6. Ghost boy

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Sull'autobus su cui salimmo c'era parecchia gente, la maggior parte dei posti a sedere era occupata da vecchi con in mano le borse della spesa. Il sole era appena tramontato ed il cielo fuori si tingeva dei colori più caldi. Vidi il biondo sedersi in uno degli ultimi posti liberi e mi avvicinai a lui. Era intento a rispondere a qualche messaggio, battendo rapido le dita sullo schermo del cellulare.

Quando finì e l'autobus partì, il biondo rivolse lo sguardo a me. -Dai, siediti.- Indicava le sue gambe, parallele l'una all'altra. Un po' dubbiosa mi avvicinai ancora, cercando di sedermi il più delicatamente possibile, in modo che i nostri corpi restassero, nonostante tutto, il più discostati possibile.

Restai con lo sguardo fisso al finestrino opposto, mentre quello del ragazzo sembrava insistere sul mio collo martoriato. Sembrava compiaciuto, uno strano sorriso comparve sul suo viso prima che estraesse dalla tasca un fazzoletto di carta, porgendomelo.

-Copriti, la gente ci guarda.- ed era vero, ma lo notai soltanto in quel momento, probabilmente prima troppo presa dal contatto con il ragazzo a cui non ero per niente abituata.

-Ci stanno fissando tutti...- era un sussurro, potevo stare certa che soltanto Stephan mi stava sentendo.

-Sei in braccio ad un cantante di fama mondiale, cosa ti aspettavi principessa fantasma?- la sua voce era un sussurro al mio orecchio, mentre il suo corpo si faceva più vicino e una mano cingeva il mio fianco. Con l'altra spostò leggermente i capelli che mi contornavano il viso, per poi scendere a sfiorare il punto in cui mi aveva morso. Rimase ad osservarlo, quasi incantato, i suoi occhi erano i più bui che io avessi mai visto. Ed erano così belli che per un secondo pensai saremmo potuti rimanere a fissarci in quella posizione per moltissimo tempo. 

Ad un tratto, però, una voce metallica annunciò l'arrivo dell'autobus nella via dove abitava il ragazzo, che di fretta mi fece alzare e prendendomi il polso con una stretta ferrea, si appropinquò a scendere. L'aria frizzante della sera mi colpì il viso mentre mi sentivo strattonare avanti dal ragazzo. Provai a fuggire dalla sua presa, arrendendomi piuttosto in fretta e lasciandomi trasportare come una marionetta dal suo burattinaio.

Estrasse un mazzo di chiavi dalla tasca destra dei jeans, aprì il cancello e mi fece strada verso la sua proprietà. Una volta in casa lanciò su uno dei divanetti all'entrata la felpa che aveva addosso, restando con una maglietta a maniche corte nera e fin troppo larga per lui; si voltò a guardarmi mentre rimanevo in silenzio a sostenere il suo sguardo tetro.

-Vieni, ti mostro una cosa.-

Lo seguii mentre salì le scale di marmo nero e si diresse al secondo piano: la prima volta che ero stata in questa casa, non avevo visto il secondo piano, e da quel poco che riuscivo a vedere ora, date tutte le porte in legno bianco chiuse, probabilmente a chiave, non era molto diverso rispetto a quello sotto: freddo, statico. Sembrava una casa delle bambole, perfetta nel minimo dettaglio ma del tutto anonima, invissuta. Persino i quadri sui muri sembravano incapaci di dimostrare una qualsiasi emozione.

Entrammo nella terza porta a destra, quella più infondo al corridoio. Appena ci misi piede mi sentii mancare l'aria, nonostante la stanza fosse piuttosto grande, con una vetrata che dava sul mare, aveva le pareti arredate con l'unica cosa che non avrei voluto vedere: me stessa.

E non ce n'era soltanto una, bensì centinaia, milioni. Infinite copie di qualcosa che a malapena sapeva esistere per una.

-Sembri terrorizzata. Sono solo specchi.-

Continuavo a fissare il mio riflesso, oramai immobile in mezzo alla stanza. Un senso di perdita si faceva sentire per ogni istante che i miei occhi rimanevano ad osservare quel qualcosa che non riuscivano a riconoscere come se stessi.

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