Capitolo 2

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Rientrai in casa con il volto ancora in fiamme.

Che poi, perché mai ero così imbarazzata?

Avevo solo fatto la figura della stupida restando imbambolata a fissare il figlio di Luca con la bava alla bocca.

Però... Cavoli se era carino.

Decisamente un altro paio di maniche rispetto agli adolescenti allampanati e in piena crisi ormonale che avevo visto a scuola.

L'avvocato Romano aveva due figli, che io non avevo mai visto. Per cui non avevo idea di chi dei due avessi incontrato quel giorno. Mentre ci rimuginavo su una minuscola parte di me mi riportò alla mente un episodio di tanti anni prima; una scena sfocata di una me bambina e un ragazzino dai capelli neri.

Era uno dei tanti giorni che avevo passato allo studio insieme al nonno; ero corsa giù per le scale perché il signor Romano mi aveva chiesto di portare un foglio a Ginevra e io, con tutto l'entusiasmo di una bimba di quattro anni, avevo eseguito con piacere.

A un certo punto della mia rocambolesca discesa, avevo messo un piede in fallo ed ero caduta rotolando giù per un'intera rampa di scale.

Qualcuno mi aveva raccolta da terra mentre piangevo: un adolescente dagli occhi e i capelli scuri che mi aveva cullata con gentilezza sussurrandomi parole dolci.

Il resto del ricordo era troppo confuso per riuscire a dare un volto a quella figura; ma ero piuttosto sicura che si trattasse di uno dei figli dell'avvocato. Quale altro motivo avrebbe avuto un ragazzino di girare per uno studio legale?

Ovviamente, chiunque fosse la persona nei miei ricordi, ero piuttosto sicura che fosse cambiata abbastanza; quindi continuare a cercare delle somiglianze tra l'uomo che avevo visto oggi e il giovane di quindici anni prima non avrebbe portato a nessun risultato attendibile.

Inviai un messaggio a mia madre per farle sapere di aver consegnato i documenti - ricevetti in risposta nientemeno che una faccina sorridente e pollici alzati - e mi misi comoda.

Adoravo la pioggia. Starmene a casa arrotolata nelle coperte mentre fuori faceva freddo e le gocce d'acqua battevano ritmiche sul soffitto e sul selciato del giardino.

Se poi ci si aggiungeva la fantastica sensazione di non avere perfettamente nulla da fare se non oziare, allora ecco: il Paradiso.

Via le scarpe e i jeans, indossato un comodissimo pantalone di tuta, mi accoccolai sul divano, i cui cuscini, ormai, avevano preso la mia forma a causa di tutto il tempo che ci passavo stravaccata su. Stavo per accendere la televisione e cercare qualcosa da guardare, ma venni interrotta dal suono del citofono.

Scattai su sbuffando. Chi mai poteva essere?

Mia madre non sarebbe rincasata prima delle quattro, ed erano appena le undici del mattino; mio padre sarebbe tornato per cena, e mio fratello avrebbe passato il pomeriggio e la notte da nostra zia.

Sbirciai lo schermo collegato alle telecamere di videosorveglianza e risi.

Afferrai la cornetta del citofono e dissi: «Casa De Luca, chi è?»

«Zoccola, sono io. Apri.»

«Io chi?»

Intanto, mezza bagnata, Chiara faceva il dito medio rivolta alle telecamere di sorveglianza.

Pigiai il pulsante per aprire il cancello e corsi al portoncino.

«E io che ti ho pure portato i muffin.»

Chiara entrò in casa tutta imbronciata brandendo una busta di carta bianca.

Aveva la magia completamente zuppa e i jeans chiazzati di umido; il caschetto biondo era in condizioni pietose e i capelli erano passati dal liscio di piastra al suo riccio naturale.

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