2. Runaway

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Era sabato mattina e me ne stavo seduta sul marciapiede di fronte ad una villetta a due piani con un cartello dal dubbio gusto estetico che allarmava i passanti della presenza di "Gatti inferociti" all'interno della struttura.
La verità era che il sabato non c'erano le lezioni ed io non avevo intenzione di restare a casa con mia madre, quindi uscivo presto la mattina e tornavo solitamente dopo l'ora di cena, per non dover affrontare una conversazione con lei. Non avendo grandi cose da fare mi perdevo le giornate camminando per i rioni della città. Mi piaceva guardare i palazzi della città e la gente che affollava le strade.
Mi ero comprata dei dolci in una pasticceria ed mi ero messa seduta su una panchina poco distante per mangiare. Rimasi lì per qualche ora, osservando la gente che correva impegnata per la via e per quanto possa sembrare strano, passò piuttosto in fretta questo far niente. 

Dovete capire che ogni luogo va bene, quando stai così, ad aspettare che qualcosa cambi, ti cambi. Immersi in un limbo calmo, dove succede poco, se non niente; ed è piuttosto indifferente dove quel niente accade. Perché il fatto è che accade tutto dentro di te. Empiricamente parlando, tu sei in un posto, ma non ci sei mai veramente. Sei dentro la tua mente, da solo, a lottare contro qualcosa che non esiste. Sei seduto sul quel marciapiede, ma potresti essere dall'altra parte del mondo e sentiresti lo stesso identico vuoto alla bocca dello stomaco.

A riscuotermi dai miei pensieri fu una figura schiva, camminava rapidamente verso l'enorme portone in ferro della villa.

Non sapevo per quale motivo, ma mi aspettavo l'arrivo trionfante in una particolare auto di lusso. Non un tipo qualunque che cammina per strada con le mani nelle tasche di una felpa rosa troppo grande con il cappuccio a coprire parzialmente il volto del ragazzo.

Mi alzai dal marciapiede quando sentii alle mie spalle che il ragazzo armeggiava con delle chiavi per aprire la serratura. Lo sentii imprecare sottovoce per la difficoltà ad aprire la porta. Una volta che ci riuscì, arrancai dei passi veloci nella sua direzione prima che potesse entrare.

-Scusami!- Il ragazzo non sembrò interessato a voltarsi.

-Ehi! Aspetta!- Finalmente si voltò, lasciando il cancello socchiuso a formare una barriera tra noi. Mi osservava dallo spiraglio aperto con cipiglio sul volto. I suoi occhi erano particolarmente scuri e difficilmente si riconosceva la distinzione tra l'iride e la pupilla. Le occhiaie scure davano segno che avesse passato almeno una notte in bianco e a giudicare dalla condizione dei suoi capelli che ricordavo bruni, invece erano diventati biondi e spettinati, non tornava a casa da un po'.

-Se vuoi l'autografo torna un altro giorno. Oggi non sono in vena.-

Un autografo?

-Perché dovrei volere l'autografo di uno come te?- mi era sfuggito, non lo volevo dire, lo pensavo davvero?

Il biondo finalmente si concentrò sulla mia figura, osservandomi da capo a piedi con sguardo cupo. -Chi diavolo sei, ragazzina?-

Chi diavolo era lui. Questa era la vera domanda.

Feci spallucce, estraendo dalla tasca interna del giubbotto il taccuino nero.

-Sono venuta a riportare questo.- gli occhi bui del ragazzo si spalancarono e finalmente lui riaprì il cancello.

-Entra.-

Mi mossi di qualche passo sotto lo sguardo attento del mio ospite che richiuse il portone alle mie spalle e senza aggiungere altro iniziò ad attraversare il cortile.

Quando fummo all'entrata, il ragazzo mi gettò un ultima occhiata. -Devo fare una chiamata ma puoi aspettarmi dentro.-

Obbedii senza troppe lamentele, entrando in quella che sembrava una reggia, piuttosto che una casa. Troppo grande per un unica persona; così grande che dentro quelle mura mi sembrava di essere sola con tutti i miei pensieri che rimbombavano tra le mura spoglie.

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