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Canzone consigliata per il capitolo:
Cherofobia - Martina Attilli

Ci sono assenze che sono scuse, assenze che sono pause. Ci sono mancanze che restano, presenze che stancano, tenute in vita artificialmente soltanto dall'abitudine. Al di là di ogni apparenza, in un mondo in cui quasi tutto si cancella in fretta per fare spazio a centomila possibili novità, qualcosa la metti a fuoco oltre ogni previsione possibile e per quanto ci provi non puoi negarla ai tuoi occhi. Più ti manca qualcuno più è ovunque presenza.
- Massimo Bisotti

14:03
Spensi lo schermo del cellulare e sollevai lo sguardo verso i porticati grigi inquinamento dall'altro capo della strada.
Tra due minuti esatti, Omar sarebbe arrivato dal lato destro della carreggiata, facendo suonare il clacson per tre volte consecutive.
Le voci dei miei coetanei risuonavano intorno e io non mi concentrai su nessuna in particolare.
Nonostante frequentassi da ormai più di tre anni quella scuola, oltre a saper distinguere i loro volti, non conoscevo nessuno; se non superficialmente i miei compagni di classe.
Sentii degli schiamazzi che riuscirono a richiamare la mia attenzione.
Provenivano dalla piazzola che ospitava la chiesa di Santa Lucia, che affiancava la struttura liceale e vidi quella folta chioma rossa allontanarsi a grandi falcate dall' agglomerato di ragazzi.
Le mie iridi la seguirono finché non fu troppo lontana, per poi diventare un puntino.
Era la prima volta che la vedevo da quell'incontro in biblioteca e in quei giorni avevo sperato di imbattermi in lei anche per sbaglio, per tanti motivi, ma nessuno di essi mi spinse a cercarla. Io non cercavo nessuno, e mi facevo trovare solo da chi volevo lo facesse.
Non a caso fin da piccola sono sempre stata una grande giocatrice di nascondino. Era facile per me, uno scricciolo non alto più di un metro e venti, scomparire in una grande casa piena di mobili ma essenzialmente vuota.
I miei genitori si divertivano a farmi nascondere, ma si annoiavano dopo poco. Il nostro gioco poteva durare delle ore, a volte. Il quattro marzo, all'età di cinque anni imparai che da quel giorno in avanti avrei dovuto fare la tana da sola.
Quel turno durò tutta la mattinata, finché una donna brizzolato, con le mani ruvide a causa dei troppi calli, mi richiamò dicendo che il gioco era finito e che i miei rivali avevano preso il primo volo per Bruxelles.
Nessun saluto, solo dei nuovi pattini sul materasso grigio della mia camera, dalle pareti bianche.
Quelle pareti bianche erano la mia costante, gli spettatori della mia crescita repentina. Conoscevano ogni mio sogno fanciullesco e ogni mia speranza mal riposta, che di fatto si tramutarono in sfoghi, pianti, paure, angosce e urla silenziose.
Le uniche mura che mi abbracciavano come una famiglia, abbracci freddi di certo; ma molto più caldi di quelli che erano solo un'aura.
In quel nido avevo superato i primi anni di insicurezza adolescenziale. Quella curiosità lussuriosa fece capolino nella mia vita, insegnandomi ad amare ogni curva del mio corpo e le sensazioni che potevo provare con e grazie ad esso.
Nessun consiglio materno, nessuna conversazione intrinsa di pudore e vergogna. Avrei voluto provarle per poi essere rassicurata da una coperta di parole di lana esperte, anche se al primo impatto pungente.
Un gesto che può sembrare banale e futile a un occhio esterno, ma che non lo era per niente.
Forse, se fosse successo, i miei dubbi sarebbero diminuiti in parte e non si sarebbero accumulati. Quelle cinta racchiudevano ormai, se non amplificavano il mio labirinto senza pareti.
Quei sicuri ma fatui abbracci si trasformarono nel mio porto nemico.
Sentii tre corti fischi stridenti.
Vidi il sorriso di quel gigante buono, nascosto dal vetro perfettamente lucidato della vettura grigio ardesia. Sbloccai di nuovo lo schermo del mio telefono:- 14:05- sussurrai.
Perfettamente in orario.
Lo raggiunsi e salii in macchina.
-Buon pomeriggio, Signorina Paleotti- mi salutò, iniziando la manovra di retromarcia verso via degli Scalini.
Non pronunciai parola, e Omar continuò il viaggio senza interferire con il mio silenzio.
Sapeva che il tratto del ritorno da scuola, doveva essere quieto.
Erano le strade che preferivo più per vedere la mia Bologna, la grassa, la ricca ma anche la fragile. Sotto le due Torri a splendidi palazzi traboccanti di ricchezza si alternavano i medicanti che chiedevano l'elemosina sul ciglio della strada. Case sontuose, accanto a monolocali striminziti. Giacigli di fortuna e locali di artigianato davanti alle banche più grosse.
Dai giardini nascosti alle case popolari di piazza dei Colori. Una città che era piena di contraddizioni, dove vivere in un quartiere rispetto a un altro poteva cambiare l'aspettativa di vita di quasi quattro anni, almeno secondo gli studi che erano stati compiuti l'anno precedente, durante il censimento.
Io abitavo nel quartiere dei Colli che insieme a Galvani e Murri, facevano parte del quartiere Santo Stefano.
Esso era considerato uno dei quartieri più eleganti della città.
Un'estensione di circa trenta chilometri quadrati, verso sud dal centro della città fino a comprendere alcune zone collinari dell'appennino tosco-emiliano, i rinomati "Colli bolognesi".
Il tessuto urbano del quartiere Santo Stefano era piuttosto variegato: si andava dalle tipiche case bolognesi con i portici, alle ville di più recente costruzione che sorgevano sui colli e dove abitavano numerose famiglie più importanti della città.
Santo Stefano era anche un luogo ricco di arte e cultura: comprendeva piazza Maggiore e piazza Santo Stefano, ma anche luoghi di calma e pace come i giardini Margherita, Villa Ghigi e il parco lunetta Gamberini.
I miei genitori non si erano fatti sfuggire l'opportunità di vivere all'inizio della via che portava a una piccola collinetta da dove si poteva vedere dall'alto tutto il centro. Conoscendoli lo avevano potuto fare solo per sentirsi migliori di coloro che vivevano ammassati come formiche nel centro.
Avevano sempre avuto questo atteggiamento di superiorità verso tutti, alcune volte anche fra di loro. E il loro lavoro di certo non sminuiva il loro ego.
Mia madre, un avvocato di successo, si era trovata per caso a diventare il legale di un parlamentare europeo, quest'ultimo era mio padre.
Era riuscito da ben due anni a diventare presidente della commissione Affari economici e monetari del Parlamento europeo; e grazie alla scaltrezza di mia madre e le buone connessioni all'interno del PD e nella commissione europea di mio padre , ero sicura che avrebbe ricoperto quella carica, se non altre di ugual importanza, per molto tempo ancora.
Erano una coppia perfetta: entrambi troppo presi dal lavoro, malati di megalomania, egocentrici e freddi con chiunque non facesse parte della loro bolla.
Io naturalmente sembravo non farne parte.
Non mi avevano mai proposto di andare a vivere a Bruxelles così da evitare i loro continui spostamenti, inizialmente mi bevvi la scusa che volevano farmi vivere vicino alle loro origini, nella calma italiana; ma ben presto arrivai alla conclusione che sembravo essere solo un ostacolo per la loro scalata verso il nulla.
Sì, il nulla.
Perché prima o poi sarebbero andati in pensione e tutto il loro denaro e prestigio a cosa sarebbe servito? A me? La figlia che molte volte dimenticavano di avere?
Risi amaramente.
Un ragazzo qualsiasi, se avesse avuto la possibilità di avere in futuro una grande eredità, farebbe i salti di gioia, ma io?
La macchina si fermò guardai nuovamente l'orario: 14:18. Tredici minuti, come sempre.
Entrammo dopo che il portone marrone ramato si chiuse alle nostre spalle.
La macchina si fermò sulla fine di un sentiero su cui poggiava uno spesso strato di ghiaia rossiccia.
Omar in uno scatto veloce e meccanico, mi aprì la portiera.
Salimmo i gradini circondati da entrambi i lati da erba, su cui spuntavano qua e là cespugli di trifogli e fiori autunnali non ancora nel periodo di fioritura.
La fine degli scalini in roccia grigia, portava dinanzi a una villa a tre piani su cui si alternavano strutture a timpano, linee portanti rettangolari e verticali; le quali segnavano lì dove in casa ci fosse un camino, doverosamente in legno.
A mattoncini di molteplici tonalità di grigio, si alternavano vetrate che consentivano allo spettatore di intravedere l'arredamento caldo sui toni del legno, e muri intonacati di uno strano grigio talpa.
Tutta l'architettura mastodontica era incorniciata da un fitto bosco di pini e alberi da frutto, che continuava anche fin dietro alla casa per ben un ettaro di terreno.
14:20 la porta di casa si aprì, senza dover suonare il campanello.
Era tutto scandito da una precisione svizzera.
Corsi su per le scale, fino a raggiungere la mia stanza, che si trovava nel punto più alto della casa, isolata perfettamente dalla vita attiva del piano terra.
Chiusi la porta alle mie spalle e mi buttai come un corpo morto sul mio letto da una piazza e mezzo.
Alzai lo sguardo al soffitto.
La mia cameretta stonava completamente con il resto della villa, e lo avevo deciso intenzionalmente.
Avevo voluto cambiare il colore delle pareti da grigio a bianco; senza il consenso dei miei, all'età di dodici anni prima del loro ritorno, quando partirono lasciandomi da sola per più di sei mesi.
Volevo attirare la loro attenzione. Desideravo che provassero qualcosa, anche se fossero stati rabbia o rimproveri, l'avrei accettati a braccia aperte.
Ma ci fu soltanto un:"Okay, cara".
Sentii un rumore metallico, seguito da delle porte che si chiudevano, lo strusciare delle sedie sul parquet e dei passi che salivano le scale.
Tutta quell'armonia mi era ormai familiare. Sapevo che la governante Lucrezia stava mettendo a posto le pentole, che alle 14:25 la cameriera russa di cui non avevo mai saputo pronunciare il nome, controllava che tutte le camere fossero state pulite senza lasciare niente fuori posto, che la vecchia donna con le mani ruvide, apparecchiava il grande tavolo rettangolare in mogano solo per me e che infine il Signor Alberto saliva fino alla mia caverna del drago per avvisarmi che il mio pranzo era pronto.
Nonostante tutti quei rumori mi facessero compagnia ogni giorno, mi sentivo sola anche in casa mia.
Sentii anche dei passi più leggeri e lontani che non facevano parte della mia routine questa volta.
Ripetutamente in passato mi ero illusa che fossero i miei genitori, e quel giorno ero sicura che era l'ennesimo spasimante della governante.
Guardai l'orologio sulla parete di fronte al letto. Contai fino a 10, insieme ai movimenti netti della lunga lancetta.
14:30.
Alberto bussò alla porta, grugnì e lui entrò.
-Signorina Paleotti... - iniziò con tono autoritario, perfettamente coerente alla postura presa affianco all'uscio.
-Il pranzo è a tavola, lo so. Albero, lo so. - sbuffai, sorpassandolo velocemente e incamminadondomi verso la grande stanza costantemente riempita solamente da me.
Nella mia mente fecero capolino il ricordo notorio, del commensale.
Una tovaglia avorio, dai bordi ricamati perfettamente stirata, sulla quale poggiavano due bicchieri di cristallo, i due piatti per le due portate di cui abitualmente, mangiavo solo una parte, e affianco ad essi, ai due lati le posate di argento con lo stemma di famiglia.
Ma sembrò esser diversa occasione quel giorno, perché oltre a quelle stoviglie al centro del tavolo, ce n'erano altre due coppie all'appendice di quest'ultimo.
Mi fermai quasi come se mi avesse colpito una fulminea paralisi muscolare.
Voltarono il loro muso per guardarmi.
-Rea, non ti siedi? - mi chiese la donna intenta a infilzare la pennetta ricoperta di pesto.
Tutto ciò aveva saputo dirmi, nessun abbraccio, nessun sorriso. Non che me lo aspettassi però sapevo che anche quello che non succede, lasciava cicatrici.
Mi sedetti lontano da loro, al mio posto.
Loro continuarono a parlare del lavoro e di alcune strategie elettorali, mentre io notai alcuni cambiamenti in quelle figure.
La chioma di mia madre era diventata più chiara, e gli occhiali a goccia erano stati sostituiti da un paio oversize a occhi di gatto.
La montatura era troppo spessa e il colore troppo vivace per il suo viso piccolo e sottile. Oscurava la sua bellezza tipicamente italiana.
Il bianco stava salendo via via sulle basette di mio padre, e le rughe si facevano sempre più evidenti. Soprattutto quelle d'espressione, in corrispondenza delle sue fossette.
Nonostante i suoi cinquanta anni, e i segni del tempo che incombeva, i suoi occhi erano ancora vividi, arguti e scattanti, risplendevano dello stesso colore delle mie iridi.
-Come è andato il viaggio? - domandai a voce flebile, quasi per paura di interromperli.
Continuarono a parlare, e io a mangiare.
Ero consapevole che c'era qualcosa che non andava, era come se non gliene importasse più niente di me, io venivo dopo di tutto il resto.
-Quando ripartite? - chiesi, a voce più alta, iniziando ad innervosirmi.
Affondai la mano sinistra nella seduta di legno e mi ricordai di come Ayla, non si arrendesse con me.
Provai tanta invidia nei suoi confronti, perché lei aveva trovato terreno fertile, sapeva quale domande farmi per conversare e raggirare la mia diffidenza.
Perché non ero così?
-Ci sarete a Natale? - continuai a lanciare quelle parole, ma esse rimbalzavano indietro.
Molto probabilmente anche se avessi detto di esser rimasta incinta, non mi avrebbero presa in considerazione.
Stavo per prendere una pennetta, quando la mia forchetta scivolò sul piatto producendo un rumore stridulo. Era esattamente il suono che avrebbe fatto il mio cervello in quel momento.
Si girarono a guardarmi, mi sentii soddisfatta.
L'uomo portò lo sguardo sul mio polso e si accigliò.
-Perché non porti al polso l'orologio che ti abbiamo regalato, non ti è piaciuto? Lo possiamo far cambiare, se vuoi Rea- affermò cercando di essere premuroso, ma la freddezza con cui lo disse buttò nel cestino quel suo tentativo.
Non notarono il mio nuovo taglio di capelli, o il piercing finto sul bordo destro del naso, o le occhiaie delle notti in bianco o le unghie mangiucchiate fino alla carne per l'ansia.
No, avrei preteso troppo.
Avevano notato l'assenza di uno stupido orologio, che con sicurezza chirurgica non avevano neanche visto in prima persona. Non lo avevano scelto perché a me piaceva il rosso, o perché sapevano che amavo l'accostamento con quest'ultimo con l'oro; ma perché uno dei domestici gli aveva detto che a me mancava.
Per quale ragione loro dovevano conoscermi? Nessuna.
E perché io dovessi imperterrita continuare a volerli conoscere e aspettarli come un orfano aspetta il ritorno dei genitori?
Ero il Telemaco, della mia Odissea.
Telemaco rischiava di rimanere schiacciato dall'attesa di un ritorno che non dipendeva affatto da lui ma sempre e comunque dal padre.
Perché Telemaco, da solo, questo padre non lo avrebbe trovato mai. Ma non è proprio fra le abilità dell'Homo sapiens la capacità di staccarsi dal presente, e quella di confrontarsi con i limiti scabrosi dell'utopia.
14:55
Lucrezia entrò nel salone e iniziò a sparecchiare. Mentre in silenzio io continuavo a esaminare l'espressioni delle due persone che mi avevano messo al mondo.
E sentii solo stanchezza. Non ero arrabbiata, quel periodo era ormai passato. Sentivo solo un macigno sull'imboccatura dello stomaco. Un dolore quotidiano che sembrò aumentare.
Quel macigno sapevo bene avesse il nome di delusione, perché la delusione a differenza della rabbia, non si metabolizza.
Era una presenza costante.
-Non mi sento bene, torno in camera- pronunciai, sconfitta.
A differenza di Ayla, io mi ero arresa. Io non avevo più la sua voglia di continuare a lottare e né la sua forza.
Prima o poi sapevo che anche lei l'avrebbe persa e sentii di odiarla, in quell'istante con tutta me stessa.
L'unica cosa che potevo fare era scappare.
Sarebbe stato tutto okay, se non mi fossi fermata a pensare.
Mi sentii come Petrarca, nel sonetto "O cameretta che già fosti un porto".

E io non fuggo solo il mio segreto e il mio riposo, ma soprattutto me stesso e il mio pensiero [...]
e invece cerco quale mio rifugio il popolo a me ostile e odioso (chi l'avrebbe mai pensato?): è tale la mia paura di ritrovarmi solo.

E anche io andai quella stessa sera alla ricerca di quel volgo profano, che ho sempre evitato. Tuffandomi nel succo di Bacco e finalmente assuefatta da esso, Morfeo per la prima volta da mesi, mi accolse gioioso, regalandomi un sonno privo di mostri.

Generazione VanigliaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora