Cap. II Non devo guardarlo

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Per un istante ho visto il suo volto, il volto di Julian, sotto l'elmo volato via dalla testa del Giudice, ma lo so che non era lui.

Il Giudice cerca soltanto di confondermi. Crede di essere riuscito a leggermi dentro, ma invece non ha potuto fare altro che sbirciare attraverso il buco di una serratura.

Il mio cuore è impenetrabile, anche per uno potente come lui.

Io. Ho. Il. Controllo.

Me lo ripeto continuamente, muovendo le labbra rapide, come se stessi pregando.

Quando apro gli occhi, avvertendo nell'aria un profumo di fiori più dolce e penetrante di quello a cui sono abituata, mi trovo ancora davanti la creatura che ha tentato di portarmi via ogni stilla di forza vitale e le parole che stanno ancora impastando la mia bocca si perdono nel silenzio.

Allora è questo il volto di un Giudice, no, non di un Giudice... del Giudice.

Spalanco gli occhi di fronte a quelle iridi che sembrano cambiare continuamente colore, a quei tratti fieri, ma così incredibilmente umani.

Non devo guardarlo!

I miei occhi non mi obbediscono e contemplano la pelle di marmo bruno del Giudice, gli zigomi alti, la perfezione delle labbra che hanno toccato le mie.

Lui distoglie lo sguardo per chinarsi a raccogliere l'elmo da terra e, in quel movimento, i lunghi capelli del colore della prima neve d'inverno gli scivolano sugli spallacci dell'armatura, in un ipnotico contrasto con il nero delle piastre metalliche.

E io non riesco a smettere di guardarlo.

Per questo non mi accorgo delle due figure che sono strisciate lentamente fino ai miei piedi, finché una di loro non mi avvince improvvisamente, stringendomi le ginocchia tra le braccia.

A quel contatto sobbalzo, cercando di divincolarmi, ma è troppo tardi. Scorgo il luccichio degli occhi scuri della creatura che mi rivolge un ghigno feroce e poi sento i suoi denti affondarmi nel torace, sotto il seno sinistro.

Mentre urlo, avverto la pressione esercitata dalle sue mascelle contro le mie costole, la sua saliva che mi bagna il corpetto.

Cerco di liberarmi congiungendo le mani a pugno e abbattendole sulla testa del mio assalitore, sul cranio scarnificato di un canide simile a uno sciacallo; lo colpisco ripetutamente, ma lui continua ad affondare i denti e a me manca il respiro.

La mia vista si appanna, come se la nebbia fosse tornata ad avvolgermi, mentre sento il corpo afflosciarsi in quella morsa che sembra non lasciarmi scampo.

E poi avverto un improvviso strappo, le mie gambe ondeggiano. Nel crollare a terra, vedo la mano del Giudice sollevare di peso la creatura che ancora cerca di artigliarmi le vesti, e scagliarla lontano.

– Il pagamento è stato accettato – scandisce con la sua voce profonda, senz'età, mentre si infila nuovamente l'elmo dal sembiante di drago, abbassando la celata e coprendo ancora una volta il suo viso.

Accasciata sull'erba soffice, in mezzo ai narcisi che fioriscono e avvizziscono sotto le mie ginocchia, seguo con lo sguardo Karola che mi passa accanto, con l'incedere elegante di una regina al cospetto del suo signore, e mette la mano in quella del Giudice, tesa verso di lei.

Mi voltano entrambi le spalle subito dopo, sparendo nella foschia che si chiude su di loro come il sipario in un dramma della commedia dell'arte.

Rimasta sola, cerco di respirare profondamente, tenendomi la mano premuta in corrispondenza del punto in cui sono stata morsa. Delle creature che erano strisciate verso di me per aggredirmi non c'è più traccia; sono state ingoiate anch'esse dalla nebbia che scende umida sul mio corpo, sempre più fitta.

Requiem d'invernoDove le storie prendono vita. Scoprilo ora