IV

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Attraverso un dedalo di strade inondate da mercatini e calli intasate dal viavai della gente, la carrozza guidata da Armaund risalì i tanti strati di Olympiòs.

A riprova della sua veneranda età, se vista dall'alto la metropoli sembrava un grande uovo spiaccicato a terra da un paio di mani distratte. Il bianco si allargava, andando incontro al mare e a tratti vi sfociava dentro, portando un intrico di strette contrade a marcare gli ultimi lembi della riva sabbiosa.

Dal mare apparivano come un orizzonte di casupole modeste, o bianche e rosse, segnate da squadrati tetti a terrazzo e piccole finestre arcuate. Il tuorlo grattava le scorze di vecchi colli, mordendoli in profondità così come in statura; saliva a pungere il profilo dell'acropoli, assomigliando ad un grande tappeto di aghi.

Distinguere le età dei gironi di Olympiòs non era complicato, ma stancava presto gli occhi di chiunque non fosse un suo abitante. L'illusione della sua uniformità, quella che appariva da lontano, veniva frantumata dal mischiarsi dei colori, lo sfumare delle strade, l'emergere ora di un vecchio arco e ora di una piazza di mercato magari costruita su qualche vestigia.

Al di sopra dell'acropoli, guardando a nord-est, si potevano scorgere due fumosi coni di vulcano, in parte celati dal vagabondaggio di grandi nuvole grigie. Scure creste, visibili prim'ancora che la costa incominciasse a delineare le insenature e i golfi e le spianate, tratteggiate con lontana vaghezza ai piedi di fumarole elevate al cielo. Quando eruttavano, scuotendo le viscere dell'isola, sui loro pendii si sversavano fiumi d'incandescente arancione e carminio.

Cigolando e piangendo nello sforzo di risalire un lungo serpente di ciottoli salati, snodato attraverso quartieri che si allungavano in verticale e piccole piazze, la carrozza approdò su di una slargata, lunga via maestra, carezzata da una coperta di lastricato, qui e lì segnato dal passaggio del tempo. Il sudario ombroso dettato dall'acropoli vi pesava sopra. Dalla costa interna della strada nascevano dei grandi archi in roccia rossa dall'aria screpolata, grattata dal vento.

Armaund li superò incrociando tra due ali di folla rumorosa e colorita, inseguendo altre due carrozze che ansimavano in salita. Incoraggiò i cavalli a continuare con dei buoni schiocchi di bastone. Sbuffò e scosse il capo quando una messharina con un cesto di vimini al braccio passò dalla sponda sinistra a quella destra, infilandosi tra il suo calesse e quello successivo.

Zio Ricckert schiarì la propria voce: «Nipote, posso chiederti come sei arrivato ad arruolare una Solarina nella tua ciurma?»

«Sì.» Rilassate le spalle sul sedile, Jansen aggiustò il colletto della camicia.

Valtar rintoccò una buona risata.

«Sì, ma non mi hai risposto...» Ricckert si punse la fronte con il palmo. «Ah, ora ho capito. Allora, come hai fatto?»

«Ho chiesto al suo tempio.»

«Davvero?»

Il capitano assentì. «Pensavi che sotto ci fosse stata una qualche mirabolante avventura?»

«Me l'aspettavo!» Lo zio nascose il proprio disappunto dietro la manica. «M'immaginavo una chissà quale cronaca di viaggi e peripezie, io! Materiale per tua sorella.»

«Non mi piacciono i suoi libri!» bofonchiò Valtar. «Non mi ha inserito come le avevo chiesto.»

Jansen scoccò un gesto. «Lei ingrandisce quel che vuole e toglie altre cose.»

«I suoi scritti fruttano dei buoni soldi.»

«Il che non è poco.» Chi era per giudicare un po' di venalità? «Finché lei è contenta, non abbiamo di che lamentarci...»

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⏰ Ultimo aggiornamento: Nov 29, 2019 ⏰

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