2. L'incontro

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Quando uscii dalla caserma cercai di incamerare più aria possibile e quasi gemetti di piacere sentendo i polmoni gonfiarsi.

Il cielo era parzialmente coperto e la foschia che aleggiava nell'aria rese nuovamente umido il sangue incrostato sulla ferita.

La pelle era rimasta aperta e tirava da morire, lì dove ci sarebbero voluti dei punti io avevo ricevuto soltanto un po' di disinfettante e un cerotto che si era staccato con le prime gocce di pioggia. Avevo ringraziato Jack per il trattamento d'onore che mi aveva riservato e mi ero defilato con la promessa di rispondere ad ogni sua telefonata.

Quanto tempo ero stato lì dentro? Un'ora? Mi era sembrata un'eternità.

Le manette mi avevano graffiato i polsi e mi prudeva tutto il corpo. Era da quando avevo accettato quel compito da infame che le dita avevano preso a tremarmi, la pelle d'oca a farmi formicolare le braccia e il cervello a scoppiarmi tra le tempie. O forse era stata la botta in testa a farmi sentire una merda.

Ogni volta che uscivo da quel maledetto stanzino finivo per sentirmi più sporco di quando c'ero entrato. Io, che di pulito non avevo conservato nè il sangue nè la coscienza.

Oltre la recinzione esterna trovai una volante incaricata di riportarmi a casa e, in poco tempo, raggiungemmo l'indirizzo che gli avevo fornito.

Mentre ci avvicinavamo al mio isolato, attraverso il vetro del finestrino, osservai scorrere distrattamente i sudici marciapiedi che delimitavano la corsia.

Il quartiere di merda in cui abitavo mi sembrò quasi un posto immacolato in confronto alla stanza di prima.

Quelli che ci vivevano lo chiamavano Buco Nero, poiché la luce non sembrava riuscire a penetrare attraverso quegli spessi mattoni grezzi di cui erano composte le case dei condomini. L'oscurità causata dalla mala vita risucchiava ogni cosa e non lasciava altro che morte.

Tutti sapevano che non era saggio uscire di casa oltre le undici di sera e chi lo faceva era uno spacciatore oppure un ladro. Io ero sempre stato entrambe le cose e, anche quando in faccia avevo ancora gli occhi innocenti di un bambino, non mi spaventava varcare quelle strade oltre il coprifuoco.

In quel momento la via era deserta e, di tanto in tanto, si vedeva soltanto qualche zingaro vestito di stracci dormire sull'asfalto umido, parzialmente nascosto sotto strati di coperte che qualche passante impietosito dalla scena doveva avergli donato.

Ricordavo quel posto per come un tempo era stato, quando ancora il frastuono dei proiettili non sovrastava il cinguettio degli uccelli che volavano in cielo, quando le aiuole delle abitazioni mantenevano vivo il proprio verde, prima di esser sostituite da quell'ammasso di fango che, negli ultimi anni, aveva finito per insudiciare ogni cosa.

Mentre le ruote slittavano veloci sull'asfalto bagnato riflettei sul patto che avevo appena stretto: dovevo entrare nella casa e nel cuore del Secco, diventargli amico e alleato, un fratello. Dovevo respirare la sua stessa aria e frequentare gli stessi ambienti. Le sue orecchie e i suoi occhi. E nel frattempo sarei stato anche le orecchie e gli occhi degli sbirri.

Quel compito mi rendeva confuso e agitato, perché sapevo che guadagnarsi la sua totale fiducia sarebbe stata un'impresa quasi impossibile. E poi non tolleravo l'idea di tradire il giuramento di fedeltà assoluta che avevo fatto davanti a tutto il gruppo quando ero stato selezionato per diventare uno dei suoi.

Era successo perché lui mi aveva risollevato dalla strada e mi aveva ridato uno scopo. Aveva fatto delle mie cicatrici un punto di forza da sfruttare contro gli altri. Quando mi aveva visto per la prima volta la sua espressione non mi era sembrata disgustata, ma estasiata.

La carta vincenteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora