'ora mi sbrana viva.»

«Dammi un attimo, altri due secondi.» implorai Chiara, la mia migliore amica, senza nemmeno voltarmi a guardarla.

Il sole stava giusto iniziando a sorgere e la notte stava cedendo il passo al giorno.

Non sarei mai riuscita a guardare abbastanza volte quello spettacolo; a vedere la mia amata città prendere vita piano piano e senza fretta. Perfetta per pochi, brevi istanti.

«Non fare storie! Sono le sei del mattino, brutta stronza, e io potevo starmene a casa a dormire. E invece no! Perché te volevi vedere l'alba.»

La raggiunsi in fretta, cercando di nascondere un sorriso colpevole. Al posto suo mi sarei già mandata a quel paese da un po', ma la pazienza di Chiara era proverbiale, soprattutto quando si trattava di me. Certo, poi rischiavo di dover sopportare i suoi lamenti per mesi, ma non mi diceva mai di no. Nemmeno quando le chiedevo di sgattaiolare via e andare a vedere il sole che illuminava Roma.

«Giuro che non te lo chiedo più.» 

*******

Erano le sette meno un quarto. Chiara era riuscita a tornare a casa prima che sua madre finisse il turno di notte al Gemelli, e io prima che mia nonna venisse a controllare se fossi morta durante la notte. Da quando i miei genitori erano partiti per Firenze, tre giorni fa, me la ritrovavo in casa a orari improponibili.

Neanche a farlo a posta, puntuale come un orologio svizzero, alle sette spaccate sentii la chiave che girava nella serratura del portoncino.

«Ciao no'» strillai dalla mia camera appena la sentii entrare.

Ormai chi dormiva più...

«Ciao cocca de nonna.»

Fece capolino da dietro la porta, sorridendomi affettuosa.

«Vieni di là a nonna, ti ho portato la colazione e la lasagna. Così oggi mangi e non ti muori di fame.»

Nonna Giulia, un po' come Roma, era un altro dei capisaldi della mia vita. Uno dei pochi esseri umani ad avere il mio amore incondizionato. Eravamo simili, io e lei: cocciute come un mulo, dalla lingua lunga e con gli stessi colori.

Da lei avevo ereditato i capelli rossi e la spruzzata di lentiggini; geni che avevano deciso di saltare una generazione e risparmiare mio padre e mia zia manifestandosi in me e mio cugino con tutta l'esuberanza possibile. Adesso i capelli di nonna Giulia erano bianchi e non più rossi, e le lentiggini erano sbiadite, ma da piccola avevo visto alcune sue foto da giovane, ed era davvero identica a me.

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