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Non so perché proprio ora, dopo tanti anni, mi sia deciso a raccontare questa storia. Non sono uno scrittore, non lo sono mai stato e non mi piace scrivere. Leggo poco e quel poco ha a che vedere con la cronaca politica. Suppongo che la decisione di mettere su carta i ricordi, questo, in particolare, sia dovuto al fatto che non rammenti bene gli eventi così come svoltisi. Scriverli mi aiuta a fare ordine. Da tempo pensavo di doverlo fare, sì, doverlo, perché l'ho sempre ritenuto un dovere date le conclusioni alle quali giunsi nel tempo, all'età matura. È un evento, quello che mi accingo a riportare, rimastomi attaccato alla mente, nonostante avrei voluto dimenticarlo, far finta che non fosse mai avvenuto. Sebbene non sia certo di ciò che racconterò, non posso non riconoscere che le immagini che compaiono ogni volta che ritorno con la memoria a quegli istanti o le conclusioni alle quali giunsi nel corso degli anni, non possano che essere le medesime che leggerete. Dobbiamo però procedere un passo alla volta: è importante. Dovrete avere il buon senso e la pazienza di lasciarvi guidare attraverso lo svolgimento degli avvenimenti che si srotoleranno parola dopo parola, in maniera tale da farvi un quadro esatto dell'esperienza che mi vide, mio malgrado, involontario attore di uno spettacolo al quale non avrei voluto prendere parte! Allora (parlo dei primi del sessanta del secolo scorso) avevo meno di dieci anni. Vivevo coi miei genitori nella stessa città di ora ma che per motivi di privacy non nominerò. Ero il terzo di sei tra fratelli e sorelle. Eravamo gente piuttosto abbiente, possedendo una casa di proprietà con un terreno limitrofo. Rendeva, naturalmente se coltivato, ortaggi e frutta che non dovevamo comprare ma che vendevamo. In più mio padre era dipendente comunale, quindi, a fine mese, ritirava uno stipendio fisso. Malgrado ciò, i miei fratelli e io andavamo in giro, ovunque, sempre scalzi e possedevamo pochi vestiti, che ci passavamo da uno all'altro di anno in anno, dal più grande al più piccolo di noi. Era prassi comune. Non si buttava via niente, frase sentita e ripetuta migliaia di volte. I nostri genitori avevano fresco il ricordo della seconda guerra mondiale e degli stenti fatti per sopravvivere. Lo spreco di cibo, perciò, non era tollerato neanche un po'. Quel che c'era a tavola bisognava mangiarlo, senza lagne. Mia nonna, ce l'ho davanti agli occhi come se fosse adesso (lei di guerre mondiali ne aveva vissute due), raccoglieva le molliche di pane rimaste sulla tovaglia facendole rotolare con un gesto continuo della mano che usava come fosse una spazzola, racimolandole nell'altra, posta poco sotto al bordo del tavolo, poi le portava alla bocca, mangiandole. Il pane, più che ogni altro alimento, era considerato sacro, non solo da lei, ma pure da mia madre, tutte e due molto cattoliche, perché rappresentava il corpo di Cristo anche se non benedetto. Noi non facevamo capricci quando ci si sedeva per pranzare o cenare, tutt'altro. Masticavamo con voracità e se fosse stato possibile, almeno per quel che mi riguarda, ne avrei chiesto ancora! La sola cosa che irritava mio padre, pace all'anima sua, accanto al quale ero seduto, era che mio fratello minore e io ci stuzzicavamo di continuo, infastidendo tutti. Non eravamo pochi a vivere sotto al medesimo tetto. Come già detto prima, ero il terzo di sei fratelli, poi c'erano i nostri genitori, nostra nonna (la madre di mia madre) e i genitori di mio padre. Undici in tutto! Per le scaramucce quotidiane, mio fratello e io venimmo messi chi da una parte e chi dall'altra della tavola, ma ugualmente, di tanto in tanto, ci scambiavamo delle occhiatacce, ci prendevamo a male parole e lanciavamo quel che avevamo a portata di mano, sprezzanti del pericolo! Avevamo un cane, un randagio tutto nero che chiamavamo Freccia. Non stava mai fermo, correndo di continuo. Da qui il nome. Come spiegato poco prima, la casa confinava con un terreno, un orto, di nostra proprietà. A guardare ora il paesaggio vi si troverebbero diverse differenze da quand'ero piccolo. Dove un tempo era campagna o appezzamenti di terra incolti, adesso ci sono delle palazzine, case, strade ecc. Anche le mura perimetrali che delimitavano una proprietà da un'altra sono cambiate. Nel corso degli anni, infatti, tra un rifacimento di un muretto a pietra a secco e un altro, i confini hanno subìto modifiche allargandosi o restringendosi, seppur di poco. La stradina pubblica che congiungeva una frazione comunale col centro cittadino, esiste ancora ma è completamente abbandonata in quanto non vi transita nessuno da decenni. Questa strada, una lunga scalinata in selciato, passa di fianco l'abitazione dei miei genitori, quella in cui vivevo da piccolo. È il solo pezzettino rimasto del percorso calpestato da piedi umani, visto che arriva a zigzagare tra i vicoli del vecchio borgo. Di storie come quella che vi sto raccontando, da ragazzo ne ho sentite diverse, non uguali, ma agghiaccianti. Per esempio, quando si partoriva lo si faceva in casa e non c'era un'ostetrica di professione, generalmente era una donna che, assistita dalle parenti della partoriente, aiutava quest'ultima nel portare alla luce suo figlio. Si narrava, e i più anziani ancora ne parlano, che chi faceva questo "mestiere" ne aveva visti molti di "figli nati fuori dalla grazia di Dio"! Quei nascituri non avevano nulla a ché vedere con l'Onnipotente, malefici divini o cazzate simili, solo erano stati sfortunati, nascendo con delle importanti malformazioni o ritardi mentali. Quando si verificava, la levatrice poneva fine alle loro vite, all'istante, come gesto di pietà e solo in questa maniera deve esser visto, non in un altro. Li soffocava o lasciava aperto il cordone ombelicale. Così mi è stato riferito. Per quanto crudele possa apparire tale atto, a quel tempo era ritenuto normale e necessario, per evitare che il piccolo potesse avere complicazioni di qualsiasi genere, anche d'emarginazione da parte della società, in futuro. Non ho memoria, infatti, di coetanei o persone nate nel mio stesso decennio, ma neanche in quello prima o il successivo, che mostrassero deformità o semplicemente la sindrome di Down. Eppure, come già riferito: una coppia aveva dai cinque agli oltre dieci figli! Non ho parlato delle azioni discutibili di queste donne per giudicarle o lasciarle giudicare da voi che leggete, no. Riporto una realtà macabra, triste, tremenda, frutto però della pietà umana, differente, forse, da quanto assistetti in quella sera dei primi del sessanta! Dato che ogni famiglia si conosceva, da parte dei genitori di ognuno veniva data ai propri figli molta libertà, nonostante la giovanissima età. Ci si svagava in modi diversi facendo giochi ormai dimenticati, passati di moda. Andare all'avventura era il preferito tra i maschietti, unici a scendere in strada. Le femminucce restavano la maggior parte del tempo in casa a imparare i mestieri e giocare quando una o più amiche passavano con la madre, di solito, per una visita. Badate che non era solo spasso. Anche se piccoli, bisognava aiutare alle varie necessità a cui si andava in contro. Prima parlai di un orto limitrofo all'abitazione. C'erano maiali e galline a cui portare del cibo, piuttosto che, a seconda del periodo, offrire il proprio contributo nel fare le provviste. Fu al ritorno da uno di quei giochi in cui simulavamo un'avventura ambientata nel vecchio West piuttosto che nelle giungle misteriose raccontate da Salgari o viste nei fumetti, che accadde ciò per cui scrivo queste righe. L'autunno aveva sostituito l'estate e con l'inoltrarsi di questa stagione, di conseguenza cambiò anche l'orario. Benché non fosse tardo pomeriggio, l'aver dovuto portare le lancette dell'orologio un'ora indietro, fece sì che alle 18:00 fosse già buio. Rammento, ma come se fosse un sogno, che all'epoca dei fatti che sto descrivendo, non tutte le vie fossero illuminate, anche perché quelli che sono divenuti quartieri abitati, allora erano zone di campagna, con terreni, stalle e porcili. Casa dei miei genitori era circondata da appezzamenti di terra, oltre il nostro, e la stradina fatta di scale in selciato a cui ho accennato poco sopra, li tagliava nel mezzo. Nemmeno adesso, visto che non è praticato da decenni, quel tratto è illuminato. Allora, invece, si evitava di transitarci dopo il tramonto, specie se aveva piovuto. L'acqua aveva scavato in alcuni punti avvallatisi a seguito di smottamenti tutt'intorno, facendo saltare delle pietre che formavano il manto dei gradini. La pioggia vi ci si accumulava creando un pantano e come se non bastasse: prendere una storta era alquanto semplice! Tornato a casa avevo la fissa di dover scendere a controllare se gli animali stessero dormendo. Delle galline avevo la certezza poiché si ritiravano nel pollaio e se pure non ne abbia mai vista una soltanto con gli occhi chiusi, dato che se ne stavano al riparo e in religioso silenzio, immaginavo fossero nel mondo dei sogni. Non era così per i maiali. Grugnivano in continuazione e quando appariva qualcuno davanti la loro vista, si eccitavano credendo che gli avessero portato ulteriore cibo. Mi avvicinavo con la mano sollevata facendo sì che i suini alzassero la testa, tenendo quel buffo naso all'insù. Mi divertivo ad accarezzarlo. Era liscio, umido. Magari a qualcuno potrebbe fare senso, non essendo il porco un animale pulito e profumato, continuamente a rivoltarsi nel fango e a mangiare di tutto. Ripensandoci ora, probabilmente rischiai più volte di beccarmi un morso. I miei erano all'oscuro di questa mia abitudine, perciò non venni mai rimproverato e mai mi venne impedito di seguitare tale pratica. Anche quella sera mi recai come al solito nell'orto, celato dall'ausilio del buio già sceso da un pezzo. Sentì un vociare sommesso da oltre le mura perimetrali che impedivano ai passanti della stradina, di accedere nella nostra proprietà. Sulle prime non ci feci caso, immaginai potesse essere qualcuno che, in compagnia di un amico, stava percorrendo le scale. Un paio di occhi in più sarebbe stato certamente utile ma fu un altro particolare a destare la mia attenzione, che venne focalizzata su di loro. Le figure indistinte camminavano con un passo piuttosto svelto e in discesa. Più che vederle, ne sentì lo scalpiccio della camminata. Non mi spiegavo il perché bisbigliassero! Non era notte fonda, nessuno dormiva. Non avrebbero disturbato anima viva se avessero adottato un normale tono di voce. Ero abbastanza vicino ma lo stesso non capì, a causa del parlare sommesso, una sola parola di quanto si dissero! Per me era tutto un gioco! Vi ricordo che ero un ragazzino di poco meno di dieci anni. Immaginavo, nella mia testa, di vivere un'avventura e che da lì a poco sarei venuto a conoscenza di un segreto da poter raccontare e condividere con gli amici il giorno seguente. Il pensiero mi stimolava parecchio! Avevo l'assurda convinzione che i due sconosciuti si stessero recando di soppiatto in un luogo segreto dove avevano nascosto qualcosa di importante, magari una mappa o addirittura un tesoro! O che fossero a conoscenza di un passaggio per chissà dove. Fatto sta che, senza farmi sentire a mia volta, percorsi le mura di confine della nostra proprietà fino a giungere in un punto dove il muretto era più basso, franato nelle vicinanze di un fico. Gli individui si avvicinavano e allontanavano dal muro man mano che scendevano per le scale, a seconda se il percorso glielo permettesse. In certi punti camminavamo gli uni di fianco gli altri, separati dalla parete in pietra a secco. Quando arrivai all'albero e ci salì sopra per varcare l'ostacolo che mi impediva di scendere sulla stradina, le ombre si erano allontanate. Riuscivo a vederle ugualmente in mezzo all'oscurità. Erano di fronte a me. Dovevano camminare davvero molto velocemente perché in un baleno percorsero un bel po' di metri. In linea d'aria, circa una quindicina. Se non fosse stato per la mia vista, buona, allora, le avrei perse. Dovevo accorgermi a dove mettevo i piedi. Proprio quella sera la luna era coperta dalla foschia. Il tenue bagliore che mi avrebbe aiutato un po' a velocizzare i movimenti ed evitare di prendere un capitombolo, non filtrava attraverso le nuvole, rendendo ancor più buio l'ambiente circostante! Feci rumore quando toccai terra dopo essere saltato dall'albero. Rimasi chino, certo che non sarei stato visto. Gli sconosciuti rallentarono l'incedere. Una delle figure si voltò per un breve istante a guardare alle sue spalle e capire cosa fosse stato il tonfo che immaginai avesse udito. Quasi trascinato a proseguire oltre, all'oscuro individuo venne intimato dall'altro di fare presto, da come mi parve di capire dal rapido gesto del braccio. Gli disse qualcosa, qualcosa che non intesi. Principiai a camminare acquattato, tenendomi ben distante, nascondendomi ovunque potessi. Osservando i lineamenti delle figure, provavo a intuire di chi potesse trattarsi. I due non erano molto alti, anche se, come me, per evitare d'essere scoperti proseguivano mantenendo una postura accovacciata. Ciò che vedevo meglio era la parte alta del corpo. Quella bassa si confondeva con la vegetazione, erbacce, per la maggior parte, che camuffavano i tizi con tutto il resto, in una sola amalgama di pennellate d'ombre nere danzanti a seconda di come tirava il vento, spostando a piacimento la flora che ci attorniava e dai tenui bagliori che penetravano la spessa coltre di nubi che si susseguivano come in una gara di formula uno. Chi inseguivo giunse in un punto nelle vicinanze di un vecchio noce, fermandocisi a lato. Rallentai fino ad arrestarmi del tutto. Attesi, curioso, con la pancia schiacciata a terra. Quell'atteggiamento veniva dalle letture dei fumetti, dalle storie di avventure ambientate in guerra. Non ci volle molto agli sconosciuti per scavare una buca. Lo fecero con l'ausilio delle sole mani. Mentre levavano terra su terra, istintivamente, alternandosi in modo agitato, lanciavano delle rapide occhiate ognuno nella direzione verso cui volgeva lo sguardo, facendo roteare il capo di centottanta gradi. Dovetti stare accorto a non lasciarmi scoprire. Non sapevo cosa mi sarebbe successo se mi avessero visto. Di sicuro mi sarei alzato scappando via a gambe levate, scavalcando il muro di recinzione e tornando a casa. Tale pensiero, però, non mi tranquillizzava affatto. Se fossi stato scoperto e fossi fuggito via verso casa, chiunque si trovava lì con me avrebbe saputo chi era venuto a conoscenza del loro segreto e prima o poi ne avrei potuto pagare le conseguenze! L'eccitazione camuffata in principio da voglia di avventura e desiderio di scoprire qualcosa che non sarebbe dovuto esser visto da occhi terzi, stava trasformandosi in ansia, preoccupazione e paura. Ero un bambino di circa dieci anni, non smetterò di ricordarvelo. Davanti a me stavano degli adulti che approfittando dell'oscurità celavano qualcosa agli occhi del mondo! Uno dei due si fece male a un dito. A parte l'oscurità che non mi diede la sicurezza di quanto affermo, non posso darlo per certo poiché la memoria non mia aiuta a focalizzare il particolare. L'individuo alzò la mano in alto, cercando luce che giungesse da qualche parte. Non trovandone, riabbassò l'arto, avvicinandolo alla bocca. L'altro, con nervosismo, questo sì che era evidente, gli afferrò il polso della mano ferita, riportandola verso la buca, intimandogli sottovoce di proseguire a scavare. Non durò molto. In quella fossa nascosero un fagotto. Era arrotolato in un pezzo di stoffa, una tovaglia, non so. Si vedevano chiaramente i lembi che pendevano. Ricoprirono ogni cosa alla bene e meglio, scaraventando sul segreto quanta più terra possibile, stavolta con l'ausilio delle braccia. Appiattirono la piccola pancia della fossa coi palmi delle mani. Il PAC PAC PAC del rumore che ne fuoriusciva lo sento ancora nelle orecchie, benché fosse ovattato, come ingerito dalla terra stessa! Si alzarono. Il primo che si mise in piedi aiutò l'altro a fare lo stesso. Ripresero la posizione accovacciata, riportando i passi su quelli precedenti. Il cuore mi salì in gola. Mi ero fermato proprio in un tratto dal quale erano passati! Sapevo che non avrebbero percorso proprio il medesimo tracciato, un viottolo non esisteva, però certo mi sarebbero transitati accanto, molto vicino e avrebbero potuto vedermi. Mi spostai di pochissimo sulla destra, cercando riparo dietro quello che era un ciuffo d'erba cresciuto più degli altri. Definirlo un cespuglio risulterebbe esagerato! Era la sola cosa che potessi fare! Il petto sembrava un tamburo. Le figure si avvicinavano sempre di più. Erano obbligate per forza di cose a guardarsi sì intorno, ma pure a terra, per controllare dove mettessero i piedi! La fortuna voltò dalla mia parte. Quando ormai mi furono praticamente di fianco, uno richiamò l'attenzione dell'altro, parlandogli. Questi girò il capo prestandogli attenzione e, sempre camminando, mi passarono vicino, alla distanza di un braccio! Capì quello che si dissero, solo che lo dimenticai all'istante per la paura. Ciò che credetti fino a quel momento, che i tizi fossero due uomini, si rivelò un errore. Si trattava in realtà di due donne, due sorelle. Le conoscevo bene. Vivevano (una di loro vive ancora lì) nel quartiere dove i miei hanno casa. La logica le condusse a occultare il segreto non lontano, dati i vasti terreni incolti attorno alla zona. Le seguì con lo sguardo finché non le vidi dileguarsi da dove erano venute. Solo allora tirai un sospiro di sollievo, sentendomi al sicuro. Credo che trattenni il fiato per il tempo che impiegarono a scomparire dietro l'angolo, ma forse è un ricordo errato, ripropostomi distorto dal tempo. Osservai attorno a me per accorgermi se ci fosse qualcun altro. In lontananza, dalle case circostanti, si udivano voci, rumori di piatti che venivano messi in tavola. Si apprestava l'ora di cena e avrei dovuto rientrare al più presto. Mi alzai da terra. Pochi passi mi dividevano da quel qualcosa che venne interrato in tutta fretta. Coprì la distanza in un lampo. Inginocchiandomi in modo che il cumulo di terriccio finisse tra le mie gambe, a mani nude levai la terra appena smossa. Ci vollero poco più di un paio di manate per far comparire ciò che era stato sotterrato. Si trattava di un panno, uno straccio, uno di quelli che si usano per fare le faccende di casa, tutto sporco e sfilacciato. Lo presi. Era freddissimo! Non pesava nulla. Chiusi le cosce posandovi sopra il cencio. Qualunque cosa vi fosse stata arrotolata, venne nascosta tra diversi avvolgimenti del tessuto. Srotolavo e srotolavo la pezza. Più mi avvicinavo al contenuto e più il tessuto diveniva unto. Appena me ne accorsi lo posai al suolo per evitare di sporcarmi i pantaloni. Restava un sottile strato di stoffa a separarmi dallo scoprire cosa vi fosse stato avvolto. Non stavo nella pelle! Ero entusiasta! Presi delicatamente con indice e pollice il lembo dello strofinaccio e lo sollevai. All'interno c'era quello che, col buio e l'innocenza di un bambino, scambiai per il corpicino di un animaletto: un gatto, un cane, un coniglio. Era davvero minuscolo! Immaginai fosse appena nato. Confesso che rimasi deluso dalla scoperta. Non ritenni fosse nulla di interessante. Rimisi tutto come prima, tornando a sotterrare il fagotto. Mi alzai, strofinandomi via con dei colpi secchi delle mani, il terriccio dalle ginocchia dei pantaloni. Me ne tornai a casa, senza dire mai a nessuno quel che vidi. Gli anni passarono e quel bambino che ero divenne prima un ragazzo, poi un uomo. Il ricordo del bizzarro ritrovamento non abbandonò mai del tutto la mia memoria. Non tornai più lì, in quel luogo, per vedere, magari alla luce del sole, cosa fosse stato avvolto nel panno logoro. Avrei potuto, tante volte avrei potuto, ma non lo feci. In diverse occasioni mi limitai a osservare quel punto da dietro il muretto che delimitava il confine dell'orto della casa dei miei con la scalinata in selciato. Di voci sulle due sorelle se ne sentirono molte e non erano lusinghiere. Furono proprio per questi pettegolezzi sui loro comportamenti, che nei decenni a seguire elaborai quanto fosse successo nella sempre più lontana sera dei primi anni sessata. Quel che ebbi in mano, tra le mie mani, avvolto in uno straccio unto, non era il cucciolo di un animale, no, ma si trattava di un feto! È l'unica spiegazione che riesco a darmi. Le sorelle, venni a sapere, sempre secondo voci, che diverse volte si praticarono degli aborti e per nascondere il risultato delle loro malefatte, approfittavano dell'oscurità per celare il peccato di cui si erano macchiate. Non so se questo sia del tutto vero, ignoro quante volte lo abbiano fatto, ma nulla può togliermi dalla testa che quella sera tenni un feto tra le dita! Ché senso avrebbe avuto occultare il corpo di un cucciolo di animale, a quel tempo, poi! Agire di nascosto, guardinghi... ché senso avrebbe avuto?! Ciò che vidi senza vita era un bambino non del tutto formato, incredibilmente piccolo nelle dimensioni! Non so perché, ma provo un senso di colpa per non aver fatto nulla, per non aver rivelato il fatto di cui ero stato testimone, per non aver dato degna sepoltura a un esserino che un giorno sarebbe divenuto un uomo!    

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