Incanto e Terrore

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«Grazie!» Strillo con la speranza che mia sorella possa sentirmi.

La settimana passa normalmente finché il lunedì mattina Ines, tutta sporca e spaventata, entra in camera mia. Ha la faccia gonfia e rigata dal rimmel per il pianto.

«Zara, ho bisogno di aiuto.» Sta tremando, si morde il labbro e si avvicina a me. Cade in ginocchio e inizia a piangere disperatamente, fa fatica a respirare e vederla così mi spezza il cuore.

«Cosa ti è successo? Che hai fatto?» L’abbraccio talmente forte da farle capire che non è sola, e mai lo sarà.

«Qualsiasi cosa tu abbia fatto, sappi che io sotterrei anche un cadavere per te!»

«Ho bisogno di una doccia prima. Non riesco ancora neanche io a contemplare ciò che è accaduto!»

«Va bene, piccola peste. Vai a farti la doccia, poi devi sfogare ogni minimo secondo di ciò che ti ha ridotta così!»

Passano 20 minuti e Ines esce dal bagno, si siede sul letto e mi fa cenno di chiudere la porta della camera. Le prendo le mani nelle mie e le accarezzo.

«Dimmi, fai con calma. E stai tranquilla, non sono qui per giudicarti!»

«Sono partita dal bar. Quando Marcus e tu vi siete andati, dopo 2 minuti mi ha chiamata mia nonna. Sai, certe volte, magari pensi che sto scherzando quando ti racconto delle idee della nostra famiglia. E sì, certe volte le trovo buffe anche io. Ma questa volta, questa volta è tutto diverso!» Si porta le mani a coprirsi la faccia, cerca di trattenere le lacrime, e giuro che non l’ho mai vista così terrorizzata.

«Ines, se non te la senti, non c’è problema. Non sentirti obbligata.» L’abbraccio nuovamente, ma lei sobbalza dal letto e comincia a girare per la casa, gesticolando freneticamente.

«Sto impazzendo sicuramente, ciò che ho visto non può essere vero, Zara ti prego, mi sento la testa scoppiare e il petto bruciare. Sono tornata di corsa a casa, mia nonna aveva preparato una grossa borsa di lana, di quelle che ricama lei a mano. Mi ha obbligata a vestirmi negli abiti tradizionali di noi zingari. Un abito lungo, rosso fuoco addobbato di fiori coloratissimi, con le maniche a sbuffo e mi ha legato un pezzo di stoffa dello stesso colore del vestito, attorno alla testa. Mi ha trascinata fuori. Mi ha buttata in una macchina, che non so neanche di chi fosse. C’era un uomo dell’alto rango zingaro a guidare. Mi ha terrorizzata, chiedendo a mia nonna se fossi pronta. Non mi degnavano neanche di uno sguardo, altro che avere risposte.»

Non smette di camminare, i suoi occhi sono gonfi e sta stringendo i pugni, tanto da farsi incarnire le sue proprie unghie nei palmi delle mani.

«Ines, vuoi un bicchiere d’acqua?»

«No!» Urla.

«Mi devi ascoltare, mi devi credere ti supplico!»

Resto in silenzio aspettando che continui a raccontarmi.




…….RICORDO INES……

«Nonna, cosa diamine significa tutto questo? Dove stiamo andando?»

Niente, non mi risponde, continua ad approvare tutto ciò che il vecchio le dice.

L’uomo sta accelerando, nonna non mi degna di uno sguardo, sta girando i pollici come fa quando è preoccupata. Nessuna rassicurazione. Non so cosa stia succedendo e perché mi trovo in questa situazione.

Il vecchio frena di scatto, davanti alla macchina vedo altre donne zingare vestite con gli abiti tradizionali, se non fosse per la paura che provo potrei anche ammirare la loro bellezza naturale. I capelli lunghissimi intrecciati in code mezze sciolte, i fori che coprono ogni singolo pezzo di stoffa di quei abiti enormi. Siamo davanti ad un campo, c’è una specie di asse di ferro che divide la parte dell’asfalto da quella della zona verde. Le donne accendono delle candele e fanno un cerchio intorno a me. Mi circondano e mi spingono a superare quella barriera. Mia nonna mi afferra il braccio e mi trascina con sé ad inseguire il vecchio. È alto, capelli grigi e una folta barba grigia gli copre il viso. Oltrepassiamo una discesa ripida piena di spini e di rami che mi graffiano la pelle. Appena superata la discesa, mi ritrovo in un campo aperto, alla mia sinistra c’è una distesa di grano, e alla destra degli alberi che formano una riga lungo tutto il sentiero. Dopo 5 minuti di camminata giriamo a sinistra e vedo l’uomo, imbucare in mezzo agli alberi, che ci dice di fare attenzione a non cadere.

«Nonna, no ti prego. Riportami a casa. Dove siamo? Cosa sta succedendo?»

«Zitta Ines, è tutto per il tuo bene. Lo capirai.»

«Per il mio bene?» La blocco e le spingo la mano. Le altre donne mi si avvicinano innervosite

«Ja, cammina!» Mi fa una di loro, e comincia a parlarmi nel vecchio romanì a me incognito.

Mi arrendo, e seguo mia nonna. Rimango bloccata a ciò che vedo. In mezzo agli alberi c’è un’enorme buca, sembra scavata. Inseguo mia nonna che scende facendo il giro attorno ad essa. Appena arriviamo alle basi di quell’enorme buco, girandomi verso la parete intravedo su quel muro, che sembra fatto di cemento, una donna gravata sulla parete con un bambino in braccio. Ma il bambino è strano. Ha dei denti appuntiti. E sembra tenere in mano un cuore. Alla base di quell’immagine c’è un piccolo arco. È aperto, alto poco più di mezzo metro.

L’uomo entra dentro, abbassandosi, quasi da strisciare per terra, facendosi il segno della croce. Mia nonna mi trascina per il braccio, facendo lo stesso gesto. C’è un odore di muffa, e si sentono delle gocce d’acqua che scontrano i sassi per terra. Entrando, si può tranquillamente stare dritti, il soffitto è alto almeno 3 metri, mi ritrovo in un corridoio.

Su entrambe le parti delle pareti, sembrano incavate delle tombe. È tutto buio, ma la luce delle candele delle donne riesce ad illuminare poco a poco quel posto. Davanti a me ci sono delle scale che scendono e un corridoio a destra, ma l’uomo si ferma perché l’ultimo gradino è coperto d’acqua. Tutto il corridoio alla destra è riempito d’acqua. Il corridoio separa noi da un’altra scalinata che va verso l’alto. L’uomo mette un piede su un sasso che sembra galleggiare e attraversa l’acqua per poi salire la scalinata. Non riesco a vedere cosa fa ma lo sento pronunciare una strana preghiera nell’antica tradizionale lingua zingara. Ad un tratto mia nonna mi obbliga ad inginocchiare.

«Sono tornati!» Grida l’uomo, sembrando deluso.

«L’anno scorso li abbiamo cacciati. È tutta colpa dei caldi, dei beng. Dovrebbero tenergli alla larga dalla luce del sole. Eppure sono sempre qui. Non mi importa se questo posto lo hanno creato loro, se è la loro terra. Non meritano di tornarci, hanno causato troppi crimini. Dobbiamo proteggere le nostre famiglie.»

Tutte le altre si inginocchiano, lo sento bussare su una parte del muro, e l’acqua sembra scenda giù, come se ci fosse una sorta di scarico. Quando l’acqua sparisce, legati al muro con delle pinze di metallo, ci sono dei pugnali, sembrano fatti d’argento. Mia nonna mi obbliga ad alzarmi e proseguire lungo il corridoio a destra. Visto le facce delle altre non ho altra scelta che farlo. Ho le gambe che mi tremano, il respiro mi manca e alla fine del corridoio vedo una donna. Ha dei vestiti neri attillati e tiene in mano un pugnale, dorato.
«Avvicinati, figlia.»
«Figlia?»
«Sì Ines, avvicinati.»
Appena mi avvicino a lei rimango impietrita. Mia madre, è la donna che sta di fronte a me, mia madre! La sapevo morta, eppure, eccola qui davanti con quel pugnale in mano. Mi si illuminano gli occhi, voglio abbracciarla, e dirgli che mi è mancata. Ma lei mi ferma.
«Tieni, amore.»
Mi tende le mani, con quel pugnale, coltello, che sia, in mano.
«Saprai cosa fare, quando li vedrai.»
Tendo le mani, e non appena tocco il pugnale lei sparisce, e l’acqua comincia a risalire. Mi giro per vedere le altre, ma sono tutte scomparse. Mia nonna, il vecchio, e tutte le altre sono scomparse, guardo il telefono che mi indica che sono passate ben quattro giorni. E lunedì mattina e io sono qua sola immersa nel fango.
Non ricordo nulla di ciò che è successo dopo aver toccato quel pugnale.

Oscuro Destino (In Revisione)Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora