PARTE PRIMA
LA MALESIA IN FIAMME
L'ASSALTO DELLA MARIANNA
– Dunque, si va avanti sì o no? Corpo di Giove! È impossibile che noi siamo caduti come tanti stupidi su un banco.
– È impossibile avanzare, signor Yanez.
– Che cos'è dunque che ci ha fermati?
– Non lo sappiamo ancora.
– Per Giove! Era ubriaco il pilota? Bella fama che si acquistano i malesi! Ed io che li avevo creduti, fino a stamane, i migliori marinai dei due mondi! Sambigliong, fa' spiegare dell'altra tela. Il vento è buono e chissà che non riusciamo a passare.
– Non faremo nulla, signor Yanez, perché la marea cala rapidamente.
– Che il diavolo si porti all'inferno quell'imbecille di pilota!
L'uomo, che così parlava, si era voltato bruscamente verso la poppa colla fronte aggrottata ed il viso alterato da una collera violentissima.
Quantunque avesse varcata, e forse di qualche anno, la cinquantina, era ancora un bell'uomo, aitante, con lunghi baffi grigiastri accuratamente arricciati, la pelle leggermente abbronzata, con lunghi capelli che gli sfuggivano al di sotto di un ampio cappello di paglia di Manilla, somigliante ad un sombrero messicano, adorno d'un gallone di velluto azzurro con nappine.
Vestiva con molta eleganza, di flanella bianca, con bottoni d'oro e portava alla cintura una larga fascia di velluto rosso, reggente un paio di pistole dalla canna lunga e rabescata ed il calcio con intarsi d'argento e di madreperla, armi senza dubbio di fabbrica indiana, e calzava alti stivali di mare, di pelle gialla, colla punta un po' rialzata.
– Pilota! – gridò.
Un malese, dalla pelle quasi fuligginosa, con riflessi color del mattone, gli occhi un po' obliqui che avevano un lampo giallastro che produceva uno strano effetto su chi lo vedeva, a quella chiamata, aveva abbandonata la ribolla del timone che fino allora aveva tenuta e si era accostato a Yanez con un fare sospettoso che tradiva una coscienza poco tranquilla.
– Padada – disse l'europeo con voce secca, mentre appoggiava la destra sul calcio d'una delle due pistole. – Come va questa faccenda? Parmi avessi detto che conoscevi tutti i passi della costa bornese ed è solo per ciò che io ti ho imbarcato.
– Ma, signore... – balbettò il malese con aria imbarazzata.
– Che cosa vuoi dire? – chiese Yanez che forse, per la prima volta in vita sua, pareva che avesse perduta la sua flemma abituale.
– Questo banco non esisteva prima.
– Briccone, vuoi tu che sia sorto stamane dal fondo del mare? Sei un imbecille! Tu hai dato un colpo falso di barra per arrestare la Marianna.
– A quale scopo, signore?
– Che ne so io? Potrebbe darsi che tu fossi d'accordo con quei misteriosi nemici che hanno sollevato i dayaki.
– Non ho avuto altri rapporti coi miei compatrioti, signore.
– Credi che ci potremo scagliare?
– Sì, all'alta marea.
– Vi sono molti dayaki sul fiume?
– Non credo.
– Sai che abbiano buone armi?
– Non ho veduto presso di loro che qualche fucile.
– Chi può essere stato a sollevarli? – borbottò Yanez. – Vi è un mistero qui sotto che io non riesco a spiegare, quantunque la Tigre della Malesia si ostini a vedere in tutto ciò la mano degl'inglesi. Speriamo di giungere in tempo e di ricondurre Tremal-Naik e Darma a Mompracem, prima che i ribelli invadano le loro piantagioni e distruggano le loro fattorie. Vediamo se possiamo lasciare questo banco prima che la marea abbia raggiunto la sua massima altezza.
Volse le spalle al malese e si diresse verso prora, curvandosi sulla murata del castello.
La nave che aveva dato in secco, probabilmente in causa d'una falsa manovra, era uno splendido veliero a due alberi, costruito di certo da poco tempo a giudicarlo dalle sue linee ancora perfette, con due immense vele simili a quelle che portano i grossi prahos malesi. Doveva stazzare non meno di duecento tonnellate ed aveva un armamento da renderlo temuto anche a qualche piccolo incrociatore.
Ed infatti, aveva sul cassero due pezzi da caccia di buon calibro, protetti da una barricata mobile formata da due grosse lastre di acciaio congiunte ad angolo e sul castello di prora quattro lunghe e grosse spingarde, armi eccellenti per mitragliare i nemici, quantunque di corta portata.
Inoltre aveva un equipaggio numeroso, fin troppo per un legno così piccolo, formato da una quarantina di persone malesi e dayaki, per la maggior parte attempati ma ancora solidi, dai visi fierissimi e con non poche cicatrici, ciò che indicava come quegli uomini fossero gente di mare e anche di guerra.
La nave si era arrestata all'entrata d'una vasta baia, entro cui sboccava un fiume che pareva abbondante d'acqua.
Numerose isole, fra cui una grandissima, riparavano la baia dai venti di ponente, tutte cinte di scogliere corallifere e di banchi e coperte da una vegetazione foltissima d'un bel verde intenso.
La Marianna si era arenata su uno di quei banchi che le acque nascondevano e che, in quel momento, cominciava ad apparire, continuando la marea ad abbassarsi.
La ruota di prora aveva toccato molto profondamente, in modo da rendere impossibile lo scagliamento col solo mezzo delle àncore gettate da poppavia ed alate all'argano.
– Cane d'un pilota! – esclamò Yanez, dopo d'aver osservato attentamente il banco. – Non ce la caveremo prima di mezzanotte.
«Che cosa ne dici, Sambigliong?»
Un malese che aveva il viso assai rugoso ed i capelli biancastri, e che tuttavia sembrava ancora robustissimo, si era accostato all'europeo:
– Dico, signor Yanez, che nessuna manovra riuscirebbe a toglierci di qui senza l'aiuto dell'alta marea.
– Hai fiducia in quel pilota?
– Non so, capitano, – rispose il malese, – non avendolo mai veduto prima d'ora. Nondimeno...
– Continua – disse Yanez.
– Quello d'averlo trovato solo, così lontano da Gaya, in un canotto incapace di resistere ad un'ondata e di essersi subito offerto di guidarci, non mi pare che tutto ciò sia chiaro.
– Che abbia commessa una imprudenza ad affidargli il timone? – si chiese Yanez, che era diventato pensieroso.
Poi, scuotendo il capo come se avesse voluto scacciare lungi da sé un pensiero importuno, aggiunse:
– Per quale scopo quell'uomo, che appartiene alla vostra razza, avrebbe cercato di perdere il migliore e più poderoso praho della Tigre della Malesia? Forse che noi non abbiamo sempre protetti gl'indigeni bornesi contro le vessazioni degl'inglesi? Forse che non abbiamo rovesciato James Brooke per ridare l'indipendenza ai dayaki di Sarawack?
– E perché mai, signor Yanez – disse Sambigliong – i dayaki della costa si sono messi in armi improvvisamente contro i nostri amici? Eppure Tremal-Naik, creando fattorie su queste spiagge, che prima erano quasi deserte, ha dato loro il mezzo di guadagnarsi da vivere comodamente, senza correre i rischi della pirateria che li decimava.
– È un mistero questo, mio caro Sambigliong, che né io né Sandokan siamo ancora riusciti a spiegare. Questo improvviso scoppio d'ira contro Tremal-Naik deve avere una causa che per ora ci sfugge, ma sono certo che qualcuno o qualcuni hanno soffiato sul fuoco.
– Che Tremal-Naik e sua figlia Darma corrano un vero pericolo?
– Il messo che ci ha mandato a Mompracem ha detto che tutti i dayaki sono in armi e sembrano presi da una improvvisa pazzia, che tre delle fattorie sono state saccheggiate e poi incendiate e parlavano di massacrare Tremal-Naik.
– Eppure non c'è un uomo migliore di lui in tutta l'isola – disse Sambigliong. – Non comprendo come quei furfanti guastino e saccheggino le sue proprietà.
– Ne sapremo qualche cosa quando giungeremo al kampong di Pangutaran. La comparsa della Marianna sul fiume calmerà un po' i dayaki e se non deporranno le armi, li mitraglieremo come si meritano.
– E conosceremo le cause che li hanno indotti a sollevarsi.
– Oh! – esclamò ad un tratto Yanez, che aveva volti gli sguardi verso la foce del fiume. – Vi è qualcuno che pare voglia dirigersi verso di noi.
Un piccolo canotto, munito d'una vela, era sbucato dietro gl'isolotti che ingombravano la foce del fiume ed aveva puntata la prora verso la Marianna.
Un solo uomo lo montava, ma era così lontano ancora da non poter distinguere se era un malese od un dayako.
– Chi può essere costui? – si chiese Yanez, che non lo perdeva di vista. – Guarda, Sambigliong, non ti sembra indeciso sulla sua manovra? Ora si dirige verso gl'isolotti, ora se ne allontana per gettarsi verso le scogliere corallifere.
– Si direbbe che cerchi d'ingannare qualcuno sulla sua vera rotta, signor Yanez – rispose Sambigliong. – Che sia sorvegliato e che cerchi d'ingannarli?
– Pare anche a me – rispose l'europeo. – Va' a prendermi un cannocchiale e fa' caricare una spingarda a palla. Se si cercherà d'intralciare la manovra di quell'uomo, il quale evidentemente mira a raggiungerci, faremo fuoco.
Un momento dopo puntava l'istrumento sul piccolo canotto che allora si trovava a non meno di due miglia e che aveva finalmente abbandonato le isolette della foce, per spingersi risolutamente verso la Marianna.
Ad un tratto gli sfuggì un grido: – Tangusa!
– Quello che Tremal-Naik aveva condotto con sé da Mompracem e che aveva innalzato alla carica di fattore?
– Sì, Sambigliong.
– Finalmente sapremo qualche cosa su questa insurrezione, se è veramente lui – disse il dayako.
– Non m'inganno: lo vedo benissimo. Oh!
– Che cosa avete, signore?
– Vedo una scialuppa montata da una dozzina di dayaki che mi pare voglia dare la caccia a Tangusa. Guarda verso l'ultima isola: la vedi?
Sambigliong aguzzò gli sguardi e vide infatti un'imbarcazione stretta e molto lunga, lasciare la foce del fiume e slanciarsi velocemente verso il mare, sotto la spinta di otto remi poderosamente manovrati.
– Sì, signor Yanez, danno la caccia al fattore di Tremal-Naik – disse.
– Hai fatto caricare una spingarda?
– Tutte quattro.
– Benissimo: aspettiamo un momento.
Il piccolo canotto, che aveva il vento in favore, filava diritto verso la Marianna con sufficiente velocità, nondimeno non pareva che potesse gareggiare colla scialuppa. L'uomo che la montava, accortosi di essere seguito, aveva legata la barra del timone ed aveva presi due remi per accelerare maggiormente la corsa.
Ad un tratto, una nuvoletta di fumo s'alzò sopra la prora della scialuppa, poi una detonazione giunse fino a bordo della Marianna.
– Fanno fuoco su Tangusa, signor Yanez – disse Sambigliong.
– Ebbene, mio caro, io mostrerò a quei furfanti come tirano i portoghesi – rispose l'europeo colla sua solita calma.
Gettò via la sigaretta che stava fumando, si fece largo fra i marinai che avevano invaso il castello di prora attirati da quello sparo e s'accostò alla prima spingarda di babordo, puntandola sulla scialuppa.
La caccia continuava furiosa ed il piccolo canotto, non ostante gli sforzi disperati dell'uomo che lo montava, perdeva via.
Un altro colpo di fucile era partito da parte degli inseguitori e senza miglior successo, essendo generalmente i dayaki più abili nel maneggio delle loro cerbottane che delle armi da fuoco, non conoscendo l'alzo.
Yanez, calmo, impassibile, mirava sempre.
– È sulla linea – mormorò dopo qualche minuto.
Fece contemporaneamente fuoco. La lunga e grossa canna si infiammò con un rombo strano che si ripercosse perfino sotto gli alberi che coprivano le sponde della baia.
Sul tribordo della scialuppa si vide alzarsi uno sprazzo d'acqua, poi si udirono in lontananza delle urla furiose.
– Presa, signor Yanez! – gridò Sambigliong.
– E fra poco affonderà – rispose il portoghese.
I dayaki avevano interrotto l'inseguimento ed arrancavano disperatamente colla speranza di raggiungere uno degli isolotti della foce, prima che la loro imbarcazione affondasse.
Lo squarcio prodotto dalla palla della spingarda, un buon proiettile di piombo misto a rame, del peso d'una libbra e mezzo, era così considerevole da non permettere di prolungare molto quella corsa.
Ed infatti i dayaki distavano ancora trecento passi dall'isolotto più vicino, quando la scialuppa, che si riempiva rapidamente d'acqua, mancò loro sotto i piedi, scomparendo.
Essendo i dayaki della costa tutti abilissimi nuotatori, passando la maggior parte della loro esistenza in acqua al pari dei malesi e dei polinesiani, non vi era pericolo che si annegassero.
– Salvatevi pure – disse Yanez. – Se tornerete alla carica vi scalderemo i dorsi con della buona mitraglia a base di chiodi.
Il piccolo canotto, liberato dai suoi inseguitori, mercé quel colpo fortunato, aveva ripresa la rotta verso la Marianna spinto dalla brezza che aumentava col calar del sole e ben presto si trovò nelle sue acque.
L'uomo che lo guidava era un giovane sulla trentina, dalla pelle giallastra, ed i lineamenti quasi europei, come se fosse nato da un incrocio di due razze, la caucasica e la malese; di statura piuttosto bassa e assai membruto; aveva il corpo avvolto in brandelli di tela bianca che gli fasciavano strettamente le braccia e le gambe e che apparivano qua e là macchiati di sangue.
– Che l'abbiano ferito? – si chiese Yanez. – Quel meticcio mi sembra assai sofferente. – Ohe, gettate una scala e preparate qualche cordiale.
Mentre i suoi marinai eseguivano quegli ordini, il piccolo canotto, con un'ultima bordata, giunse sotto il fianco di tribordo del veliero.
– Sali presto! – gridò Yanez.
Il fattore di Tremal-Naik legò la piccola imbarcazione ad una corda che gli era stata gettata, ammainò la vela, poi salì quasi con fatica la scala, comparendo sulla tolda.
Un grido di sorpresa ed insieme d'orrore era sfuggito al portoghese.
Tutto il corpo di quel disgraziato appariva crivellato come se avesse ricevuto parecchie scariche di pallini e da quelle innumerevoli, quantunque piccolissime ferite, uscivano goccioline di sangue.
– Per Giove! – esclamò Yanez, facendo un gesto di ribrezzo. – Chi ti ha conciato in questo modo, mio povero Tangusa?
– Le formiche bianche, signor Yanez – rispose il malese con voce strozzata, facendo un'orribile smorfia strappatagli dal dolore acuto che lo tormentava.
– Le formiche bianche! – esclamò il portoghese. – Chi ti ha coperto il corpo di quei crudeli insetti così avidi di carne?
– I dayaki, signor Yanez.
– Ah! Miserabili! Passa nell'infermeria e fatti medicare, poi riprenderemo la conversazione. Dimmi solamente per ora se Tremal-Naik e Darma corrono un pericolo imminente.
– Il padrone ha formato un piccolo corpo di malesi e tenta di far fronte ai dayaki.
– Va bene, mettiti nelle mani di Kibatany, che è un uomo che si intende di ferite, poi mi manderai a chiamare, mio povero Tangusa. Pel momento ho altro da fare.
Mentre il malese, aiutato da due marinai, scendeva nel quadro, Yanez aveva rivolta la sua attenzione verso lo sbocco del fiume dove erano comparse altre tre grosse scialuppe montate da numerosi equipaggi ed una doppia, munita di ponte sul quale si scorgeva uno di quei piccoli cannoni di ottone chiamati dai malesi, lila, fusi insieme con rame tolto dalla carena delle vecchie navi e qualche particella di piombo.
– Oh diavolo! – mormorò il portoghese. – Che quei dayaki abbiano intenzione di venirsi a misurare colle Tigri di Mompracem? Non sarà con quelle forze che voi avrete ragione di noi, miei cari. Abbiamo dei buoni pezzi che vi faranno saltare come capre selvatiche.
– Purché non abbiano altre scialuppe nascoste dietro le isole, signor Yanez – disse Sambigliong.
– Siamo troppo forti per aver paura di loro, quantunque noi conosciamo l'audacia e lo slancio di quegli uomini, figli di pirati e di tagliatori di teste. Ne abbiamo due di quelle casse. – Palle d'acciaio armate di punte?
– Sì, capitano Yanez.
– Falle portare in coperta e da' ordine a tutti i nostri uomini di calzare stivali di mare se non vorranno guastarsi i piedi. Ed i fasci di spine li hai imbarcati?
– Anche quelli.
– Falli gettare sulle impagliettature tutto intorno al bordo. Se vorranno montare all'assalto li udremo urlare come belve feroci. Pilota!
Padada che si era issato fino sulla coffa del trinchetto per osservare le mosse sospette delle quattro scialuppe era disceso e si era accostato al portoghese guardando obliquamente.
– Sai dirmi se quei dayaki posseggono molte barche?
– Non ne ho vedute che pochissime sul fiume – rispose il malese.
– Credi che tenteranno di abbordarci, approfittando della nostra immobilità?
– Non credo, padrone.
– Parli sinceramente? Bada che comincio ad avere qualche sospetto su di te e che questo arenamento non mi è sembrato puramente accidentale.
Il malese fece una smorfia come per nascondere il brutto sorriso che stava per spuntargli sulle labbra, poi disse un po' risentito:
– Non vi ho dato alcun motivo per dubitare della mia lealtà, padrone.
– Vedremo in seguito – rispose Yanez. – Ed ora andiamo a trovare quel povero Tangusa, mentre Sambigliong prepara la difesa.
IL PELLEGRINO DELLA MECCA
Se quel veliero appariva bellissimo all'esterno, tale da poter gareggiare coi più splendidi yachts di quell'epoca, l'interno, specialmente il quadro di poppa, era addirittura sfarzoso.
La sala centrale sopratutto, che serviva da pranzo e da ricevimento insieme, era ricchissima, con scaffali, tavola e sedie in mogano con intarsi di madreperla e filettature d'oro, con tappeti persiani in terra e arazzi indiani alle pareti e tende di seta rosa con frange d'argento alle piccole finestre.
Una grande lampada, che pareva di Venezia, pendeva dal soffitto e tutto all'intorno, negli spazi nudi, si vedevano splendide collezioni d'armi di tutti i paesi.
Coricato su un divano di velluto verde, fasciato dal capo alle piante e avvolto in una grossa coperta di lana bianca, stava l'intendente di Tremal-Naik già medicato e rinforzato da qualche buon cordiale.
– Sono cessati i dolori, mio bravo Tangusa? – gli chiese Yanez.
– Kibatany possiede degli unguenti miracolosi – rispose il ferito. – Mi ha spalmato tutto il corpo ed ora mi sento molto meglio di prima.
– Raccontami come è successa la cosa. Innanzi tutto, è sempre al kampong di Pangutaran, l'amico Tremal-Naik?
– Sì, signor Yanez, e quando l'ho lasciato stava fortificandosi per resistere ai dayaki fino al nostro arrivo. Quando è giunto a Mompracem il messo che vi abbiamo spedito?
– Tre giorni or sono e come vedi noi non abbiamo perduto tempo ad accorrere col nostro miglior legno.
– Che cosa pensa la Tigre della Malesia di questa improvvisa insurrezione dei dayaki, che fino a tre settimane or sono guardavano il mio padrone come il loro buon genio?
– Abbiamo fatto insieme tante congetture e forse non abbiamo indovinato il vero motivo che ha deciso i dayaki a prendere le armi ed a distruggere le fattorie che erano costate tante fatiche a Tremal-Naik.
«Sei anni di lavoro e più di centomila rupie spese forse inutilmente! Avete qualche sospetto?»
– Ecco, signore, quanto abbiamo potuto sapere. Un mese fa e probabilmente anche prima, è sbarcato su queste coste un uomo che non sembra appartenere né alla razza malese, né a quella bornese, che si diceva fervente mussulmano e portava in testa il turbante verde come tutti coloro che hanno compiuto il pellegrinaggio alla Mecca.
«Voi sapete, signore, che i dayaki di questa parte dell'isola non adorano i geni dei boschi, né gli spiriti buoni e cattivi come i loro confratelli del sud e che sono invece mussulmani, a loro modo s'intende, e non meno fanatici di quelli dell'India centrale.
«Che cosa abbia dato ad intendere quell'uomo a questi selvaggi, né io né il mio padrone siamo riusciti a saperlo. Il fatto è che riuscì a fanatizzarli ed indurli a distruggere le fattorie ed a ribellarsi all'autorità del signor Tremal-Naik.»
– Ma che istoria mi racconti tu! – esclamò Yanez, che era al colmo della sorpresa.
– Una storia tanto vera, signor Yanez, che il mio padrone corre il pericolo di morire abbruciato nel suo kampong assieme alla signorina Darma, se voi non accorrete in suo aiuto.
– Quell'uomo dal turbante verde ha aizzato quei selvaggi non solo contro le fattorie...
– Anche contro il mio padrone e vogliono la sua testa, signor Yanez.
Il portoghese era diventato pallido.
– Chi potrà essere quel pellegrino? Quale misterioso motivo lo spinge contro Tremal-Naik? L'hai visto tu?
– Sì, mentre scappavo dalle mani dei dayaki.
– È giovane, vecchio...
– Vecchio, signore, alto di statura e magrissimo, un tipo da vero pellegrino che ha fame e sete. E vi è di più ancora che aggrava il mistero – aggiunse il meticcio. – Mi hanno detto che due settimane or sono è giunta qui una nave a vapore che portava la bandiera inglese e che il pellegrino ha avuto un lungo colloquio con quel comandante.
– È partita subito quella nave?
– La mattina seguente ed ho il sospetto che, durante la notte, abbia sbarcato delle armi, perché ora non pochi dayaki posseggono dei moschetti e anche delle pistole, mentre prima non avevano che delle cerbottane e delle sciabole.
– Che gl'inglesi c'entrino in tutta questa faccenda? – si domandò Yanez, che appariva molto preoccupato.
– Possibile, signor Yanez!
– Sai la voce che corre a Labuan? Che il governo inglese abbia intenzione di occupare la nostra isola di Mompracem col pretesto che noi costituiamo un pericolo costante per la sua colonia e di mandarci a occupare qualche altra terra più lontana.
– Gl'inglesi che devono a voi tanta riconoscenza, per averli sbarazzati dei thugs che infestavano l'India!
– Mio caro, credi tu che un leopardo possa avere della riconoscenza verso una scimmia, supponiamo, che l'ha sbarazzato degli insetti che lo tormentavano?
– No, signore, quei carnivori non hanno quel sentimento.
– E non ne avrà nemmeno il governo inglese che viene chiamato il leopardo dell'Europa.
– E voi vi lascierete cacciare da Mompracem?
Un sorriso comparve sulle labbra di Yanez. Accese una sigaretta, aspirò due o tre boccate di fumo, poi disse con voce calma:
– Non sarebbe già la prima volta che le Tigri di Mompracem si mettono in guerra col leopardo inglese. Un giorno hanno tremato e Labuan ha corso il pericolo di vedere i suoi coloni divorati da noi o cacciati in acqua. Non ci lascieremo né sorprendere, né sopraffare.
– Sandokan ha mandato dei suoi prahos a Tiga ad arruolare uomini? – chiese il meticcio.
– Che non varranno meno per coraggio, delle ultime Tigri di Mompracem – rispose Yanez. – L'Inghilterra ci vuole cacciare dalla nostra isola, che da trent'anni occupiamo? Si provi e noi metteremo la Malesia intera in fiamme e daremo battaglia, senza quartiere, all'insaziabile leopardo inglese. Vedremo se sarà la Tigre della Malesia che soccomberà nella lotta!
In quel momento si udì la voce di Sambigliong, il mastro della Marianna, gridare:
– In coperta, capitano!
– Giungi in buon punto, malese mio – rispose Yanez. – Ho appena terminato ora il mio colloquio con Tangusa. Che cosa c'è di nuovo?
– S'avanzano.
– I dayaki?
– Sì, capitano.
– Va bene.
Il portoghese uscì dal quadro, salì la scala e giunse in coperta. Il sole stava allora per tramontare in mezzo ad una nuvola d'oro, tingendo di rosso il mare, che la brezza lievemente corrugava.
La Marianna era sempre immobile, anzi essendo quello il momento della massima marea bassa, si era un po' coricata sul fianco di babordo, in maniera che la coperta rimaneva sbandata.
Verso le isolette che facevano argine all'irrompere del fiume, una dozzina di grossi canotti, fra cui quattro doppi, s'avanzava lentamente verso il mezzo della baia, preceduta da un piccolo praho che era armato d'un miriam, un pezzo d'artiglieria un po' più grosso dei lila, quantunque fuso allo stesso modo, con ottone grossolano, rame e piombo.
– Ah! – fece Yanez, colla sua solita flemma. – Vogliono misurarsi con noi? Benissimo, avremo polvere in abbondanza da regalare, è vero, Sambigliong?
– La provvista è copiosa, capitano – rispose il malese.
– Noto che s'avanzano molto adagio. Pare che non abbiano nessuna fretta, mio caro Sambigliong!
– Aspettano che la notte scenda.
– Prima che la luce se ne fugga vediamo che musi sono.
Prese il cannocchiale e lo puntò sul piccolo praho che precedeva sempre la flottiglia delle scialuppe.
Vi erano quindici o venti uomini a bordo, che indossavano l'abito guerresco; pantaloni stretti, abbottonati all'anca ed al collo dei piedi, sarong cortissimo, in testa il tudung, un curioso berretto con lunga visiera e molte piume. Alcuni erano armati di fucile; i più avevano invece dei kampilang, quelle pesanti sciabole a doccia d'un acciaio finissimo, dei pisau-raut, ossia specie di pugnali dalla lama larga e non serpeggiante come i kriss malesi, ed avevano dei grandi scudi di pelle di bufalo di forma quadrata.
– Bei tipi – disse Yanez colla sua solita calma.
– Sono molti, signore?
– Ouff! Un centinaio e mezzo, mio caro Sambigliong.
Si volse guardando la tolda della Marianna.
I suoi quaranta uomini erano tutti ai loro posti di combattimento. Gli artiglieri dietro ai due cannoni da caccia ed alle quattro spingarde, i fucilieri dietro alle murate i cui bordi erano coperti di fasci di spine acutissime e gli uomini di manovra, che pel momento non avevano nulla da fare essendo il veliero sempre arenato, sulle coffe muniti di bombe da lanciare a mano e armati di carabine indiane di lunga portata.
– Vengano a trovarci! – mormorò, visibilmente soddisfatto degli ordini impartiti da Sambigliong.
Il sole stava per scomparire, diffondendo i suoi ultimi raggi e bagnando di luce aurea o rossastra le coste dell'immensa isola e le scogliere contro cui si frangevano rumoreggiando le onde che venivano dal largo.
Il grande globo incandescente calava superbamente in acqua, incendiando un gran ventaglio di nubi al di sopra delle quali s'innalzavano grandi zone d'oro e lembi ampî di porpora, smaglianti sull'azzurro chiaro del cielo.
Finalmente s'immerse, quasi bruscamente, infiammando per alcuni istanti tutto l'orizzonte, poi quell'onda di luce si attenuò rapidamente, non essendovi crepuscoli sotto quelle latitudini, la grande fantasmagoria solare si estinse e le tenebre piombarono avvolgendo la baia, le isole e le coste bornesi.
– Buona notte per gli altri e cattiva per noi – disse Yanez, che non aveva potuto fare a meno di contemplare quello splendido tramonto.
Guardò la flottiglia nemica. Il piccolo praho, le doppie scialuppe e quelle semplici affrettavano la corsa.
– Siamo pronti? – chiese Yanez.
– Sì – rispose Sambigliong per tutti.
– Allora, Tigrotti di Mompracem, non vi trattengo più.
Il piccolo praho era a buon tiro e copriva le scialuppe che lo seguivano in fila, l'una dietro all'altra, per non esporsi al fuoco delle artiglierie della Marianna.
Sambigliong si curvò su uno dei due pezzi da caccia piazzati sul cassero che erano montati su perni giranti onde potessero far fuoco in tutte le direzioni e, dopo aver mirato per qualche istante, fece fuoco, spezzando netto l'albero di trinchetto, il quale cadde sul ponte assieme all'immensa vela.
A quel colpo veramente maraviglioso, urla furiose s'alzarono sulle scialuppe, poi la prora del legno mutilato a sua volta avvampò.
Il miriam del piccolo veliero aveva risposto al fuoco della Marianna, ma la palla, male diretta, non aveva fatto altro danno che quello di forare il contro flocco che Yanez non aveva fatto ammainare.
– Quei bricconi tirano come i coscritti del mio paese – disse Yanez, che continuava a fumare placidamente, appoggiato alla murata di prora.
A quel secondo sparo tenne dietro una serie di detonazioni secche. Erano i lila delle doppie scialuppe che appoggiavano il fuoco del piccolo praho.
Quei cannoncini non erano fortunatamente ancora a buon tiro e tutto finì in molto baccano e molto fumo senza nessun danno per la Marianna.
– Demolisci il praho, innanzi tutto, Sambigliong – disse Yanez. – E cerca di smontare il miriam che è il solo che possa danneggiarci. Sei uomini ai due pezzi da caccia e accelerate il fuoco più...
Si era bruscamente interrotto ed aveva lanciato un rapido sguardo verso poppa. Ad un tratto trasalì e fece un gesto di sorpresa.
– Sambigliong! – esclamò impallidendo.
– Non temete, signor Yanez, il praho fra due minuti sarà fracassato o per lo meno rasato come un pontone.
– È il pilota che non vedo più.
– Il pilota! – esclamò il malese lasciando il pezzo di caccia che era già puntato.
– Dov'è quel briccone!
Yanez aveva attraversata rapidamente la tolda, in preda ad una visibile emozione.
– Cerca il pilota! – gridò.
– Capitano – disse un malese che era al servizio dei due pezzi di poppa. – L'ho veduto or ora scendere nel quadro.
Sambigliong, che forse aveva avuto il medesimo sospetto del portoghese, si era già precipitato giù per la scaletta, impugnando una pistola. Yanez lo aveva subito seguito mentre i due cannoni da caccia tuonavano contro la flottiglia, con un rimbombo assordante.
– Ah! cane! – udì gridare.
Sambigliong aveva afferrato il pilota che stava per uscire da una cabina, tenendo in mano un pezzo di corda incatramata accesa.
– Che cosa facevi, miserabile!? – urlò Yanez precipitandosi a sua volta sul malese che tentava di opporre resistenza al mastro.
Il pilota, vedendo il comandante che aveva pure impugnata una pistola e che pareva pronto a fargli scoppiare la testa, era diventato grigiastro, ossia pallido, pure rispose con una certa calma:
– Signore, sono disceso per cercare una miccia per le spingarde...
– Qui, le micce! – gridò Yanez. – Tu, briccone, cercavi d'incendiarci la nave sotto i piedi!
– Io!
– Sambigliong, lega quest'uomo! – comandò il portoghese. – Quando avremo battuto i dayaki avrà da fare con noi.
– Non occorrono corde, signor Yanez – rispose il mastro. – Lo faremo dormire per una dozzina d'ore, senza che ci dia alcun fastidio.
Afferrò brutalmente per le spalle il pilota che non cercava più di oppone resistenza, e gli compresse coi pollici tesi la nuca, poi gli affondò nel collo, un po' al di sotto degli angoli mascellari, gli indici ed i medi in modo da stringergli le carotidi contro la colonna vertebrale. Allora si vide una cosa assolutamente strana. Padada stralunò gli occhi e spalancò la bocca come se si fosse manifestato un principio d'asfissia, la respirazione gli divenne improvvisamente affannosa, poi rovesciò il capo indietro e s'abbandonò fra le braccia del mastro, come se la morte lo avesse colto.
– L'hai ucciso! – esclamò Yanez.
– No, signore – rispose Sambigliong. – L'ho addormentato e prima di dodici o quindici ore non si sveglierà. (I malesi per addormentare le persone ricorrono a quella strana compressione e l'uomo così trattato, durante quel sonno, è in preda ad una anestesia completa)
– Dici davvero?
– Lo vedrete più tardi.
– Gettalo su qualche branda e saliamo subito. Il cannoneggiamento diventa vivissimo.
Sambigliong alzò il pilota, che pareva non desse più alcun segno di vita, e lo adagiò su un tappeto, poi tutti e due salirono rapidamente sulla tolda, nel momento in cui i due cannoni da caccia tornavano a tuonare con tale fragore da far tremare tutto il veliero.
Il combattimento fra la Marianna e la flottiglia si era impegnato con grande ardore.
Le scialuppe doppie, che, come abbiamo detto, erano armate di lila, si erano disposte su una fronte piuttosto larga, a destra ed a sinistra del praho, onde dividere maggiormente il fuoco del veliero e si erano impegnate risolutamente a proteggere le altre imbarcazioni che, quantunque più piccole, portavano equipaggi più numerosi, riserbati certamente per l'attacco finale.
Gli spari si succedevano agli spari e le palle, quantunque tutte di piccolo calibro, fischiavano in gran numero sulla Marianna, smussando qualche pennone, forando le vele, maltrattando il sartiame e scheggiando le murate. Alcuni uomini erano stati già feriti e qualcuno ucciso, nondimeno gli artiglieri di Mompracem facevano freddamente il loro dovere, con una calma ed un sangue freddo meraviglioso.
Le spingarde, essendo ormai la distanza diminuita, avevano pure cominciato a tuonare, lanciando sulla flottiglia bordate di mitraglia, composta per la maggior parte di chiodi, che si piantavano nella pelle dei dayaki, facendoli urlare come scimmie rosse.
Non ostante quelle scariche formidabili, la flottiglia non cessava di avanzare. I dayaki, che sono generalmente coraggiosi non meno dei malesi e che non temono la morte, davano dentro ai remi furiosamente, mentre quelli che erano armati di fucile, mantenevano un fuoco vivissimo, quantunque poco efficace, non avendo molta pratica di quelle armi, che forse adoperavano per la prima volta.
Erano già giunte le scialuppe a cinquecento passi, quando il praho su cui si era concentrato il fuoco dei pezzi da caccia della Marianna, si coricò su un fianco.
Aveva ormai perduto i suoi due alberi, il bilanciere era stato fracassato di colpo da una palla tiratagli da Yanez e le sue murate erano state ridotte in così cattivo stato che non esistevano quasi più.
– Smonta il miriam, Sambigliong! – gridò Yanez, vedendo una doppia scialuppa accostarsi al praho coll'evidente intenzione d'impadronirsi del pezzo d'artiglieria, prima che il piccolo veliero affondasse.
– Sì, comandante – rispose il malese, che serviva al pezzo da caccia di babordo.
– E voi altri mitragliate l'equipaggio prima che venga raccolto – aggiunse il portoghese, che dall'alto del cassero seguiva attentamente le mosse della flottiglia, senza levarsi dalle labbra la sigaretta.
Una bordata colpì il praho, bordata di pezzi da caccia e di spingarde, smontando il miriam il cui carrello fu fracassato di colpo e spazzando il ponte da prora a poppa, con un uragano di mitraglia che storpiò e ferì la maggior parte dell'equipaggio.
– Bel colpo! – esclamò il portoghese, colla sua flemma abituale. – Eccone uno che non ci darà più fastidio.
Il piccolo veliero non era ormai che un rottame che si empiva rapidamente d'acqua. Gli uomini che erano fuggiti a quella tremenda bordata, si erano gettati in mare e nuotavano verso le scialuppe, mentre i pontoni tiravano furiosamente coi lila con non troppa fortuna, quantunque la Marianna colla sua mole ed immobilizzata come era, offrisse un ottimo bersaglio.
Ad un tratto il legno si capovolse bruscamente, rovesciando in acqua morti e feriti e rimase colla chiglia in aria.
Urla feroci s'alzarono dalle scialuppe, vedendo il praho andarsene alla deriva in quello stato.
– Gridate come oche – disse Yanez. – Ci vuole ben altro per vincere le Tigri di Mompracem, miei cari.
«Fuoco sulle scialuppe! Avanti fucilieri!. L'affare diventa caldo.»
Sebbene privata del praho che col suo pezzo poteva contrabbattere i cannoni da caccia, la flottiglia aveva ripreso la corsa e s'avvicinava rapidamente alla Marianna.
Le Tigri di Mompracem non facevano economia né di palle né di polvere. Colpi di cannone e di spingarda si alternavano a nutrite scariche di fucileria che facevano dei larghi vuoti fra gli equipaggi delle scialuppe e dei pontoni.
Quei vecchi guerrieri, che un giorno avevano fatto tremare gli inglesi di Labuan, che avevano vinto e rovesciato James Brooke, il rajah di Sarawack, e che avevano distrutti, dopo formidabili combattimenti, i terribili thugs indiani, si difendevano con accanimento ammirabile, senza nemmeno prendersi la briga di ripararsi dietro i bordi.
Anzi, sprezzanti d'ogni pericolo, non ostante i consigli del portoghese che ci teneva a conservare i suoi uomini, erano saliti tutti sulle murate per mirare meglio e di là e anche dalle coffe, facevano un fuoco infernale sulle scialuppe, decimando crudelmente i loro equipaggi.
Gli assalitori però erano così numerosi che quelle gravi perdite non li scoraggiavano. Altre scialuppe, uscite dal fiume, avevano raggiunta la flottiglia e anche quelle cariche di guerrieri. Erano almeno trecento selvaggi, sufficientemente armati che muovevano all'abbordaggio della Marianna, risoluti, a quanto pareva, ad espugnarla e massacrare i suoi difensori fino all'ultimo, non potendosi sperare quartiere da quei barbari sanguinari che non hanno che un solo desiderio: quello di fare raccolta di crani umani.
– La faccenda minaccia di diventare seria – mormorò Yanez, vedendo quelle nuove scialuppe. – Tigrotti miei, date dentro più che potete o noi finiremo per lasciare qui le nostre teste. Quel cane d'un pellegrino li ha fanatizzati per bene e li ha fatti diventare idrofobi.
S'accostò al pezzo da caccia di tribordo, che in quel momento era stato scaricato e allontanò Sambigliong che stava pigliando la mira.
– Lascia che mi scaldi un po' anch'io – disse. – Se non sfasciamo i pontoni e mandiamo in acqua i loro lila, fra tre minuti saranno qui.
– Le spine li tratterranno, capitano.
– Eh, non so, mio caro. I loro kampilang avranno buon gioco.
– Ed i nostri gabbieri non ne avranno meno colle loro granate.
– Sia, ma preferisco che non giungano qui.
Diede fuoco al pezzo e, come al solito, non mancò il colpo. Uno dei pontoni, formati da due scialuppe riunite da un ponte, andò a catafascio. Le prore, spaccate a livello d'acqua, in un momento si riempirono ed il galleggiante affondò.
Un secondo fu pure gravemente maltrattato, ma al terzo colpo di cannone sparato da Yanez le scialuppe erano già quasi sotto.
– Impugnate i parang e portate le spingarde a poppa! – gridò, abbandonando il pezzo che ormai diventava inutile. – Sgombrate la prora!
In un baleno quei comandi furono eseguiti. I fucilieri si ammassarono sul cassero, lasciando soli i gabbieri nelle coffe, mentre Sambigliong con alcuni uomini sfondava a colpi di scure due casse lasciando scorrere per la coperta una infinità di pallottoline d'acciaio irte di punte sottilissime.
I dayaki, resi fimosi dalle gravi perdite subite, avevano circondata la Marianna urlando spaventosamente e cercavano di arrampicarsi, aggrappandosi alle bancazze, alle sartie, ai paterazzi ed alla dolfiniera del bompresso.
Yanez aveva impugnata una scimitarra e si era messo in mezzo ai suoi uomini.
– Stringete le file attorno alle spingarde! – gridò.
I fucilieri che stavano presso le murate non avevano cessato il fuoco, fulminando a bruciapelo i dayaki dei pontoni e quelli che cercavano di montare all'abbordaggio.
Le canne dei fucili e delle carabine indiane erano diventate così ardenti che scottavano le mani dei tiratori.
I dayaki arrivavano, inerpicandosi come scimmie. Ad un tratto atroci urla di dolore scoppiarono fra gli assalitori.
Avevano posate le mani sui fasci di spine che coprivano le murate e che erano dissimulati dalle brande stese sopra i bastingaggi, straziandosi orribilmente le dita e non reggendo a così atroce dolore si erano lasciati cadere addosso ai compagni, travolgendoli nella loro caduta. Se non erano pel momento riusciti a scavalcare le murate di babordo e di tribordo, quelli che si erano issati sulle trinche del bompresso erano stati invece più fortunati, avendo trovato subito un appoggio sull'albero istesso.
Accortisi delle spine, a gran colpi di kampilang staccarono i fasci gettandoli in mare, ed in dieci o dodici irruppero sul castello di prora mandando urla di vittoria.
– Dentro colle spingarde! – gridò Yanez che li aveva lasciati fare.
Le quattro bocche da fuoco lanciarono una bordata di chiodi su quel gruppo, spazzando tutto il castello.
Fu una scarica terribile. Nessuno degli assalitori era rimasto in piedi, quantunque non vi fosse nemmeno un morto.
Quei disgraziati, che avevano ricevuto in pieno quella bordata, si rotolavano pel castello, dibattendosi disperatamente e mandando urla spaventevoli e gemiti strazianti.
I loro corpi, foracchiati in cento luoghi dai chiodi, parevano schiumarole gocciolanti di sangue.
La vittoria era nondimeno ancora ben lungi. Altri dayaki salivano da tutte le parti, disperdendo prima le spine coi kampilang e rovesciandosi in coperta, malgrado il fuoco vivissimo delle Tigri di Mompracem.
Là un altro ostacolo però, non meno duro delle spine, attendeva gli assalitori: erano le pallottole d'acciaio che coprivano tutta la tolda e le cui punte non si potevano sfidare senza i pesanti stivali di mare.
Per di più, i gabbieri delle coffe avevano cominciato a lanciare le granate che scoppiavano con fragore, buttando intorno frammenti di metallo.
I dayaki, presi fra due fuochi, impossibilitati ad avanzare, si erano arrestati; poi un subitaneo terrore, accresciuto da un'altra bordata di mitraglia che ne gettò a terra parecchi, li prese e si precipitarono confusamente in acqua, nuotando disperatamente verso i pontoni e le scialuppe.
– Pare che ne abbiano finalmente abbastanza – disse Yanez, che durante la lotta non aveva perduto un atomo della sua flemma. – Ciò v'insegnerà a temere le vecchie Tigri di Mompracem.
La disfatta degl'isolani era completa. Pontoni e scialuppe fuggivano a forza di remi verso le isolette che si estendevano dinanzi al fiume, senza più rispondere al fuoco del veliero, fuoco che ben presto fu fatto cessare dal portoghese, ripugnandogli di massacrare delle persone che ormai non si difendevano più.
Dieci minuti dopo, la flottiglia, le cui scialuppe facevano per la maggior parte acqua, scompariva entro il fiume.
– Se ne sono andati – disse Yanez. – Speriamo che ci lascino tranquilli.
– Ci aspetteranno nel fiume, signore – disse Sambigliong.
– E vi daranno nuovamente battaglia – aggiunse Tangusa, che ai primi colpi di cannone era pure salito in coperta per prendere parte alla difesa, quantunque esausto di forze.
– Lo credi? – chiede il portoghese.
– Ne sono certo, signore.
– Daremo loro un'altra lezione che leverà loro, e per sempre, la voglia d'importunarci. Troveremo acqua sufficiente per spingerci fino alle scale del kampong?
– Il fiume è profondo per un tratto lunghissimo e purché il vento sia favorevole non troverete difficoltà a salirlo.
– Quanti uomini abbiamo perduto? – chiese Yanez a Kibatany, il malese che funzionava da medico a bordo.
– Ve ne sono otto nell'infermeria, signore, fra cui due gravemente feriti e quattro morti.
– Che il diavolo si porti quei maledetti selvaggi ed il loro pellegrino! – esclamò Yanez. – Orsù, così è la guerra – aggiunse poi con un sospiro.
Quindi volgendosi verso Sambigliong che pareva aspettasse qualche ordine:
– La marea sta per raggiungere la sua massima altezza. Cerchiamo di trarci da questo maledetto banco.
SUL KABATUAN
L'acqua già da cinque ore continuava a montare nella baia ed a poco a poco aveva coperto interamente il banco, su cui la Marianna si era incagliata.
Era quindi quello il buon momento per cercare di liberarsi e la cosa non sembrava dovesse essere molto difficile, poiché i marinai avevano rimarcato un leggiero spostamento della ruota di prua. Il veliero non galleggiava ancora; tuttavia nessuno disperava di riuscire a levarlo da quel cattivo passo, aiutandolo con qualche sforzo.
Sbarazzata la coperta dei cadaveri che la ingombravano, essendo molti dayaki caduti sul castello di prora sotto le micidiali scariche delle spingarde ed a mezza nave, e ricollocate nelle casse le pericolosissime palle d'acciaio, che avevano arrestato così bene l'attacco dei bellicosi isolani, i Tigrotti di Mompracem si misero alacremente all'opera sotto la direzione di Yanez e di Sambigliong.
Furono gettati due ancorotti a sessanta passi dalla poppa, su un buon fondo e le gomene passate all'argano, onde trarre indietro la nave ed aiutare l'azione della marea, poi le vele furono girate in modo che la spinta del vento avvenisse non più verso la prora.
– All'argano, ragazzi! – gridò Yanez, quando tutto fu pronto. – Noi ci leveremo presto di qui.
Già qualche scricchiolio si era udito sotto la ruota, segno evidente che l'acqua tendeva, aumentando sempre, a sollevare la carena.
Dodici uomini si erano precipitati verso l'argano, mentre altrettanti si erano gettati sulle funi collegate ai due ancorotti, affinché lo sforzo fosse maggiore, ed al comando del portoghese, i primi avevano cominciato a spingere energicamente le aspe.
Avevano dato appena quattro o cinque giri all'argano, quando la Marianna scivolò, per modo di dire, sul banco su cui s'appoggiava, virando lentamente sul tribordo, per l'azione del vento che gonfiava fortemente le due immense vele.
– Eccoci liberi! – aveva esclamato Yanez, con voce giuliva. – Forse sarebbe bastata la sola marea a trarci di qui. Che bella sorpresa pel pilota, quando si risveglierà. Salpate gli ancorotti, contrabbracciate le vele e avanti, diritti verso il fiume.
– Lo imboccheremo senza attendere l'alba? – chiese Sambigliong.
– È largo e profondo, mi ha detto Tangusa, e non è interrotto da banchi – rispose Yanez. – Preferisco attraversare la foce ora e sorprendere i dayaki, che non s'aspettano di certo di vederci così presto.
Con uno sforzo poderoso i marinai dell'argano avevano strappati dal fondo i due ancorotti, mentre i gabbieri avevano orientato rapidamente le due vele ed i flocchi del bompresso. Tangusa, che non aveva lasciata la tolda, si era messo alla barra del timone, essendo il solo che conoscesse la foce del Kabatuan.
– Conducici solamente entro il fiume, mio bravo ragazzo – gli aveva detto Yanez. – Poi penseremo noi a guidare la Marianna e tu andrai a riposarti.
– Oh signore, non sono già un fanciullo – aveva risposto il meticcio, – per aver bisogno d'un immediato riposo. Quel balsamo prodigioso, sparso sulle mie ferite da Kibatany, mi ha calmato i dolori.
– Ah! – esclamò ad un tratto Yanez, mentre la Marianna, girato prudentemente il banco, s'avanzava verso il fiume. – Tu non mi hai ancora narrato come sei caduto nelle mani dei dayaki ed il perché ti hanno martirizzato.
– Non mi avevano lasciato il tempo, quei furfanti, di finire di raccontarvi la mia trista avventura – rispose il meticcio forzandosi a sorridere.
– Venivi dal kampong di Tremal-Naik, quando ti catturarono?
– Sì, signor Yanez. Il mio padrone mi aveva incaricato di raggiungere le rive della baia per guidarvi sul fiume.
– Era certo dunque che noi non avremmo indugiato ad accorrere in suo aiuto.
– Non ne dubitava, signore.
– Dove sei stato sorpreso?
– Sulle isolette della foce.
– Quando?
– Due giorni or sono. Alcuni uomini che avevano lavorato nelle piantagioni del kampong mi avevano subito riconosciuto, sicché assalirono senza indugio il mio canotto e mi fecero prigioniero.
«Dovevano essersi immaginati che Tremal-Naik mi aveva mandato alla costa per attendere qualche soccorso, perché mi sottoposero ad un lungo interrogatorio, minacciando di accopparmi se non rivelavo loro lo scopo della mia gita. Siccome rifiutavo ostinatamente di rispondere, quei miserabili mi gettarono in una buca che era prossima ad un formicaio, mi legarono per bene, poi mi fecero sul corpo alcune incisioni onde il sangue uscisse.»
– Briganti!
– Voi sapete, signor Yanez, quanto sono avide di carne, le formiche bianche. Attirate dall'odore del sangue non tardarono ad accorrere a battaglioni e cominciarono a divorarmi, vivo, pezzetto a pezzetto.
– Un supplizio degno di selvaggi.
– E che durò un buon quarto d'ora facendomi provare tormenti spaventevoli. Fortunatamente quegli insetti si erano gettati anche sulle corde che mi legavano le braccia e le gambe e non tardarono a rosicchiare anche quelle, essendo state spalmate d'olio di cocco onde, disseccandosi, mi stringessero vieppiù.
– E tu, appena libero, scappasti? – disse Yanez.
– Ve lo potete immaginare – rispose il meticcio. – Essendosi i dayaki allontanati, mi gettai nella vicina foresta, raggiunsi il fiume e avendo trovato sulla riva un canotto munito d'una vela, presi senza indugio il largo, avendo già scorto in lontananza il vostro veliero.
– Sei stato però ben vendicato!
– E ne sono lieto, signor Yanez. Quei selvaggi non meritano compassione. Oh!
Quell'esclamazione gli era sfuggita, scorgendo alcuni fuochi che brillavano sulle coste delle isolette che formavano la barra del fiume.
– I dayaki vegliano, signor Yanez – disse.
– Lo vedo – rispose il portoghese. – Possiamo passare al largo, senza essere veduti?
– Prenderemo l'ultimo canale – rispose il meticcio, dopo d'aver osservato attentamente la foce del fiume. – In quella direzione non vedo brillare alcun fuoco.
– Vi sarà acqua bastante?
– Sì, ma vi sono dei banchi, colà.
– Ah! diavolo!
– Non temete, signor Yanez. Conosco benissimo la foce e spero di farvi entrare nel Kabatuan senza malanni.
– Noi intanto prenderemo le nostre precauzioni per respingere qualsiasi attacco – rispose il portoghese, avvicinandosi verso il castello di prora.
La Marianna, spinta da una leggera brezza di ponente, scivolava dolcemente, come se appena sfiorasse l'acqua, accostandosi sempre più alla foce del fiume.
La marea che montava ancora doveva facilitare l'entrata, risalendo per un buon tratto il Kabatuan.
L'equipaggio, eccettuati due o tre uomini incaricati della cura dei feriti, era tutto in coperta, a posto di combattimento, non essendo improbabile che i dayaki, non ostante la terribile sconfitta, tentassero nuovamente un abbordaggio o aprissero il fuoco tenendosi nascosti fra i boschetti che coprivano le isole.
Tangusa, che teneva la barra e che, come abbiamo detto, conosceva a menadito la baia, guidò la Marianna in modo da tenerla lontana dai fuochi che ardevano presso le scogliere e che dovevano dominare gli accampamenti dei nemici, poi con un'abile manovra la spinse dentro un canale piuttosto stretto che s'apriva fra la costa ed un isolotto, senza che alcun grido d'allarme fosse partito né da una parte né dall'altra.
– Siamo nel fiume, signore – disse a Yanez, che lo aveva raggiunto.
– Non ti sembra un po' strano che i dayaki non si siano accorti della nostra entrata?
– Forse dormivano della grossa e non sospettavano che noi potessimo trarci così felicemente dal banco.
– Hum! – fece il portoghese, scuotendo il capo.
– Dubitate?
– Io ritengo che ci abbiano lasciati passare per darci battaglia sull'alto corso del fiume.
– Può darsi, signor Yanez.
– Quando potremo giungere?
– Non prima di mezzodì.
– Quanto dista il kampong dal fiume?
– Due miglia.
– Di foresta, probabilmente.
– E folta, signore.
– Peccato che Tremal-Naik non abbia fondata la sua principale fattoria sul fiume. Noi saremo costretti a dividere le nostre forze. È bensì vero che i miei tigrotti si battono splendidamente sia sui ponti dei loro prahos che a terra.
– Saliamo dunque, signore? Il vento è favorevole e la marea ci spingerà per qualche ora ancora.
– Avanti e bada di non mandare la Marianna in secco.
– Conosco troppo bene il fiume.
Il veliero superò una lingua di terra che formava la barra del fiume e rimontò la corrente, spinto dalla brezza notturna che gonfiava le sue enormi vele.
Quel corso d'acqua, che è ancora oggidì poco noto, in causa della continua ostilità dei dayaki che non risparmiano nemmeno le teste degli esploratori europei, era largo un centinaio di metri e scorreva fra due rive piuttosto alte, coperte da manghi, da durion e da alberi gommiferi. Nessun fuoco si vedeva brillare sotto gli alberi, né si udiva alcun rumore che indicasse la presenza di quei formidabili cacciatori di teste.
Solo di quando in quando nelle acque, che dovevano essere profonde, echeggiava un tonfo prodotto dall'improvvisa immersione di qualche gaviale addormentato a fior d'acqua, che la massa del veliero aveva spaventato. Quel silenzio tuttavia non rassicurava affatto Yanez, il quale anzi raddoppiava la vigilanza, cercando di scoprire qualche cosa sotto la fosca ombra degli alberi.
– No – mormorava. – È impossibile che noi abbiamo potuto passare inosservati. Deve succedere qualche cosa; fortunatamente conosciamo il nemico e non ci coglierà di sorpresa.
Era trascorsa una mezz'ora, senza che nulla fosse accaduto di straordinario, ed il portoghese cominciava a rassicurarsi, quando, verso il basso corso del fiume, si vide una linea di fuoco alzarsi al di sopra dei grandi alberi.
– Toh! un razzo! – aveva esclamato Sambigliong, che aveva potuto scorgerlo prima che si spegnesse.
La fronte di Yanez si era abbuiata.
– Come mai questi selvaggi posseggono dei razzi di segnalazione? – si chiese.
– Capitano, – disse Sambigliong – ciò è prova che in tutta questa faccenda vi è lo zampino degl'inglesi. Questi ignoranti non li hanno mai conosciuti prima d'ora.
– O che li abbia portati quel pellegrino misterioso.
– Là, guardate, comandante: si risponde.
Yanez, si era vivamente voltato verso la prora e ad una notevole distanza, verso l'alto corso del fiume, invece, aveva veduto spegnersi in cielo un'altra linea di fuoco.
– Tangusa – disse, volgendosi verso il meticcio, che non aveva abbandonata la barra. – Pare che si preparino a farci passare una brutta notte, gli ex coltivatori del tuo padrone.
– Lo sospetto anch'io, signore – rispose il meticcio.
In quell'istante verso prora si udirono delle esclamazioni:
– Lucciole!
– O fuochi?
– Guarda lassù.
– Brucia il fiume!
– Signor Yanez! Signor Yanez!
Il portoghese in pochi salti fu sul castello di prora, dove si erano già radunati parecchi uomini dell'equipaggio.
Tutto l'alto corso del fiume, che scendeva in linea quasi retta con leggeri serpeggiamenti, appariva coperto da miriadi di punti luminosi che ora si raggruppavano ed ora si disperdevano, per riunirsi poco dopo in linee ed in macchie foltissime. Yanez era rimasto talmente sorpreso, che stette per qualche minuto silenzioso.
– Qualche fenomeno, capitano? – chiese Sambigliong. – È impossibile che quelle siano lucciole.
– Nemmeno io lo credo – rispose finalmente Yanez, la cui fronte si abbuiava sempre più.
Tangusa che aveva affidato momentaneamente la barra a uno dei timonieri, era pure accorso, allarmato da quelle esclamazioni.
– Sapresti dirmi di che cosa si tratta? – chiese Yanez, vedendolo.
– Quelli sono fuochi che scendono il fiume, signore – rispose il meticcio.
– È impossibile! Se ognuno di quei punti luminosi segnalasse una barca, ve ne dovrebbero essere delle migliaia e non credo che i dayaki ne posseggano tante, nemmeno riunendo tutte quelle che si trovano sui fiumi bornesi.
– Eppure sono fuochi – replicò Tangusa.
– Accesi dove?
– Non so, signore.
– Su dei tronchi d'albero?
– Non saprei dirvelo. Il fatto è che quei fuochi s'avvicinano, capitano, e che la Marianna potrebbe correre il pericolo d'incendiarsi.
Yanez lanciò un «per Giove!» tuonante che fece stupire Sambigliong, che non l'aveva mai veduto prima d'allora uscire dai gangheri.
– Che cos'hanno preparato quelle canaglie? – esclamò il bravo portoghese.
– Capitano, prepariamo per maggior precauzione le pompe.
– E arma i nostri uomini di buttafuori e di manovelle per allontanare quei fuochi. Questi maledetti selvaggi cercano d'incendiare la nostra nave. Su lesti, tigrotti miei: non vi è tempo da perdere.
Quelle centinaia e centinaia di punti luminosi ingrandivano a vista d'occhio, trascinati dalla corrente e coprivano un tratto immenso di fiume.
Scendevano a gruppi, danzando con un effetto meraviglioso, che in altre occasioni Yanez avrebbe certamente ammirato, ma non in quel momento. Giravano su loro stessi, seguendo i gorghi, formando delle linee circolari e delle spirali, che poi bruscamente si rompevano, oppure delle linee rette che poi diventavano delle serpentine. Un gran numero filava lungo le rive; molti invece, anzi i più, danzavano in mezzo, essendo la corrente ivi più rapida.
Dove posassero nessuno poteva dirlo, essendo la notte oscura, anche a causa dell'ombra proiettata dalle piante altissime che coprivano le rive. Certo però dovevano ardere su dei minuscoli galleggianti.
Tutto l'equipaggio, armatosi frettolosamente di buttafuori, di pennoni, di aste e di manovelle, si era disposto lungo i fianchi della Marianna per allontanare quei fuochi pericolosi. Alcuni erano scesi nella rete delle dolfiniere del bompresso e nelle bancazze per poter meglio agire.
– Sempre in mezzo al fiume! – aveva gridato Yanez a Tangusa, che aveva ripresa la barra del timone. – Se prenderemo fuoco, faremo presto a poggiare sull'una o sull'altra riva.
La flottiglia giungeva a ondate, correndo addosso alla Marianna la quale s'avanzava lentamente essendo il vento debolissimo.
– Recatemi uno di quei fuochi – disse Yanez ai malesi che si erano calati nella rete della dolfiniera, la cui estremità inferiore sfiorava quasi l'acqua.
Tutti i marinai si erano messi all'opera, vibrando furiosi colpi di buttafuori e di manovelle su quei fuochi galleggianti che ormai circondavano la Marianna.
Un malese, presone uno, lo aveva recato a Yanez. Si componeva d'una mezza noce di cocco, piena di bambace inzuppato d'una materia resinosa ed attaccaticcia che ardeva meglio dell'olio vegetale, di cui fanno ordinariamente uso i bornesi al pari dei siamesi.
– Ah! Bricconi! – aveva esclamato il portoghese. – Ecco una trovata meravigliosa che io non avrei mai immaginata! Come sono diventati furbi, da un momento all'altro, questi dayaki! Tigrotti, date dentro a tutta lena; se questo cotone s'attacca ai madieri, arrostiremo come anitre allo spiedo.
Aveva gettato via il guscio di cocco e si era slanciato a prora, dov'era maggiore il pericolo, perché quei fuochi investendo il tagliamare si rovesciavano in gran numero e la materia attaccaticcia e resinosa ond'era imbevuto il cotone poteva attaccarsi al fasciame, dove avrebbe trovato buon alimento nel catrame che lo copriva.
I tigrotti, che avevano compreso il gravissimo pericolo che correva il veliero, non risparmiavano i colpi. Specialmente quelli che si trovavano nella rete della dolfiniera ed a cavalcioni delle trinche, avevano un bel da fare a rovesciare quei minuscoli galleggianti, che giungevano sempre a ondate, scivolando e capovolgendosi lungo i fianchi della Marianna. Tuttavia dei fuochi di cotone di quando in quando s'appiccicavano al fasciame, ed il catrame subito prendeva fuoco, sviluppando un fumo denso ed acre.
Guai se quel legno avesse avuto un equipaggio poco numeroso! Le Tigri di Mompracem fortunatamente erano bastanti per sorvegliare tutti i bordi e, quando il fuoco cominciava a manifestarsi, le pompe lo spegnevano di colpo con un abbondante getto d'acqua.
Quella strana lotta durò una buona mezz'ora, poi i pericolosi galleggianti cominciarono a diradarsi e finalmente cessarono di sfilare, scomparendo verso il basso corso del fiume.
– Che ci preparino ora qualche altra sorpresa? – disse Yanez che aveva raggiunto il meticcio. – Vedendo il loro criminoso tentativo andato a male, escogiteranno qualche cosa d'altro. Che cosa ne dici, Tangusa?
– Che noi non giungeremo all'imbarcadero del kampong, senza che i dayaki ci diano una seconda battaglia, signor Yanez – rispose il meticcio.
– La preferirei a qualche altra sorpresa, mio caro. Finora però non vedo alcuna scialuppa.
– Non siamo ancora giunti, anzi tarderemo assai con questo vento così debole. Se non aumenta, invece del mezzodì dovremo faticare fino alla sera di domani.
– E ciò mi rincrescerebbe. Ohe, tigrotti, aprite gli occhi e tenete le armi in coperta. I tagliatori di teste ci spiano di certo.
Accese una sigaretta e si sedette sul capo di banda di poppa, per meglio sorvegliare le due rive.
La Marianna, sfuggita miracolosamente a quel secondo pericolo, s'avanzava sempre più lenta, essendo scemata la brezza.
Nessun rumore si udiva sulle rive, che erano sempre coperte da alberi immensi che stendevano i loro rami mostruosi sul fiume, rendendo maggiore l'oscurità, eppure nessuno dubitava che degli occhi seguissero nascostamente il veliero.
Era impossibile che i dayaki, dopo quel tentativo che per poco non riusciva, avessero rinunciato all'idea di distruggere quella piccola sì, ma poderosa nave che aveva inflitto loro quella sanguinosa sconfitta. Altre cinque o sei miglia erano state guadagnate, senza che alcun nuovo avvenimento fosse accaduto, quando Yanez scorse, sotto le foreste, scintillare dei punti luminosi che apparivano e scomparivano con grande rapidità.
Pareva che degli uomini muniti di torcie corressero disperatamente fra gli alberi, scomparendo subito in mezzo ai cespugli. Poi dei sibili si udivano in varie direzioni che non dovevano essere mandati da serpenti.
– Sono segnali – disse il meticcio, prevenendo la domanda che Yanez stava per rivolgergli.
– Non ne dubitavo – rispose il portoghese, che ricominciava ad inquietarsi. – Che cosa ci prepareranno ora?
– Una sorpresa non migliore dell'altra di certo, signore. Ci vogliono impedire a qualunque costo di giungere all'imbarcadero.
– Comincio ad averne le tasche piene – disse Yanez. – Almeno si mostrassero e ci attaccassero risolutamente.
– Sanno che siamo forti e che non manchiamo di artiglierie, signore, ed un assalto diretto non lo tenteranno.
– Eppure sento per istinto che quei bricconi preparano qualche cosa contro di noi.
– Non dico il contrario e vi consiglierei di non far disarmare le pompe.
– Temi che ci mandino addosso un'altra flottiglia di noci di cocco?
Invece di rispondere, il meticcio si era vivamente alzato, dando un colpo di barra al timone.
– Siamo al passo più stretto del fiume, signor Yanez – disse poi. – Prudenza o daremo dentro a qualche banco.
Il fiume, che fino allora si era mantenuto abbastanza largo, permettendo alla Marianna di manovrare liberamente, si era repentinamente ristretto in modo che i rami degli alberi s'incrociavano.
L'oscurità era diventata ad un tratto così profonda che Yanez non riusciva più a discernere le sponde.
– Bel luogo per tentare un abbordaggio – mormorò.
– E anche per fucilarci per bene, signore – aggiunse Tangusa.
– Punta le spingarde verso le due rive, Sambigliong! – gridò Yanez.
Gli uomini addetti al servizio delle grosse bocche da fuoco avevano appena eseguito quell'ordine, quando la Marianna, che da alcuni minuti aveva accelerata la corsa essendo la brezza diventata più fresca, urtò bruscamente contro un ostacolo che la fece deviare verso babordo.
– Che cosa è avvenuto? – gridò Yanez. – Ci siamo arenati?
– Ma no, capitano – rispose Sambigliong che si era slanciato verso prora. – La Marianna galleggia!
Il meticcio con un colpo di barra rimise il legno sulla rotta primiera, quando avvenne un secondo urto e la Marianna tornò a deviare indietreggiando di alcuni passi.
– Come va questa faccenda? – gridò Yanez, raggiungendo Sambigliong. – Vi è una linea di scoglietti dinanzi a noi?
– Non ne vedo, capitano.
– Eppure non possiamo passare. Fa' calare in acqua qualcuno.
Un malese gettò una fune e dopo averla assicurata, si lasciò scivolare, mentre il veliero per la terza volta tornava a indietreggiare.
Yanez e Sambigliong, curvi sulla murata prodiera, guardavano ansiosamente il malese che si era gettato a nuoto per cercare l'ostacolo che impediva al legno di avanzare.
– Scogliere? – chiese Yanez.
– No, capitano – rispose il marinaio, che continuava a inoltrarsi tuffandosi di quando in quando, senza preoccuparsi dei gaviali che potevano mozzargli le gambe.
– Che cos'è dunque?
– Ah! Signore! Hanno tesa una catena sott'acqua e non possiamo avanzare se non la taglieremo.
Nel medesimo istante una voce poderosa s'alzò fra gli alberi della riva sinistra, gridando in un inglese molto gutturale:
– Arrendetevi, Tigri di Mompracem, o noi vi stermineremo tutti!
IN MEZZO AL FUOCO
Qualunque altro si sarebbe non poco impressionato, udendo quella minaccia, lanciata da un uomo appartenente ad una razza così sanguinaria e coraggiosissima e nell'apprendere nel medesimo tempo che la via per sfuggire quel grave pericolo gli era stata tagliata.
Yanez, invece, aveva ascoltato il malese ed il nemico che lo minacciava d'esterminio, senza dare alcun segno, né di collera, né di scoraggiamento.
Ne aveva provate ben altre nella sua vita per perdersi d'animo.
– Ah! – aveva semplicemente esclamato. – Ci vogliono sterminare! Meno male che sono stati così gentili di avvertirci. E poi li chiamano selvaggi!
Dopo quelle parole, che dimostravano una perfetta serenità d'animo, si era rivolto al malese che si trovava in acqua, chiedendogli:
– È solida la catena?
– È d'àncora grossa, capitano – aveva risposto il marinaio.
– Dove l'avranno trovata quei selvaggi? Che da un momento all'altro abbiano imparato a fabbricarle! Quel pellegrino ha insegnato loro a compiere delle vere meraviglie!
– Capitano Yanez – disse Sambigliong. – La Marianna va di traverso. Devo far gettare un ancorotto?
Il portoghese si volse guardando il veliero, il quale, non potendo avanzare, non obbediva più all'azione del timone e cominciava a virare sul tribordo, indietreggiando lentamente.
– Cala un ancorotto da pennello e prepara la scialuppa – disse al mastro. – È necessario tagliare quella catena.
Il ferro fu rapidamente affondato, filando pochi metri di catena, non essendo molto profondo il fiume in quel luogo e la Marianna arrestò la sua marcia indietro, raddrizzandosi quasi subito colla prora alla corrente.
La medesima voce di prima, più minacciosa, s'alzò fra le piante, ripetendo l'intimazione:
– Arrendetevi o vi stermineremo tutti.
– Per Giove! – esclamò Yanez. – Mi ero scordato di rispondere a quell'uomo!
Fece colle mani portavoce, gridando:
– Se vuoi la mia nave vieni a prenderla: ti avverto solo che abbiamo abbondanza di polvere e di piombo. Ed ora non seccarmi più, che ho altro da fare in questo momento.
– Il pellegrino della Mecca ti punirà.
– Va' ad appiccarti insieme al tuo Maometto. Ti troverai bene in sua compagnia. Sambigliong, fa' calare la scialuppa e manda sei uomini a tagliare la catena; attenzione agli artiglieri di babordo e proteggete chi scende.
La più piccola delle due imbarcazioni fu messa rapidamente in acqua, e sei malesi, armati di pesanti scuri e di fucili, si calarono dentro.
– Picchiate sodo e fate presto soprattutto! – gridò loro il portoghese.
Poi salì sulla murata, aggrappandosi ad un paterazzo e guardò attentamente verso la riva, su cui era echeggiata la voce del misterioso pellegrino.
Attraverso la foresta scorse ancora passare dei punti luminosi, che si allontanavano con fantastica velocità.
– Che cosa preparano quei furfanti? – si chiese, non senza un po' di preoccupazione.
– Signor Yanez – disse Tangusa, che aveva lasciato il timone, essendo diventato pel momento inutile. – Ho scorto dei fuochi anche sulla riva destra.
– Che siano dayaki che radunano delle altre noci di cocco? È un bel po' che vediamo passare quelle luci.
Ad un tratto mandò una sorda imprecazione. Trenta o quaranta lingue di fuoco si erano improvvisamente alzate fra i cespugli delle due rive, rompendo l'oscurità fittissima che regnava sotto gli alberi.
– Mettono fuoco alle foreste! – gridò. – Miserabili!
– E quel che è peggio, signore – aggiunse il meticcio, con voce alterata dallo spavento – tutti questi alberi sono avvolti da giunta wan (Urceola elastica) satura di caucciù.
– Pra-la! – gridò il portoghese, rivolgendosi all'uomo che comandava la scialuppa. – Potete resistere da soli?
– Abbiamo le nostre carabine, signor Yanez.
– Affrettatevi più che potete, poi raggiungeteci. Sambigliong, fa' salpare l'ancorotto.
– Ridiscendiamo il fiume, capitano? – chiese il mastro.
– Ed in fretta, mio caro. Non ho alcun desiderio di farmi arrostire vivo. Lesti, tigrotti. Tutto alla banda il timone, Tangusa!
In un baleno il ferro fu strappato dal fondo e la Marianna, che aveva in quel momento il vento a mezza-nave, virò rapidamente di bordo, lasciandosi trasportare dalla corrente.
Una dozzina d'uomini, muniti di lunghi remi, aiutavano l'azione del timone, che diventava poco efficace avendo l'acqua a seconda.
I sei marinai della scialuppa, quantunque privi della protezione dei loro compagni, non avevano abbandonata la catena e continuavano a tempestarla di colpi furiosi non accennando i grossi anelli a cedere tanto facilmente.
Intanto l'incendio avvampava con rapidità spaventevole e nuove lingue di fuoco s'alzavano qua e là per propagarlo su una più vasta estensione.
Le fiamme trovavano un ottimo elemento nella giunta wan, quelle grosse piante rampicanti dalle quali i malesi traggono una sostanza vischiosa, di cui si servono per prendere gli uccelli, nei gambir, nei colossali alberi della canfora e nelle piante gommifere che sono numerose in tutte le foreste del Borneo.
Tutte quelle piante crepitavano, come se contenessero nelle loro fibre delle cartuccie di fucile o detonavano e dai loro squarci lasciavano colare la linfa più o meno satura di resina, la quale a sua volta prendeva fuoco allargando sempre più l'incendio.
Una luce intensa era successa alle tenebre, mentre miriadi di scintille s'alzavano a grande altezza volteggiando fra turbini di fumo.
La Marianna scendeva precipitosamente, aiutata dai remi per sottrarsi a quell'incendio, che si propagava ormai anche alle piante prossime alle due rive, ma non aveva percorso che cinquecento passi, quando un urto avvenne a prora, che si ripercosse in tutte le parti della carena.
Urla furiose erano scoppiate sul castello di prora, dove eransi radunati la maggior parte dei malesi, temendo che da un momento all'altro comparissero le scialuppe ed i pontoni dei dayaki.
– Siamo presi!
– Ci hanno tagliata la ritirata!
Yanez era accorso, immaginandosi che cos'era accaduto.
– Un'altra catena? – chiese, respingendo i suoi uomini per farsi largo.
– Sì, capitano.
– Allora l'hanno tesa pochi minuti fa.
– Così deve essere – disse Tangusa, che appariva esterrefatto. – Signor Yanez, non ci rimane che di prendere terra mentre l'incendio non è ancora attaccato dovunque.
– Lasciare la Marianna! – esclamò il portoghese. – Oh mai! Sarebbe la fine di tutti, anche di Tremal-Naik e di Darma.
– Devo mettere in acqua l'altra scialuppa? – chiese Sambigliong.
Yanez non rispose. Ritto sulla prora, colle mani strette sulla scotta della trinchettina, la sigaretta spenta e compressa fra le labbra, guardava l'incendio che s'allargava sempre più.
Anche verso il basso corso del fiume delle vampe cominciavano ad alzarsi. Fra poco la Marianna doveva trovarsi in mezzo ad un mare di fuoco e, siccome gli alberi quasi riunivano i loro rami sopra il fiume, l'equipaggio correva il pericolo di vedersi rovesciare addosso una pioggia di tizzoni ardenti e di cenere calda.
– Capitano – ripeté Sambigliong. – Devo mettere in acqua la seconda scialuppa? Noi corriamo il pericolo di perdere la Marianna, se non fuggiamo.
– Fuggire! E dove? – chiese Yanez, con voce pacata. – Abbiamo il fuoco dinanzi, di dietro e anche spezzando le catene la nostra situazione non migliorerebbe.
– Ci lascieremo dunque arrostire, signor Yanez?
– Non siamo ancora cucinati – rispose il portoghese, colla sua calma meravigliosa. – Le Tigri di Mompracem sono costolette un po' dure.
Poi, cambiando bruscamente tono, gridò:
– Stendete la tela sul ponte, abbassate le vele sui ferri di sostegno. In acqua le maniche delle pompe e affondate le àncore. Gli artiglieri a posto!
L'equipaggio che attendeva con angoscia qualche decisione, in pochi momenti issò i ferri di sostegno e ammainò le due immense vele.
La Marianna, come tutti gli yachts che intraprendono dei viaggi nelle regioni estremamente calde, era fornita d'una tela per riparare il ponte dagli ardenti raggi solari e dei relativi sostegni.
In un baleno fu stesa all'altezza delle bome e le due vele vi furono gettate sopra, lasciando cadere i margini lungo le murate, in modo da coprire interamente la piccola nave.
– Manovrate le pompe e inaffiate – comandò Yanez, quando l'ordine fu eseguito.
Riaccese poscia la sigaretta e si spinse verso la prora, mentre torrenti d'acqua venivano lanciati contro la tela inzuppandola completamente.
Gli uomini incaricati di spezzare la catena, tornavano in quel momento a bordo, arrancando disperatamente. Sopra di loro fiammeggiavano i rami degli alberi, coprendoli di scintille.
– Giungono a tempo – mormorò il portoghese. – Che spettacolo magnifico! Che peccato non poterlo vedere un po' da lontano! Lo ammirerei meglio!
Una vera tromba di fuoco si rovesciava sul fiume. Gli alberi delle due rive, composti per la maggior parte di piante gommifere, ardevano come zolfanelli, lanciando dovunque mostruose lingue di fuoco e turbini di fumo denso e pesante.
I tronchi, carbonizzati, rovinavano al suolo, facendo crollare le piante vicine a cui erano collegati da piante parassite e gambir e spandendo torrenti di caucciù ardente.
Alberi della canfora enormi, casuarine, sagù, arenghe saccarifere, dammar saturi di resina, banani, cocchi e durion fiammeggiavano come torcie colossali, contorcendosi e tuonando; poi s'abbattevano, rovesciandosi nel fiume con fischi assordanti.
L'aria diventava irrespirabile e le tende e le vele che coprivano la Marianna fumavano e si contraevano, non ostante i continui getti d'acqua che le inaffiavano.
Il calore era diventato così intenso che i tigrotti di Mompracem, malgrado la protezione delle vele, si sentivano mancare.
Immense nuvole di fumo e nembi di scintille che il vento spingeva, si cacciavano entro lo spazio racchiuso fra il ponte e le tele, avvolgendo gli uomini terrorizzati, mentre dall'alto cadevano senza interruzione rami fiammeggianti, che le pompe penavano a spegnere, quantunque energicamente manovrate.
Una cupola di fuoco avvolgeva ogni cosa: la nave, le rive ed il fiume. I malesi ed i dayaki che formavano l'equipaggio, guardavano con ispavento quelle cortine fiammeggianti, che non accennavano a scemare, chiedendosi angosciosamente se stava per suonare per loro l'ultima ora.
Solo Yanez, l'uomo eternamente impassibile, pareva che non si occupasse affatto del tremendo pericolo che minacciava la Marianna.
Seduto sull'affusto di uno dei due pezzi da caccia, fumava placidamente la sua sigaretta, come se fosse insensibile a quel calore spaventevole che cucinava i suoi uomini.
– Signore! – gridò il meticcio, accorrendo presso di lui, col viso smorto e gli occhi dilatati pel terrore. – Noi ci arrostiamo.
Yanez alzò le spalle.
– Non posso fare nulla io – rispose poi, colla sua calma abituale.
– L'aria diventa irrespirabile.
– Accontentati di quella poca che scende nei tuoi polmoni.
– Fuggiamo, signore. I nostri uomini hanno spezzata la catena che ci chiudeva il passo verso l'alto corso.
– Lassù non farà più fresco di qui, mio caro.
– Dovremo perire così?
– Se così è scritto – rispose Yanez, senza togliersi dalle labbra la sigaretta.
Si rovesciò sull'affusto come se fosse su una comoda poltrona, aggiungendo dopo qualche istante:
– Bah! Aspettiamo!
Ad un tratto alcune scariche di fucili rimbombarono sul fiume, accompagnate da clamori assordanti.
Yanez si era alzato.
– Come diventano noiosi questi dayaki! – esclamò.
Attraversò il ponte, senza curarsi dei torrenti d'acqua che gli cadevano addosso e, alzato un lembo dell'immensa tenda, guardò verso la riva.
Attraverso le cortine di fuoco scorse degli uomini che parevano demoni, correre fra le ondate di fumo, sparando contro il veliero. Pareva che quei terribili selvaggi fossero insensibili, come le salamandre, perché osavano, quantunque quasi nudi, cacciarsi fra le fiamme per sparare più da vicino.
Yanez si era fatto torvo in viso. Una bella collera bianca si manifestava in quell'uomo, che pareva avesse dell'acqua ghiacciata nelle vene e che potesse gareggiare coi più flemmatici anglo-sassoni delle razze nordiche.
– Ah! Miserabili! – gridò. – Nemmeno in mezzo al fuoco volete lasciarci un momento di tregua! Sambigliong, tigrotti di Mompracem, bordate senza misericordia quei demoni!
Fu un po' rialzata la tenda, le quattro spingarde furono riunite sul tribordo, e mentre l'incendio avvampava più che mai, divorando gli enormi vegetali, la mitraglia cominciò a fischiare attraverso le cortine di fuoco, tempestando i selvaggi con uragani di chiodi e di frammenti di ferro.
Bastarono sette od otto scariche per decidere quei bricconi a mostrare i talloni. Parecchi erano caduti e arrostivano in mezzo alle erbe ed i cespugli crepitanti, continuando il fuoco a dilagarsi.
– Potesse essere caduto anche il pellegrino! – mormorò Yanez. – Quel furbone si sarà pur troppo ben guardato dall'esporsi ai nostri tiri.
Chiamò il malese che aveva guidata la scialuppa, che era tornato a bordo nel momento in cui gli alberi costeggiami il fiume prendevano pure fuoco.
– L'hai spezzata la catena? – gli chiese.
– Sì, capitano Yanez.
– Sicché il passo è libero.
– Completamente.
– Il fuoco scema verso l'alto corso del fiume, mentre tende ad aumentare verso il basso – mormorò Yanez. – Sarebbe meglio andarcene, prima che quei birboni possano tendere altre catene o che le loro scialuppe giungano qui. Checché debba succedere, partiamo.
La volta di verzura che copriva in quel luogo il fiume, era stata distrutta dall'uragano di fuoco che l'aveva investita, e sulle due rive più non rimanevano in piedi che pochi enormi tronchi di alberi della canfora, semi-carbonizzati e qualche tronco di durion che fiammeggiava ancora come una immensa torcia.
Il fuoco invece avvampava terribile verso ponente, dove le foreste erano fino allora rimaste intatte, ossia dietro la Marianna.
Il pericolo quindi che il veliero s'incendiasse era ormai evitato.
– Approfittiamo – disse Yanez. – L'aria comincia a diventare un po' più respirabile e la brezza è sempre favorevole.
Fece togliere l'immensa tela che grondava acqua, poi fece levare e quindi inferire le vele ai pennoni. Quelle manovre furono compiute rapidamente, fra una vera pioggia di cenere che la brezza avventava contro il veliero, acciecando e facendo tossire gli uomini.
Regnava ancora un caldo infernale sul fiume, essendo le due rive coperte da un altissimo strato di carboni ancora ardenti, tuttavia non vi era più pericolo di morire asfissiati.
Alle quattro del mattino le àncore furono issate e la Marianna riprese la navigazione con notevole velocità, senza essere stata disturbata.
I dayaki, che dovevano aver subite delle perdite crudeli, non si erano più fatti vedere. Forse l'incendio, che aumentava sempre verso ponente, li aveva obbligati ad una precipitosa ritirata.
– Non si scorgono più – disse Yanez al meticcio, che osservava le due rive sulle quali ondeggiavano ancora dense colonne di fumo e nembi di scintille. Se ci lasciassero tranquilli almeno fino a che possiamo raggiungere l'imbarcadero. Che non abbiano capito che noi siamo persone risolute a difendere estremamente la pelle? Dopo le due lezioni ricevute, dovrebbero essersi persuasi che non siamo gallette pei loro denti.
– Hanno capito, signor Yanez, che noi accorriamo in aiuto del mio padrone.
– Eppure nessuno glielo ha detto.
– Io scommetto che lo sapevano, prima ancora del vostro arrivo. Qualche servo ha tradito il segreto od ha uditi gli ordini dati da Tremal-Naik all'uomo che vi fu mandato.
– Che sia così?
– Quel malese che voi avete raccolto e che si offerse come pilota devono averlo mandato essi incontro alla Marianna.
– Per Giove! Non mi ricordavo più di quel furfante! – esclamò Yanez. – Giacché i dayaki ci lasciano un po' di tregua e l'incendio si spegne più in su, potremmo occuparci un po' di lui. Chissà che riusciamo a strappargli qualche preziosa informazione su quel misterioso pellegrino.
– Se parlerà!
– Se si ostinerà a rimaner muto, m'incarico io di fargli passare un brutto quarto d'ora. Vieni, Tangusa.
Raccomandò a Sambigliong di mantenere gli uomini ai loro posti di combattimento, temendo sempre qualche nuova sorpresa da parte di quegli ostinati nemici e scese nel quadro, dove la lampada bruciava ancora.
In una cabina attigua al salotto, su un tettuccio, giaceva il pilota, sempre immerso nel sonno profondo, procuratogli dalle compressioni energiche di Sambigliong.
Un sonno regolare veramente non lo era. Il respiro era leggerissimo, tanto che si avrebbe potuto scambiare il malese per un vero morto, essendo anche la sua tinta diventata quasi grigiastra, come quando gli uomini di colore diventano pallidi.
Yanez, che era stato istruito da Sambigliong, strofinò violentemente le tempie ed il petto dell'addormentato. Poi gli alzò le braccia ripiegandole all'indietro più che poté onde dilatargli i polmoni, eseguendo quel movimento parecchie volte.
Alla nona o alla decima mossa il malese aprì finalmente gli occhi, fissandoli sul portoghese con un lampo di terrore.
– Come stai, amico? – gli chiese Yanez con accento un po' ironico. – Mentre noi combattevamo contro i tuoi alleati, tu dormivi saporitamente. Diventano poltroni i malesi.
Il pilota continuava a guardarlo senza rispondere, passandosi e ripassandosi una mano sulla fronte che s'imperlava di sudore. Pareva che cercasse di riordinare le sue idee e di mano in mano che la memoria gli ritornava, la sua pelle diventava sempre più smorta ed una espressione angosciosa gli si diffondeva sul viso.
– Orsù – disse Yanez. – Quand'è che ci farai udire la tua voce?
– Che cosa è avvenuto, signore? – chiese finalmente Padada. – Non riesco a spiegarmi come io mi sia addormentato di colpo, dopo la stretta datami dal vostro mastro.
– È cosa tanto poco interessante che non vale la pena che io te la spieghi – rispose Yanez. – Sei tu invece che dovresti darmi qualche spiegazione che mi premerebbe.
– Quale?
– Sapere chi è che ti ha mandato verso di noi per far arenare la mia nave sui banchi.
– Vi giuro, signore...
– Lascia andare i giuramenti; già non credo a quelle cose io, mio caro. È inutile che tu ti ostini a negare: ti sei tradito e ti tengo in mia mano. Chi ti ha pagato per rovinare la mia nave? Tu stavi per incendiarla.
– È una vostra supposizione – balbettò il malese.
– Basta – disse Yanez. – Vuoi farmi perdere la pazienza? Voglio sapere chi è quel maledetto pellegrino che ha messo in armi i dayaki e che domanda la testa di Tremal-Naik.
– Voi potete uccidermi, signore, ma non obbligarmi a dire delle cose ch'io ignoro.
– Sicché tu affermi?
– Ch'io non ho mai veduto alcun pellegrino.
– E che anche non hai mai avuto rapporti coi dayaki che mi hanno assalito?
– Non mi sono mai occupato di costoro, signore, ve lo giuro su Vairang kidul (La regina del sud, la divinità protettrice dei cacciatori di nidi di rondine salangane).
«Io stavo seguendo la costa per visitare le caverne, entro le quali le rondini salangane costruiscono i loro nidi, avendo ricevuto l'incarico di fornirne ad un cinese che ne abbisognava, quando un colpo di vento mi trasportò al largo trascinandomi, assieme al canotto, verso ponente. Vi ho incontrati per un caso.»
– Perché sei pallido allora?
– Signore, mi avete sottoposto ad una compressione tale che credevo che mi si volesse strozzare e non mi sono ancora rimesso dall'impressione provata – rispose il pilota.
– Tu menti come un ragazzo – disse Yanez. – Non vuoi confessare? Sta bene: vedremo se resisterai.
– Che cosa volete fare, signore? – chiese il miserabile con voce tremante.
– Tangusa – disse Yanez, volgendosi verso il meticcio. – Lega le mani a questo traditore, poi conducilo in coperta. Se cerca di resistere bruciagli le cervella.
– La mia pistola è carica – rispose l'intendente di Tremal-Naik
Yanez uscì dal quadro e salì sul ponte, mentre il meticcio metteva in esecuzione l'ordine ricevuto, senza che il malese avesse osato ribellarsi.
LE CONFESSIONI DEL PILOTA
La Marianna aveva superata la zona incendiata e navigava in quel momento fra due rive verdeggianti, dove i durion, gli alberi della canfora, i gluga, i sagù, i banani dalle foglie mostruose e le splendide arenghe intrecciavano i loro rami e le loro fronde.
Un fiumicello che si riversava nel Kabatuan, aveva impedito al fuoco di estendersi verso l'alto corso, sicché quelle boscaglie erano state risparmiate.
Una calma assoluta regnava sulle rive, almeno in quel momento. I dayaki non dovevano essersi spinti fino là, perché si vedevano numerosi uccelli acquatici bagnarsi tranquillamente, segno evidente che si tenevano perfettamente sicuri.
Ed infatti le grosse pelargopsis, dall'enorme becco rosso come il corallo, nuotavano lungo le canne, pescando le belle alcede, ed attraversavano il fiume salutando il veliero con un lungo fischio e all'estremità degli alberi, che spingevano i loro rami sulle acque, i ploceus pispigliavano, dondolandosi entro i loro nidi in forma di borsa, mentre sui banchi sonnecchiavano non pochi coccodrilli lunghi cinque o sei metri, coi dorsi rugosi incrostati d'un fitto strato di fango.
– Ecco quelli che s'incaricheranno di sciogliere la lingua a quell'ostinato malese – mormorò Yanez, che aveva fissati gli sguardi sui formidabili rettili. – Che bell'occasione! Sambigliong!
Il mastro fu pronto ad accorrere alla chiamata.
– Fa' gettare un ancorotto.
– Ci fermiamo, capitano Yanez?
– Oh, per pochi minuti solamente e accosta uno di quei banchi più che puoi.
– Volete pescare qualche coccodrillo?
– Vedrai: prepara intanto una solida fune.
Il pilota comparve in quel momento in coperta, colle mani legate dietro al dorso, spinto innanzi dal meticcio che non faceva economia di urti e di minaccie. Il disgraziato era in preda ad un terrore profondo, eppure non pareva disposto a confessare.
– Sambigliong – disse Yanez, quando l'ancorotto fu calato. – Getta un po' di carne salata a quei mostri, tanto da stuzzicare un po' il loro appetito.
La Marianna si era fermata a breve distanza da un banco melmoso, su cui stavano radunati cinque o sei gaviali, fra cui uno mancante della coda, perduta di certo in qualche combattimento.
Si scaldavano al sole, sonnecchiando tranquillamente e anche vedendo accostarsi il veliero non si erano mossi, essendo per loro natura poco diffidenti.
– Destatevi boyo! (Vengono chiamati con tale nome dai malesi) – gridò Sambigliong, gettando verso il banco alcuni enormi pezzi di carne salata.
I gaviali, vedendo cadere quella manna, si erano alzati, poi vi si erano scagliati sopra disputandoseli ferocemente. In un momento non si vide che un ammasso di scaglie e di code poderosamente agitate che picchiavano in tutte le direzioni, poi, messi in appetito da quei pochi bocconi si spinsero verso l'orlo del banco, alzando le loro ampie mascelle, armate di lunghi denti, verso la Marianna, in attesa d'un'altra distribuzione.
– Signor Yanez – disse Sambigliong. – Aspettano qualche cosa di meglio quegli insaziabili ghiottoni.
– Daremo loro un uomo – rispose il portoghese, guardando il pilota che fissava cogli occhi smarriti le gole spalancate dei mostri, come se avesse compreso che quell'uomo era lui.
– Signore – balbettò, accostandosi a Yanez.
– Taci! – gli rispose questi seccamente.
– Che cosa volete fare di me?
– Lo saprai presto. A te, Sambigliong.
Il mastro annodò attorno ai fianchi del disgraziato malese una solida corda, poi alzandolo bruscamente fra le poderose braccia, lo gettò fuori del bordo prima che avesse pensato ad opporre qualsiasi resistenza.
Padada aveva mandato un urlo terribile, credendo di cadere fra le mascelle di quei formidabili rettili, invece rimase sospeso fra l'acqua e il bordo.
I gaviali, vedendo quella preda umana, con un balzo si erano precipitati in acqua, nuotando velocemente verso la Marianna.
Il pilota, pazzo dal terrore, si dibatteva disperatamente girando e rigirando su se stesso e mandando urla strozzate. Un'angoscia indescrivibile traspariva dai suoi lineamenti spaventosamente alterati.
– Aiuto! Aiuto! Grazia! Salvatemi... – gridava, facendo sforzi supremi per spezzare le corde che gli legavano le mani.
Yanez, in piedi sul capo di banda, aggrappato alla grisella di babordo del trinchetto, lo guardava impassibilmente, mentre i gaviali tentavano di afferrare la preda, slanciandosi più che mezzi fuori dell'acqua, con poderosi colpi di coda.
– Se Padada non muore di spavento è un vero miracolo – disse Tangusa.
– Hanno la pelle dura i malesi – rispose Yanez. – Lasciamolo gridare un po'.
Il povero uomo gridava a squarciagola, peggio d'una scimmia rossa, urlando sempre:
– Aiuto! Grazia! Mi raggiungono... grazia, signore!
Yanez fece cenno a Sambigliong di ritirare un po' la fune, essendo un gaviale riuscito a toccare coll'estremità del muso la preda, poi, volgendosi verso il pilota che continuava a dibattersi, raggrinzando più che poteva le gambe:
– Vuoi che ti lasci cadere nelle gole dei boyo o che ti faccia issare? La tua vita sta in mano tua.
– No... signore... issatemi... mi toccano... non posso più.
– Parlerai?
– Sì, parlerò... vi dirò tutto... tutto...
– Giuralo su Vairang kidul, giacché è la protettrice dei cacciatori di nidi di salangane.
– Lo giuro... signore...
– Ti avverto prima che, se quando ti avremo tirato su, ti rifiuterai di confessarmi ogni cosa, ti getterò senz'altro fra le mascelle del più grosso gaviale.
– Non ne ho alcun desiderio e...
– Continua – disse Yanez.
– Quando avrò confessato tutto non mi ucciderete egualmente?
– Non so che cosa farne della tua pelle. Rimarrai prigioniero fino al nostro ritorno, poi andrai a farti appiccare dove vorrai. Seguimi nel quadro e anche tu, Tangusa.
Il malese a cui non pareva ancora vero di trovarsi vivo e che batteva i denti pel terrore, che non gli era completamente passato, seguì, senza farsi pregare, il portoghese ed il meticcio.
– Ed ora ascoltiamo la tua interessante confessione – disse Yanez, sdraiandosi su un divanetto e riaccendendo la sigaretta che aveva lasciata spegnere, per meglio assistere ai salti dei gaviali ed ai contorcimenti del pilota. – Bada che tu hai giurato e che io non sono uomo da lasciarmi giocare, né prendere a gabbo.
– Vi dirò tutto, padrone.
– Dunque sono stati i dayaki a mandarti incontro alla Marianna.
– Non posso negarlo – rispose il malese.
– È stato il pellegrino?
– No, signore; io non ho mai parlato con quell'uomo.
– Chi è?
– Ma... sarebbe un po' difficile a dirlo, né saprei dirvi da dove sia piombato costui. È giunto qui alcune settimane or sono, con molte casse piene d'armi e ben fornito di denaro, di ghinee e di fiorini olandesi.
– Solo?
– Lo credo.
– E che cosa ha fatto poi?
– Si è presentato ai capi tribù, i quali lo ricevettero con deferenza, avendo in testa il turbante verde dei pellegrini che hanno visitato il sepolcro del Profeta. Che cosa poi abbia narrato loro e promesso, io lo ignoro. So solo che pochi giorni dopo i dayaki erano tutti in armi e che chiedevano la testa di Tremal-Naik, che fino allora era stato il loro protettore.
– Ha regalato a quei fanatici imbecilli le armi?
– E anche molto denaro.
– È vero che un giorno una nave inglese è giunta alla foce del Kabatuan e che quel pellegrino si è abboccato col comandante? – chiese Yanez.
– Sì, signore, anzi aggiungerò che durante la notte l'equipaggio sbarcò altre casse piene d'armi.
– Non sai a che razza appartiene quell'uomo?
– No, signore: quello che vi posso dire è che la sua pelle è oscura assai e che parla il bornese con difficoltà.
– Che mistero impenetrabile! – mormorò Yanez. – Mi romperò il capo senza riuscire a schiarirlo!
Stette un momento silenzioso, come se si fosse immerso in un profondo pensiero, poi chiese:
– Come avevano fatto a sapere che la Marianna giungeva in soccorso di Tremal-Naik?
– Pare che sia stato un servo dell'indiano ad informare i capi dayaki ed il pellegrino.
– Quale incarico ti avevano dato?
Il malese ebbe una breve esitazione, poi rispose:
– Di arenare la vostra nave, innanzi tutto.
– Non mi ero dunque ingannato dubitando di te. E poi?
– Lasciate che non confessi il resto.
– Parla liberamente: ti ho promesso di lasciarti la vita ed io non manco alla mia parola.
– Di approfittare dell'assalto dei dayaki per incendiarvi la nave.
– Grazie della tua franchezza – disse Yanez, ridendo. – Sicché avevano deciso la nostra morte?
– Sì, signore. Pare che il pellegrino abbia avuto qualche motivo di dolersi delle Tigri di Mompracem.
– Anche di noi! – esclamò Yanez, che cadeva di sorpresa in sorpresa. – Chi può essere costui? Noi non abbiamo mai avuto a che fare con dei fanatici mussulmani.
– Non so che cosa dirvi, signore.
– Se è vero quello che ci hai narrato, quel miserabile ci insidierà dovunque?
– Non vi lascierà tranquilli, badate a me e farà di tutto per massacrarvi dal primo all'ultimo – disse il pilota. – Io so che ha fatto giurare ai capi dayaki di non risparmiarvi.
– E noi faremo il possibile per ucciderne più che potremo, è vero, Tangusa?
– Sì, signor Yanez – rispose il meticcio.
– Padada – disse il portoghese. – Sai tu che la fattoria di Pangutaran sia già assediata?
– Non lo credo, signore, avendo il pellegrino radunate quasi tutte le sue forze per schiacciare prima voi.
– Dunque la via che va dall'imbarcadero al kampong di Tremal-Naik può essere libera.
– O almeno poco guardata.
– Quanto ti ha dato il pellegrino perché tu mandassi la mia nave sui banchi e me la incendiassi?
– Cinquanta fiorini e due carabine.
– Io te ne darò duecento se tu mi guidi al kampong.
– Accetto, signore – rispose il malese. – E avrei accettato anche senza alcun compenso, dovendovi la vita.
– Siamo ancora lontani dall'imbarcadero?
– Fra un paio d'ore vi giungeremo, è vero? – disse Tangusa guardando il malese.
– Fors'anche prima.
Yanez sciolse le corde che stringevano le mani del prigioniero e uscì, dicendo:
– Saliamo in coperta.
Sul fiume regnava ancora una gran calma e le acque si svolgevano tranquille, fra due rive coperte di superbe felci arborescenti, di belle piante di cycas, di pandanus, di casuarine e di palme, che spiegavano a ventaglio le loro gigantesche foglie piumate.
Fra i rotangs che cadevano in festoni lungo i tronchi degli alberi, vi erano delle siamang, quelle orride scimmie nere che hanno la fronte bassissima, gli occhi infossati, la bocca enorme, il naso piatto e sotto la gola un lungo gozzo che pende come una vescica sgonfia, le quali saltellavano di ramo in ramo, senza dimostrare alcuna preoccupazione. In acqua invece nuotavano fra le erbe, numerose bewah, quelle gigantesche lucertole semiacquatiche che raggiungono sovente i due metri di lunghezza. Dei dayaki nessun indizio. Se fossero stati vicini, i quadrumani non avrebbero mostrata tanta tranquillità, essendo in generale estremamente diffidenti.
La Marianna, che s'avanzava assai lentamente aiutata anche dai remi, non potendo il vento soffiare troppo liberamente fra quelle due immense muraglie di verdura, continuò a salire indisturbata fino al mezzodì, poi si arrestò dinanzi ad una specie di piattaforma che si avanzava nell'acqua sorretta da alcune file di pali.
– L'imbarcadero del kampong di Pangutaran – avevano esclamato simultaneamente il pilota e Tangusa.
– Giù le àncore e accosta – aveva comandato subito il portoghese. – Alle spingarde gli artiglieri.
Due ancorotti furono affondati ed il veliero, spinto dalla corrente, andò ad appoggiarsi all'imbarcadero ai cui pali fu legato.
Yanez era salito sulla murata, per accertarsi meglio che nessun dayako si trovava imboscato su quella riva.
Che quei crudeli selvaggi vi fossero passati non vi era dubbio, potendosi scorgere a breve distanza dall'imbarcadero gli avanzi di parecchie capanne distrutte dal fuoco ed una vasta tettoia semiscoperchiata, coi pilastri anneriti dal fumo e dalle fiamme.
– Pare che non vi sia nessuno qui – disse Yanez, volgendosi verso il meticcio che si era pure rizzato sulla murata.
– Non si aspettavano che noi giungessimo fino qui – rispose Tangusa. – Erano troppo sicuri di poterci fermare e massacrare alla foce del fiume.
– Quanto distiamo dal kampong?
– Un paio d'ore, signor Yanez.
– Facendo tuonare i cannoni da caccia, Tremal-Naik potrebbe udirci?
– È probabile. Contate di partire subito?
– Sarebbe imprudenza. Aspettiamo la notte; passeremo più facilmente e forse senza essere veduti.
– Quanti uomini prenderemo?
– Non più di venti. Mi preme che la Marianna non rimanga troppo sprovvista. Se la perdessimo sarebbe finita, per tutti anche per Tremal-Naik e per Darma. Frattanto noi faremo una breve esplorazione nei dintorni, per accertarci che non ci si tenda qualche agguato. Questa tranquillità non mi rassicura affatto.
Fece mettere in batteria le spingarde ed i pezzi, volgendoli verso l'imbarcadero, rizzando delle barricate formate con barili pieni di ferraccio, onde meglio riparare gli artiglieri, quindi comandò di ammainare le vele sul ponte, senza levarle dai pennoni onde la nave fosse pronta a salpare in pochi minuti.
Terminati quei preparativi, Yanez, il meticcio ed il pilota, scortati da quattro malesi dell'equipaggio, armati fino ai denti, scesero sull'imbarcadero per fare una ricognizione nei dintorni, prima di avventurarsi col grosso sotto le folte foreste che si estendevano fra la riva del fiume ed il kampong di Pangutaran.
LA CARICA DEGLI ELEFANTI
Una piccola radura, malamente dissodata, scorgendosi ancora i tronchi degli alberi spuntare dal suolo, si estendeva dinanzi all'imbarcadero e dietro agli avanzi di capanne e di tettoie risparmiate dall'incendio.
Al di là cominciava la grande e fitta foresta, composta per la maggior parte d'immense felci arboree, di cycas, di durion e di casuarine, ed ingombra di rotangs di lunghezza smisurata che formavano delle vere reti.
Nessun rumore turbava il silenzio, che regnava sotto quei maestosi alberi. Solo, di quando in quando, fra il fogliame udivasi un debole grido lanciato da qualche geh-ko, la lucertola cantatrice, od il pispiglio di qualche chalcostetha, quei piccolissimi uccelli dai colori brillanti a riflessi metallici che, in quelle isole malesi, tengono il posto dei tronchilchi americani.
Yanez ed i suoi uomini, dopo essere rimasti qualche tempo in ascolto, un po' rassicurati da quella calma e dal contegno pacifico d'una coppia di scimmie buto sopra un banano, dopo d'aver fatto un giro intorno alle capanne, si inoltrarono verso la foresta, esplorandone i margini per una larghezza d'un mezzo miglio, senza trovare alcuna traccia dei loro implacabili nemici.
– Pare impossibile che siano scomparsi – disse Yanez, a cui riusciva inesplicabile quell'improvvisa tregua dopo tanto accanimento. – Che abbiano rinunciato a tormentarci, dopo le batoste che hanno preso?
– Hum! – fece il pilota. – Se il pellegrino aveva giurato la vostra perdita, ritengo che farà il possibile per avere le vostre teste.
– Mettici anche la tua nel numero – disse il portoghese. – Torniamo a bordo e aspettiamo la notte.
Il ritorno lo compirono senza essere stati molestati, confermandosi vieppiù nella supposizione che i dayaki non fossero ancora giunti in quei dintorni.
Appena calato il sole, Yanez fece subito i preparativi della partenza. Vi erano ancora a bordo trentasei uomini, compresi i feriti.
Ne scelse quindici, non volendo indebolire troppo l'equipaggio il quale poteva, durante la sua assenza, venire assalito, e verso le nove, dopo d'aver raccomandato a Sambigliong la più attiva sorveglianza onde non si facesse sorprendere, ridiscendeva a terra con Tangusa, il pilota e la scorta.
Erano tutti formidabilmente armati, con carabine indiane di lungo tiro e di parang, quelle terribili sciabole che con un solo colpo decapitano un uomo e ampiamente provvisti di munizioni, ignorando se Tremal-Naik ne avesse tante da poter reggere anche ad un assedio.
– Avanti e sopratutto fate meno rumore che sia possibile – disse Yanez, nel momento in cui si cacciavano sotto i boschi. – Noi non siamo ancora sicuri di trovare la via sgombra.
Si volse indietro per dare un ultimo sguardo al veliero, la cui massa spiccava vivamente sulle acque del fiume, semiconfusa fra i vegetali che crescevano sulla riva e senza sapere il perché, provò una stretta al cuore.
– Si direbbe che ho un brutto presentimento – mormorò con inquietudine.
– Che lo perda?
Scacciò l'importuno pensiero e si mise alla testa della scorta, preceduto di pochi passi dal meticcio e dal pilota, i soli che potessero orientarsi in mezzo a quel caos di enormi vegetali e fra le reti immense formate dai nepentes, dai gomut e dai rotangs.
Come al mattino un silenzio profondo regnava sotto quella infinita volta di verzura, come se quella foresta fosse assolutamente priva di animali feroci e di selvaggina. Persino gli uccelli notturni, quei grossi pipistrelli pelosi, che sono così comuni nelle isole malesi, mancavano. Solo le lucertole cantanti, che sono per lo più notturne, facevano udire di tratto in tratto il loro lieve grido stridente.
Essendo il cielo coperto, un'afa pesante regnava sotto le immense foglie, incrociantisi strettamente a trenta o quaranta metri dal suolo.
– Si direbbe che minaccia un uragano – disse Yanez che respirava con grande fatica.
– E scoppierà presto, signore – rispose il meticcio. – Ho veduto il sole tramontare fra una nuvola nerastra e giungeremo appena a tempo al kampong.
– Se nessuno ci arresterà.
– Finora, signore, i dayaki non si sono mostrati.
– Purché non li troviamo presso il kampong. Speriamo che abbiano levato l'assedio.
– Non saranno tanti da opporre una seria resistenza, almeno pel momento. Quelli che ci hanno aspettati alla foce del fiume forse non sono ancora tornati.
– Se tardassero solo ventiquattro ore, non li temerei più – rispose Yanez. – La Marianna, con equipaggio rinforzato, diverrebbe imprendibile. Avrà molti difensori Tremal-Naik?
– Suppongo che abbia potuto raccogliere una ventina di malesi, signor Yanez.
– Avremo così un piccolo esercito che darà da fare a quel maledetto pellegrino. Affrettiamo il passo e cerchiamo di giungere al kampong prima che l'alba sorga.
La foresta non permetteva però che si avanzassero così rapidamente come avrebbero desiderato, essendo caduti in mezzo ad una antica piantagione di pepe che avvolgeva gli alberi in una rete assolutamente inestricabile.
Le grosse piante non erano riuscite a soffocare i sarmenti altissimi i quali, ripiegandosi verso il suolo e collegandosi coi rotangs ed i calamus o avvolgendosi intorno alle mostruose radici uscite dal suolo per mancanza di spazio, formavano un intrecciamento colossale che opponeva una solida resistenza.
– Mano ai parang – disse Yanez, vedendo che le due guide non riuscivano a passare.
– Faremo rumore – osservò il pilota.
– Non ho già alcuna voglia di tornarmene indietro.
– I dayaki possono udirci, signore.
– Se ci assalgono li riceveremo come si meritano. Affrettiamoci.
A colpi di sciabola riuscirono ad aprirsi un varco e sempre sciabolando a destra ed a manca continuarono ad inoltrarsi nell'interminabile foresta.
Marciavano da un'ora, lottando ostinatamente contro le piante, quando il pilota s'arrestò bruscamente, dicendo:
– Fermi tutti.
– I dayaki? – chiese sottovoce Yanez, che lo aveva subito raggiunto.
– Non lo so, signore.
– Hai udito qualche cosa?
– Dei rami scricchiolare dinanzi a noi.
– Andiamo a vedere, Tangusa, e voi tutti rimanete qui e non fate fuoco se io non vi do il segnale.
Si gettò a terra trovandosi dinanzi ad un caos di radici e di sarmenti e si mise a strisciare verso il luogo dove il malese asseriva d'aver udito i rami scricchiolare.
Il meticcio gli si era messo dietro cercando di non far rumore.
Percorsero così una cinquantina di metri e s'arrestarono sotto le enormi corolle d'un fiore mostruoso, un crubul che aveva una circonferenza di oltre tre metri, e che tramandava un odore poco piacevole.
Essendovi intorno a quel fiore un po' di spazio libero, era facile scoprire degli uomini che si avanzassero attraverso la foresta.
– Padada non si era ingannato – disse Yanez, dopo essere rimasto qualche po' in ascolto.
– Sì, qualcuno si avvicina – confermò il meticcio.
– E questo cos'è? – chiese a un tratto Yanez.
In lontananza si udì in quel momento un rombo strano che pareva prodotto dall'avanzarsi di qualche furgone e d'un treno ferroviario.
– Non è il tuono – disse il portoghese.
– Non lampeggia ancora – disse Tangusa.
– Si direbbe che un fiume ha rotto gli argini e straripa.
– Non è caduta ancora una goccia d'acqua e poi il Kabatuan è lontano.
– Che cosa sarà?
– E si approssima rapidamente, signore.
– Verso di noi?
– Sì.
– Taci!
Appoggiò un orecchio al suolo ed ascoltò nuovamente, trattenendo il respiro.
La terra trasmetteva nettamente quel rombo inesplicabile che pareva prodotto dal rapido avanzarsi di masse enormi.
– Non comprendo assolutamente nulla – disse finalmente Yanez, rialzandosi. – È meglio che ci ripieghiamo verso la scorta; chissà che il pilota non ci spieghi questo mistero.
Sgusciarono sotto i giganteschi petali del crubul e rifecero il cammino percorso, scivolando fra gli infiniti sarmenti.
Quando raggiunsero il luogo ove avevano lasciati i loro uomini, s'avvidero che anche la scorta era in preda ad una viva agitazione udendosi anche là quel fragore. Solo Padada pareva tranquillo.
– Da che cosa proviene questo baccano? – gli chiese Yanez.
– È una colonna di elefanti che fugge dinanzi a qualche pericolo – rispose il pilota. – Saranno certamente moltissimi.
– Degli elefanti! E chi può aver spaventato quei colossi?
– Degli uomini, io credo.
– Che i dayaki si avanzino da ponente? È di là che il fragore viene.
– È quello che pensavo anch'io.
– Che cosa mi consigli di fare?
– Di allontanarci al più presto.
– Non incontreremo gli elefanti sulla nostra via?
– È probabile, ma basterà una scarica per farli deviare. Hanno una paura incredibile quei colossi degli spari, non essendovi abituati.
– Avanti dunque – comandò il portoghese, con voce risoluta. – Dobbiamo giungere al kampong prima che vi arrivino i dayaki.
Si rimisero frettolosamente in cammino sciabolando i rotangs ed i calamus, mentre il fragore aumentava rapidamente d'intensità.
Il pilota doveva aver indovinato giusto. Fra il fracasso assordante prodotto dall'incessante crollare delle piante, abbattute dai poderosi ed irresistibili urti di quelle enormi masse lanciate a galoppo sfrenato, si cominciavano a udire dei barriti.
Quei pachidermi dovevano essere spaventati da qualche grossa truppa d'uomini, non fuggendo ordinariamente dinanzi ad un drappello di cacciatori.
Dovevano essere state le bande dei dayaki a metterli in rotta.
Yanez ed i suoi uomini affrettavano il passo, temendo di venire travolti nella pazza corsa di quei pachidermi.
Avendo trovato degli spazi liberi, si erano messi a correre, guardandosi con spavento alle spalle, credendo di vedersi rovinare addosso quei mostruosi animali. Anche Yanez appariva preoccupato.
Avevano raggiunta una macchia formata quasi esclusivamente di enormi alberi della canfora, che nessuna forza avrebbe potuto atterrare, avendo quelle piante dei tronchi grossissimi, quando il pilota per la seconda volta si arrestò, dicendo precipitosamente:
– Gettatevi sotto queste piante che sono sufficienti a proteggerci. Ecco che giungono!
Si erano appena lasciati cadere dietro a quei tronchi colossali quando si videro apparire i primi elefanti.
Sbucavano a corsa sfrenata da una macchia di sunda-matune, gli alberi della notte, così chiamati perché i loro fiori non si schiudono che dopo il tramonto del sole e dei quali dovevano aver fatta una vera strage nella carica furibonda.
Quei colossi, che parevano pazzi di terrore, piombarono di colpo su un ammasso di giovani palme che sbarrava loro la via e le abbatterono come se una falce immensa, manovrata da qualche titano, fosse scesa su quelle piante.
Non era che l'avanguardia quella, poiché pochi istanti dopo si rovesciò su quello spazio il grosso, con clamori spaventevoli.
Erano quaranta o cinquanta elefanti, fra maschi e femmine, che si urtavano fra di loro confusamente, cercando di sorpassarsi. Le loro formidabili trombe percuotevano con impeto irresistibile alberi e cespugli, tutto abbattendo. Vedendone alcuni che pareva volessero scagliarsi verso gli alberi della canfora, Yanez stava per far eseguire una scarica, quando vide dei punti luminosi apparire dietro ai pachidermi che descrivevano delle fulminee parabole.
– Silenzio! Che nessuno si muova! I dayaki! – aveva esclamato.
Parecchi uomini, quasi interamente nudi, correvano dietro agli elefanti, scagliando sui loro dorsi dei rami resinosi accesi, che subito raccoglievano appena caduti, tornando a lanciarli.
Non erano che una ventina, tuttavia i pachidermi, atterriti da quella pioggia di fuoco che cadeva loro addosso senza posa, non osavano rivoltarsi, mentre che con una sola carica avrebbero potuto spazzare e stritolare quel piccolo gruppo di nemici.
– Non muovetevi e sopratutto non fate fuoco! – aveva ripetuto precipitosamente Padada.
Gli elefanti erano già passati, urtando i primi tronchi della macchia, senza che quelle colossali piante avessero fortunatamente ceduto ed erano scomparsi nel più folto della foresta sempre perseguitati dai dayaki.
– Che siano cacciatori? – chiese Yanez quando il fragore si perdette in lontananza.
– Che cacciavano noi – rispose il malese. – La nostra discesa a terra è stata notata da qualcuno che sorvegliava l'imbarcadero e non essendo probabilmente in numero sufficiente i dayaki che si trovavano nei dintorni, ci scagliano addosso gli elefanti.
«Vedrete che faranno percorrere a quei colossi tutta la foresta, colla speranza che c'incontrino sulla loro corsa e ci travolgano.»
– Possiamo quindi rivederli ancora?
– È probabile, signore, se non ci affrettiamo a lasciare questa boscaglia ed a rifugiarci nel kampong di Pangutaran.
– Siamo lontani molto ancora?
– Non ve lo saprei dire, essendo questa parte della foresta così intricata, da non poterci né orientare, né correre troppo. Tuttavia suppongo che giungeremo prima dell'alba.
– Prima che gli elefanti ritornino, andiamocene. Non si trovano sempre degli alberi della canfora per proteggerci. Mi stupisce però una cosa.
– Quale, signore?
– Come quei selvaggi abbiano potuto radunare tanti animali.
– Li avranno incontrati per caso non essendo domatori come i mahuts siamesi od i cornac indiani – disse Tangusa, che assisteva al colloquio. – Non è raro, in queste foreste, trovare delle truppe di cinquanta e anche di cento capi.
– E si presteranno a quel giuoco?
– Continueranno a scappare finché i dayaki avranno fiato e non cesseranno di perseguitarli coi tizzoni accesi.
– Non credevo che quei bricconi fossero così furbi. Amici, al trotto!
Lasciarono la macchia che li aveva così opportunamente protetti da quella carica spaventevole e si cacciarono entro altri macchioni formati per la maggior parte di alberi gommiferi, di dammeri e di sandracchi, cercando alla meglio di orientarsi, non potendo scorgere le stelle, tanto era folta la cupola di verzura che copriva la foresta.
Fortunatamente le piante non crescevano così l'una presso all'altra ed i cespugli ed i rotangs erano rari, sicché potevano marciare più celermente e correre anche meno rischi di cadere in qualche agguato. In lontananza il fragore prodotto dagli elefanti lanciati in piena corsa si udiva ancora ora intenso ed ora più debole.
I poveri animali ora cacciati da una parte, ora respinti verso l'altra, facevano il giuoco dei dayaki, i quali sapevano abilmente guidarli dove desideravano, colla speranza che sorprendessero il drappello in qualche luogo dell'immensa foresta.
Padada ed il meticcio, sapendo ormai di che si trattava, si regolavano a tempo per tenersi sempre lontani da quel pericolo, conducendo il drappello in direzione opposta a quella seguita dai pachidermi.
Dopo una buona mezz'ora parve finalmente che i dayaki, convinti che le Tigri di Mompracem non si trovassero in quella parte della selva, spingessero gli elefanti verso il fiume, poiché il fragore prodotto da quella carica furibonda si allontanò verso il sud, finché cessò completamente.
– Ci credono ancora lontani dal kampong – disse il pilota, dopo d'aver ascoltato per qualche po'. – Vanno a cercarci verso il Kabatuan.
– Quanta ostinazione in quei furfanti – disse Yanez. – È proprio una guerra a morte che ci hanno dichiarata.
– Eh, signor mio – rispose Padada. – Sanno bene che se noi riusciamo a unirci a Tremal-Naik, l'espugnazione del kampong diverrà estremamente difficile.
– Io glielo lascio il kampong; non ho alcuna intenzione di stabilirmi qui. Ho l'ordine di condurre a Mompracem Tremal-Naik e sua figlia e non già di fare la guerra al pellegrino, almeno per ora. Più tardi vedremo.
– Rinunziate a sapere chi è quell'uomo misterioso che ha giurato un odio implacabile contro tutti voi?
– Non ho ancora pronunziato l'ultima parola – rispose Yanez, con un sorriso. – Un giorno faremo i conti con quel messere. Per ora mettiamo in salvo l'indiano e la sua graziosa fanciulla. Dove siamo ora? Mi pare che la foresta cominci a diradarsi.
– Buon segno, signore. Il kampong di Pangutaran non deve essere molto lontano.
– Fra poco troveremo le prime piantagioni – disse il meticcio che da qualche minuto osservava attentamente la foresta. – Se non m'inganno siamo presso il Marapohe.
– Che cos'è? – chiese Yanez.
– Un affluente del Kabatuan, che segna il confine della fattoria. Alt, signori!
– Che cosa c'è?
– Vedo dei fuochi brillare laggiù! – esclamò Tangusa.
Yanez aguzzò gli sguardi e attraverso uno squarcio delle piante, ad una distanza considerevole, vide brillare nelle tenebre un grosso punto luminoso che non doveva essere un semplice fanale.
– Il kampong? – chiese.
– O un fuoco degli assedianti? – disse invece Tangusa.
– Dovremo dare battaglia prima di entrare nella fattoria?
– Prenderemo il nemico alle spalle, signore.
– Tacete – disse in quel momento il pilota, che si era avanzato di alcuni passi.
– Che cosa c'è ancora? – chiese Yanez, dopo qualche minuto.
– Odo il fiume rompersi contro le rive. Il kampong, si trova dinanzi a noi, signore.
– Attraversiamolo – rispose Yanez risolutamente. – E piombiamo sugli assediami a passo di carica. Tremal-Naik ci aiuterà dal canto suo come meglio potrà.
IL KAMPONG DI PANGUTARAN
Cinque minuti dopo il drappello guadava silenziosamente il fiumicello che era scarsissimo d'acqua e si radunava sulla riva opposta che era priva d'alberi.
Una vasta pianura, interrotta solo da qualche gruppetto di palme e di pombo, si estendeva al di là, spingendosi verso una grossa costruzione sopra la quale si scorgeva una specie di torricella che pareva un osservatorio.
Cominciando appena appena allora a diradarsi le tenebre, non era ancora permesso discernere che cosa veramente fosse, ma il pilota ed il meticcio non avevano bisogno della luce per sapere dove si trovavano.
– Il kampong di Pangutaran! – avevano esclamato ad una voce.
– E coi dayaki intorno – aveva aggiunto Yanez, aggrottando la fronte. – Che il grosso delle loro forze sia giunto prima di noi?
Infatti numerosi fuochi, disposti in forma di semicerchio, ardevano dinanzi alla fattoria, come se i terribili tagliatori di teste avessero stabilito un grande campo.
Tutti si erano arrestati, guardando con ansietà quei falò e cercando di rendersi conto delle forze degli assedianti.
– Eccoci in un bell'impiccio – mormorava Yanez. – Sarebbe una imprudenza avventarsi alla cieca contro forze che potrebbero essere venti volte superiori e d'altronde sarebbe una follia aspettare l'alba. Mancherebbe la sorpresa e potremmo venire ricacciati.
– Signore – disse il pilota in quel momento. – Che cosa decidete?
– Credi che siano molti gli assedianti?
– A giudicarlo dal numero dei fuochi si potrebbe crederlo. Volete che vada ad accertarmi delle loro forze?
Yanez lo guardò con diffidenza.
– Sospettate di me, è vero? – disse il malese, sorridendo. – Avete ragione: fino a ieri io ero un vostro nemico. Eppure avete torto: ormai ho rotto tutto con quegli uomini e preferisco essere contato fra i vostri uomini che sono malesi al pari di me, anziché con quei selvaggi.
– Potrai essere di ritorno prima che il sole sorga?
– Non comparirà prima di mezz'ora ed io vi prometto di essere di ritorno fra dieci minuti.
– Dammi dunque una prova della tua fedeltà – disse Yanez.
– L'avrete, signore.
Il malese si fece dare un parang, fece un gesto d'addio e si allontanò, gettandosi in mezzo ad una piantagione di zenzero che gli assedianti non avevano ancora distrutta.
Yanez, coll'orologio alla mano, contava i minuti. Temeva vivamente che il pilota tardasse e che la luce si diffondesse prima del suo ritorno, rendendo impossibile una sorpresa. Ne aveva contati sei, quando Padada comparve, correndo a corsa sfrenata.
– Ebbene? – chiese Yanez, muovendogli incontro.
– Il grosso che ha operato contro di noi alla foce del fiume non è ancora giunto. Gli assedianti non sono più d'un centinaio e le loro file sono così deboli da non poter resistere ad un urto improvviso.
– Hanno armi da fuoco?
– Sì, signore.
– Bah! Sappiamo come se ne servono.
Si volse verso i suoi uomini che lo avevano raggiunto e aspettavano il comando di dare addosso ai nemici.
– Date dentro a corpo perduto – disse loro. – Le Tigri di Mompracem mostrino in quale conto tengono questi tagliatori di teste.
– Quando ce l'ordinerete, noi sfonderemo tutto, signor Yanez – rispose il più vecchio. – Voi sapete che noi non abbiamo mai avuto paura.
– Accostiamoci in silenzio e prendiamoli alle spalle. Non farete fuoco se non quando lo comanderò io. Formiamo la colonna d'assalto.
Si disposero su una doppia fila, mettendo dinanzi i più valorosi, poi il drappello si cacciò silenziosamente in mezzo ai zenzeri che erano abbastanza alti per coprirli.
Yanez si era gettata la carabina a tracolla, ed aveva sfoderata la scimitarra e levata dalla fascia una ricca pistola indiana a due colpi, dalle canne lunghissime.
La traversata della piantagione fu compiuta così celermente che quattro minuti dopo giungevano a ottanta passi dagli assedianti.
I dayaki, sicuri di non venire assaliti, bivaccavano in gruppetti di quattro o cinque persone, attorno al falò.
Trecento metri più oltre s'alzava il kampong. Era una specie di kotta, ossia di fortezza bornese, costituita da un corpo di fabbricati, circondato da larghi panconi di durissimo legno di tek, capaci di opporre una solida resistenza anche ai piccoli lila se non ai miriam e da un folto boschetto di piante spinose che non permetteva di prenderla d'assalto ad uomini quasi nudi e privi sopratutto di scarpe.
Sul fabbricato principale, una casa di bella apparenza, che ricordava i bungalows indiani, s'alzava una sottile torretta di legno, una specie di minareto arabo, sulla cui cima brillava una grossa lanterna.
– Tangusa – disse Yanez, che aveva fatto coricare i suoi uomini, volendo prima rendersi conto esatto della situazione in cui trovavasi la fattoria. – Dove si trova il passaggio?
– Di fronte a noi, signore.
– Non cadremo in mezzo alle spine?
– Vi guido io.
– Siete pronti? – chiese Yanez rivolgendosi ai pirati.
– Pronti tutti, capitano.
– Caricate al grido «Viva Mompracem!» onde non corriamo il pericolo di farci fucilare dai difensori del kampong. Avanti!
I diciotto uomini si erano slanciati a corsa sfrenata, piombando sul gruppo più vicino. Nessuno poteva ormai più trattenere le terribili Tigri della Malesia: né artiglierie, né fucili, né armi bianche.
Con una scarica fulminarono i cinque o sei dayaki che avevano abbandonato precipitosamente il falò attorno a cui bivaccavano, poi attraversarono come un lampo la debole linea d'assedio, continuando a sparare e urlando a squarciagola:
– Viva Mompracem!
I tagliatori di teste, sorpresi da quell'improvviso assalto, che erano ben lungi dall'aspettarsi, non avevano nemmeno tentato di opporre resistenza, sicché l'animoso drappello poté gettarsi dentro il boschetto spinoso che copriva la cinta.
Degli uomini erano comparsi sulle difese interne armati di fucili. Pareva che si preparassero a far fuoco, quando una voce imperiosa gridò:
– Fermi! Sono amici! Aprite la porta!
– Ohe, amico Tremal-Naik – gridò Yanez con voce giuliva. – Non abbiamo affatto bisogno del piombo noi. Ne abbiamo avuto già abbastanza di quello dei dayaki.
– Yanez! – esclamò l'indiano, con una vera esplosione di gioia.
– Chi credevi che fosse dunque?
– Alzate la saracinesca! Lesti! I dayaki tornano alla riscossa!
Una enorme tavola di legno di tek, pesante come fosse di ferro, fu innalzata da parecchi uomini mediante funi sospese a grosse carrucole e le Tigri di Mompracem col pilota ed il meticcio, si precipitarono entro il kampong, mentre i difensori della cinta salutavano gli assedianti con due colpi di spingarda ed un violentissimo fuoco di fucileria.
Un uomo di statura piuttosto alta, un po' attempato, avendo i baffi ed i capelli brizzolati, di taglia però ancora elegante ed insieme vigorosa, dai lineamenti fini, la pelle un po' abbronzata e gli occhi nerissimi, aveva aperte le braccia per stringere il portoghese.
Non indossava il costume dei ricchi bornesi, bensì quello degli indiani modernizzati i quali hanno ormai rinunciato al dootée e alla dubgah pel costume anglo-indù, più semplice e più comodo, consistente in una giacca di tela bianca con alamari di seta rossa, fascia larghissima ricamata in oro e calzoni strettissimi pure bianchi e turbantino.
– Qui, sul mio petto, amico Yanez! – aveva esclamato, abbracciandolo strettamente. – È destinato che debba sempre ricorrere alla generosità ed al valore delle invincibili Tigri di Mompracem. Come sta la Tigre della Malesia?
– Muore di salute.
– E la tua Surama?
– Mi ama sempre intensamente. E Darma dov'è che non la vedo?
– La tigre o mia figlia?
– L'una e l'altra, giacché mi scordavo della tua brava bestia.
– Mia figlia dorme in questo momento e la tigre marcia verso la costa con Kammamuri.
– Come! il maharatto non è qui? – esclamò Yanez.
– Temendo che Tangusa non avesse potuto raggiungervi o guidarvi qui, egli è partito nonostante i miei consigli, con una piccola scorta e forse a quest'ora, se è riuscito a sfuggire ai dayaki, si è imbarcato per Mompracem.
– Lo ritroveremo più tardi.
– Vieni, amico – disse Tremal-Naik. – Non è questo il luogo per scambiarci le nostre confidenze. Olà, Tangusa, fa' gli onori di casa e prepara da mangiare e da bere alle Tigri di Mompracem.
S'avviò verso il bungalow che s'alzava fra alcune immense tettoie piene di prodotti agricoli ed una doppia linea di capanne ed introdusse l'amico in una stanza pianterrena che era illuminata da una bella lampada indiana, i cui vetri azzurrognoli attenuavano la luce. Tremal-Naik non aveva rinunciato ai suoi gusti di bengalese. Ed infatti la stanza era arredata con mobili indiani, leggeri sì, ma elegantissimi e tutto all'intorno aveva quei bassi e comodi divani che si vedono in tutte le ricche abitazioni degli adoratori di Brahma, di Siva o di Visnù.
– Un buon bicchiere di bram innanzi tutto – disse l'indiano, empiendo due bicchieri con quell'eccellente liquore composto con riso fermentato, zucchero e succhi di varie palme che lo profumano. – Arresta il sudore.
– Ed io sono inzuppato, come un cavallo che ha percorse dodici leghe tutte d'un fiato. Non sono più giovane, amico mio – disse Yanez, vuotando poi d'un fiato il bicchiere. – Ed ora spiegami questo mistero.
– Una domanda prima di tutto, se me lo permetti. Come sei giunto?
– Colla Marianna e dopo d'aver forzata la foce del fiume. Più tardi ti narrerò i particolari di quella lotta.
– Dove l'hai lasciata?
– All'imbarcadero.
– È numeroso l'equipaggio?
– Ha forze uguali alle mie.
Tremal-Naik era diventato meditabondo ed inquieto.
– Sono uomini capaci di difendere il mio veliero – disse Yanez che se n'era accorto.
– Sono molti i dayaki, più di quanti credevo e sopratutto ben armati e anche bene esercitati.
– Dal pellegrino?
– Sì, Yanez.
– L'avrai veduto, tu, quel briccone.
– Io? Mai!
– Non sai nemmeno tu chi è? – chiese Yanez al colmo dello stupore.
– No – rispose Tremal-Naik. – Io gli ho mandato un messo due settimane or sono, pregandolo di presentarsi da me per spiegarmi i motivi del suo odio, promettendogli salva la vita.
– E lui si è guardato bene dall'obbedire?
– Mi ha fatto rispondere invece che andassi io da lui onde consegnargli la mia testa unitamente a quella di mia figlia.
– Tanta audacia ha avuto quel miserabile! – esclamò Yanez, indignato. – Udiamo: hai mai offeso qualche capo dayako? Quei tagliatori di teste sono ferocemente vendicativi.
– Io non ho mai fatto male a nessuno, e poi quell'uomo non è un dayako, – rispose l'indiano.
– Chi è dunque?
– Alcuni affermano che sia un vecchio arabo fanatico, altri un negro e altri ancora un indiano.
– Eppure ci deve essere un gran motivo per odiarti tanto.
– Certo, ma più ci penso meno riesco a scoprirlo, ed invano tormento il mio cervello. Mi è venuto per fino un sospetto.
– Quale?
– È così assurdo che rideresti se te lo dicessi – disse Tremal-Naik.
– Gettalo fuori.
– Che potesse essere qualche thug.
Yanez invece di accogliere quelle parole con un sorriso, come l'indiano s'aspettava, era diventato lievemente pallido.
– Sei ben certo, Tremal-Naik – disse poi con voce grave, – che tutti i luogotenenti di Suyodhana, il capo degli strangolatori, siano stati uccisi da noi nelle caverne di Rajmangal o dagli inglesi nelle stragi di Delhi? Chi ce lo assicura?
– E tu vorresti che quel qualcuno avesse pensato a vendicare Suyodhana dopo undici anni?
– Tu hai provata la tenacia ed hai pure provato l'odio implacabile di quegli assassini. Tu sei stata la causa della loro fine.
Tremal-Naik era tornato a diventare pensieroso ed il suo viso tradiva una profonda angoscia. Ad un tratto, fece un gesto come per cacciare via qualche visione, poi disse:
– No, è impossibile, è assurdo. I thugs ammesso che ve ne siano ancora in India, non avrebbero atteso tanto. Quel pellegrino deve essere qualche furfante che cerca d'imporsi ai dayaki per fondarsi qualche sultania e che finge di odiarmi. Avrà fatto spargere la voce che io non sono un mussulmano, che io sono forse un nemico dei dayaki, una creatura inglese incaricata di soggiogarli o qualche cosa d'altro per mandarmi via di qui. Sarà tutto quello che vorrai, anche un vero fanatico, ma non un thug.
– Sia come vuoi tu, ma mi pare che tu ti trovi in una non bella condizione. Hai perdute tutte le fattorie?
– Le hanno saccheggiate e poi arse.
– Sarebbe stato meglio che tu fossi rimasto con noi a Mompracem.
– Volevo tentare di colonizzare queste coste ed incivilire questi barbari.
– Ed hai fatto un buco nell'acqua – disse Yanez, ridendo.
– Pur troppo.
– E ci rimetterai qualche centinaio di migliaia di rupie. Meno male che le tue fattorie del Bengala possono pagare le spese. Quando sgombreremo?
– Ti chiedo solo ventiquattro ore – rispose Tremal-Naik. – Per poter raccogliere il meglio che posseggo, poi daremo fuoco a tutto e raggiungeremo la tua nave.
– E correremo al più presto verso Mompracem – disse Yanez. – La nostra presenza è necessaria laggiù.
Aveva pronunciate quelle parole con un tono così grave, che l'indiano ne fu colpito.
– C'è qualche cosa in aria? – chiese.
– Ma... non si sa ancora. Corrono delle voci che inquietano la Tigre della Malesia.
– E quali?
– Che gl'inglesi abbiano intenzione di farci sloggiare da Mompracem. È un po' di tempo che tutti gli atti di pirateria che succedono lungo le coste occidentali dell'isola le addebitano a noi, quantunque da anni molti nostri prahos dormono sulle loro àncore. Dicono che la nostra presenza incoraggia i pirati costieri e che noi direttamente o indirettamente li aizziamo contro le navi che si recano a Labuan. Frottole, ma già tu conosci la doppiezza del leopardo inglese.
– E anche la sua ingratitudine – disse l'indiano. – Ecco come vorrebbero compensarci d'aver liberata l'India dalla setta dei thugs. E Sandokan cederebbe?
– Lui! ah! Quell'uomo è capace di gettare il guanto di sfida contro tutta l'Inghilterra e di...
Un lontano colpo di cannone gli aveva interrotta la frase.
– Hai udito? – esclamò, balzando in piedi in preda ad una vivissima agitazione.
– Sì il cannone tuona verso il sud.
– I dayaki attaccano la Marianna!
– Seguimi sull'osservatorio, Yanez – disse Tremal-Naik. – Di lassù potremo udire meglio da quale parte giungono gli spari.
LO SCOPPIO DELLA MARIANNA
I due uomini, visibilmente impressionati, uscirono dalla stanza e, salita una scala, si trovarono su una delle terrazze del bungalow su cui si alzava la torricella o meglio il minareto, essendo altissimo e sottilissimo, con una piccola gradinata esterna.
In pochi istanti raggiunsero la cima che terminava in una piccola piattaforma circolare, su cui trovavasi una grossa spingarda dalla canna lunghissima che doveva battere da quell'altezza tutti i punti dell'orizzonte.
Il sole erasi già alzato diffondendo sulla pianura i suoi raggi dorati, appena sorti e già subito ardentissimi, non essendovi in quelle regioni nessuna frescura, nemmeno nelle prime ore del mattino.
I dayaki che assediavano il kampong, coll'apparire della luce, si erano allontanati di sei o settecento metri, riparandosi dietro ai grossi tronchi d'alberi appositamente abbattuti onde servirsene a modo di trincee mobili, potendo farli scorrere innanzi od indietro, a loro piacimento.
Pareva che durante la notte fossero aumentati di numero, perché Tremal-Naik, appena ebbe lanciato uno sguardo all'ingiro, non poté trattenersi dall'esclamare:
– Ieri sera non ve n'erano tanti intorno a noi.
Yanez stava per chiedergli qualche cosa, quando un secondo colpo di cannone si udì rimbombare in lontananza, ripercuotendosi contro le cinte del kampong.
– Questo rombo viene dal sud! – esclamò il portoghese. – Sono i cannoni da caccia della Marianna che tirano. I dayaki hanno assalito i miei uomini.
– Sì – confermò l'indiano. – Viene dalla parte del Kabatuan. Credi che possano respingere il nemico, coi pezzi che hanno a loro disposizione?
– Bisognerebbe conoscere il numero degli assalitori. Di quali forze dispone quel maledetto pellegrino?
– Ha fanatizzato quattro tribù e ognuna deve avergli fornito non meno di centocinquanta guerrieri.
– E armati di fucili?
– Sì, Yanez. Quell'uomo misterioso ha portato con sé un vero arsenale e perfino dei lila e dei miriam. Toh! Un altro colpo!
– E queste sono le spingarde! – esclamò Yanez, facendo un gesto di rabbia.
Dalla parte dell'immensa foresta che si estendeva verso il sud, giungevano ad intervalli delle detonazioni più leggiere e più secche che dovevano essere prodotte da pezzi a canna lunga.
Poi gli spari aumentarono rapidamente d'intensità, formando un rimbombo incessante, come se molti pezzi d'artiglieria e molte spingarde sparassero insieme.
Yanez era diventato pallido e nervosissimo. Passeggiava intorno alla piattaforma come un leone in gabbia, interrogando ansiosamente cogli sguardi tutti i punti dell'orizzonte. Anche l'indiano era in preda ad una sovraeccitazione vivissima.
I colpi si succedevano intanto ai colpi. Una battaglia furiosa, terribile, doveva essersi impegnata sul fiume fra il poco numeroso equipaggio della Marianna e le grosse forze del misterioso pellegrino.
– E non cessa! – esclamava Yanez, che non si tratteneva più. – Se fossi là io!
– Sambigliong è un valoroso che non si arrenderà – rispose Tremal-Naik. – È una vecchia tigre che la sa lunga e che sa difendersi.
– Non vi sono che sedici uomini validi a bordo, mentre i dayaki possono essere tre o quattrocento e forniti anche essi d'artiglieria.
– Dunque tu dubiti che la Marianna possa resistere? – chiese Tremal-Naik con angoscia. – Se la prendessero sarebbe finita anche per noi. E mia figlia?
– Adagio, amico – rispose Yanez. – I dayaki troveranno qui un osso ben duro da rodere. Ho osservato attentamente il tuo kampong e mi sembra assai robusto. Tu sai che i selvaggi generalmente si trovano imbarazzati dinanzi ad un ostacolo che frena il loro slancio Per Giove! Ed il cannone non cessa! Si massacrano laggiù. Quanti uomini hai?
– Una ventina.
– Tutti malesi?
– Fra malesi e giavanesi – rispose Tremal-Naik.
– Quaranta uomini, chiusi da una cinta così solida, possono dare del filo da torcere a quei furfanti. Sei ben provvisto?
– Ho viveri e munizioni in abbondanza.
– Signor Yanez! Buon giorno! – disse in quel momento una giovane, comparendo sulla piattaforma.
Il portoghese aveva mandato un grido:
– Darma!
Una bellissima fanciulla di forse quindici anni, dal corpo flessuoso come una palma, con lunghi capelli neri, un po' inanellati, la pelle del viso leggermente abbronzata e vellutata come quella delle donne indiane, ma assai più chiara, i lineamenti perfetti che sembravano più caucasei che indù, si era fermata dinanzi al portoghese, fissandolo coi suoi occhi neri e scintillanti come carbonchi.
Indossava un costume mezzo europeo e mezzo indiano, che le dava una grazia unica, composto d'un busticino di broccatello, con ricami d'oro, d'un'ampia fascia di cascemir che le cadeva sulle anche ben arrotondate e d'una sottanina piuttosto corta che lasciava vedere i calzoncini di seta bianca che le scendevano fino sulle scarpettine di pelle rossa, a punta rialzata.
– Ben felice di rivedervi, signor Yanez – riprese la fanciulla, tendendogli una manina da fata. – Sono due anni che vi abbiamo lasciato.
– Abbiamo sempre da fare laggiù, a Mompracem.
– Medita sempre spedizioni la Tigre della Malesia? Che uomo terribile – disse Darma sorridendo. – Ah... il cannone! Non udite?
– È già mezz'ora che rimbomba, figlia mia – disse Tremal-Naik. – E annunzia una grave disgrazia.
– Chi è che fa fuoco, padre?
– Sono le Tigri di Mompracem.
– Che difendono la mia nave – aggiunse Yanez. – Tacete! Mi pare che i colpi rallentino! E non poter vedere nulla!
Si erano tutti curvati sul parapetto della piattaforma, ascoltando ansiosamente.
Non si udivano più che a rari intervalli le secche detonazioni delle spingarde e la cupa voce dei pezzi da caccia.
Ad un tratto si fece un gran silenzio, come se la battaglia fosse bruscamente cessata.
– Hanno vinto o sono stati schiacciati? – si chiese Yanez che si sentiva bagnare la fronte di sudore.
Ad un tratto una formidabile detonazione attraversò gli strati d'aria e si propagò con tale intensità che la torre tremò dalla base alla cima! Yanez aveva mandato un grido, mentre Tremal-Naik e Darma erano diventati pallidissimi.
– Mio Dio, che cosa è successo? – chiese la fanciulla.
– La mia Marianna deve essere saltata in aria – rispose Yanez con voce rotta. – Poveri i miei uomini!
Un dolore intenso traspariva sul viso del portoghese, mentre qualche cosa di umido brillava nei suoi occhi.
– Yanez – disse Tremal-Naik, con voce affettuosa. – Noi non abbiamo ancora la certezza che la tua nave sia saltata.
– Questo rombo spaventevole non può essere stato prodotto che dallo scoppio della santabarbara, – rispose il portoghese. – Io che ne ho vedute saltare tante delle navi, non mi posso ingannare. Che la Marianna sia calata a fondo non me ne importa, avendo noi a Mompracem velieri in buon numero. Sono i miei uomini che rimpiango.
– Possono avere lasciata la nave prima che scoppiasse. Chissà, forse sono stati essi stessi a dar fuoco alle polveri onde non cadere nelle mani dei dayaki.
– Può essere vero – rispose Yanez, che aveva riacquistata la sua calma.
– Vi era qualcuno a bordo che sapesse dove si trova il mio kampong?
– Sì, il corriere che ti abbiamo mandato sei mesi fa.
– Quell'uomo allora, se è sfuggito alla morte, potrebbe condurre qui i superstiti.
– E passare attraverso le file dei dayaki? Ecco un'impresa che sarà ben difficile per così pochi uomini. E poi, quand'anche giungessero qui, la nostra situazione non migliorerebbe.
– È vero – rispose l'indiano. – Come potremo scendere il fiume senza la tua nave?
– Cercheremo dei canotti, padre – disse Darma.
– Per esporsi ad un fuoco incessante senza alcun riparo? Chi giungerebbe vivo alla foce del fiume?
– Guarda i dayaki – disse in quel momento Yanez.
Gli assedianti, che dovevano aver pure udito quello scoppio formidabile e anche quel vivo cannoneggiamento, avevano abbandonate le loro trincee mobili, ritirandosi verso le foreste che circondavano la pianura, come se avessero l'intenzione di togliere il blocco.
– Se ne vanno, padre! – esclamò Darma. – Che abbiano compreso che era inutile ostinarsi contro questo kampong?
– Yanez – disse Tremal-Naik. – Che il pellegrino sia stato invece sconfitto e che abbia mandato qui qualche corriere per far ritirare gli assedianti?
– O che cerchino di trarci in qualche agguato? – chiese invece il portoghese.
– In qual modo?
– Colla speranza che noi approfittiamo della loro ritirata per abbandonare il kampong e poi assalirci in piena foresta con tutte le loro forze. No, mio caro Tremal-Naik, non sarò così sciocco io, da abboccare all'amo. Finché non sapremo la sorte toccata alla mia Marianna, noi non lascieremo questa fattoria dove potremo difenderci lungamente, nel caso che il mio equipaggio sia stato distrutto. Mettiamo qui una sentinella e pel momento non preoccupiamoci delle manovre insidiose di quei furfanti.
– Signor Yanez – disse Darma. – Venite a prendere un po' di riposo, intanto, ed a far colazione.
Non udendo più alcun colpo di cannone, quantunque fossero tutti angosciati per la sorte che poteva essere toccata all'equipaggio della Marianna, scesero nella sala pianterrena dove i servi del kampong avevano preparata un'abbondante refezione all'inglese, con carne fredda, burro e thè con biscotti.
Terminato il pasto e mandato il meticcio sulla torricella onde li avvertisse delle mosse degli assedianti, fecero una minuta ispezione alle cinte e alle opere di difesa, onde essere pronti a sostenere anche un lungo assedio.
Erano trascorse già tre ore dallo scoppio, quando udirono Tangusa gridare dall'alto del minareto:
– All'armi!
E subito dopo rimbombarono alcuni spari.
Yanez e Tremal-Naik si erano precipitati verso la piattaforma più alta della cinta, da cui potevano dominare buon tratto della pianura.
Vi erano appena giunti, quando videro un piccolo drappello d'uomini uscire dalla foresta a corsa sfrenata, sparando sui dayaki che accorrevano da tutte le parti come per tagliare loro il passo.
Due grida erano sfuggite alle labbra del portoghese e dell'indiano:
– Le Tigri di Mompracem! Sambigliong!
Poi lanciarono due grida tuonanti.
– Fuoco le spingarde!
– Alzate la saracinesca ai nostri amici!
I pirati che avevano scortato Yanez, vedendo i loro compagni alle prese cogli assedianti, si erano gettati sulle tre spingarde che difendevano la cinta dalla parte meridionale, scaricando quasi contemporaneamente.
I dayaki, udendo quegli spari e vedendo cadere parecchi compagni, avevano aperte le file rifugiandosi precipitosamente nella foresta.
Sambigliong ed il suo drappello, trovando il passo libero, si erano slanciati verso il kampong a tutta corsa, non cessando di sparare.
La saracinesca era stata alzata e parte della guarnigione era mossa incontro a loro per sostenerli nel caso che i dayaki tornassero alla riscossa e anche per guidarli attraverso il boschetto spinoso.
I superstiti della Marianna non erano che una mezza dozzina. Erano neri di polvere, madidi di sudore, ansanti, colle vesti stracciate ed insanguinate ed avevano la schiuma alle labbra per la lunga corsa che doveva essere durata non meno di tre ore. Il corriere, che conosceva la via, per fortuna era insieme a loro.
– La mia nave? – gridò Yanez, correndo incontro a Sambigliong.
– Saltata, capitano – rispose il mastro con voce rantolante.
– Da chi?
– Da noi... non potevamo più resistere... erano centinaia e centinaia di selvaggi che ci piombavano addosso... tutti i nostri compagni sono stati uccisi... anche i feriti... ho preferito dar fuoco alle polveri...
– Sei un valoroso – gli disse Yanez, con voce profondamente commossa.
– Capitano... vengono... sono molti... preparatevi alla resistenza.
– Ah! vengono! – esclamò Yanez con voce terribile. – Vendicheremo i nostri morti!
LA PROVA DEL FUOCO
Le orde dei dayaki sbucavano in quel momento dalle foreste a gruppi, a drappelli, senza ordine alcuno, lanciati tutti a corsa sfrenata.
Ululavano come belve feroci, agitando forsennatamente i loro pesanti kampilang d'acciaio lucentissimo e sparando in aria qualche colpo di fucile.
Parevano furibondi e probabilmente lo erano per non aver potuto raggiungere e decapitare gli ultimi difensori della Marianna, che più riposati e fors'anche più lesti, erano riusciti a rifugiarsi nella fattoria prima di lasciarsi prendere.
– Per Giove! – esclamò Yanez che li osservava attentamente dall'alto della cinta. – Sono in buon numero quei bricconi e quantunque la loro istruzione militare lasci molto a desiderare, ci daranno dei gravi grattacapi.
– Non sono meno di quattrocento – disse Tremal-Naik.
– Là! Hanno anche un parco d'assedio – aggiunse il portoghese, vedendo uscire dalla boscaglia un grosso drappello che trascinava una dozzina di lila ed un miriam. – Canaglia d'un pellegrino! Pare che se ne intenda di cose di guerra e che abbia dedicate tutte le sue cure alla sua artiglieria. Non marciano mica male, gli artiglieri! Manovrano come coscritti di tre mesi!
– E non tirano male, ve lo assicuro, capitano – disse Sambigliong. – Battevano la Marianna per bene, prendendola d'infilata da prora a poppa.
– Che quel dannato pellegrino sia stato prima soldato? – chiese Yanez. – Chi diavolo può essere quell'uomo misterioso?
– Yanez – disse Tremal-Naik, guardandolo con una certa espressione. – Credi tu che noi potremo resistere a lungo?
– Come artiglieria siamo debolucci in confronto a loro – rispose il portoghese. – Ora che non abbiamo più i nostri due pezzi da caccia, ma prima che gli assedianti montino all'assalto, ci vorrà del tempo e decimeremo per bene le loro colonne, se vorranno tentare di espugnare a viva forza la nostra fortezza. Basta che i viveri e le munizioni non ci vengano a mancare.
– Ti ho già detto che siamo ben forniti, specialmente dei primi. Tutte le tettoie ne sono piene.
– Allora terremo duro fino a che tornerà Kammamuri. Sapendoci in pericolo, Sandokan non indugerà a mandarci altri soccorsi. Quanto avrà impiegato a raggiungere la costa?
– Non meno d'una settimana.
– Sicché a quest'ora dovrebbe essere a Mompracem.
– Lo spero, se i dayaki non lo hanno ucciso – rispose Tremal-Naik.
– Hum! Assalire un uomo che è scortato da una tigre! Nessuno avrebbe osato attaccarlo. Quindi, a conti fatti, fra una quindicina di giorni potrebbe essere qui. Terremo duro fino allora ed intanto cercheremo di divertire i dayaki facendoli ballare a colpi di mitraglia.
– E se Sandokan non ci mandasse soccorsi?
– In tal caso, mio caro amico, ce ne andremo – rispose Yanez, colla sua calma abituale.
– Con tutti questi assedianti?!
– Vedremo se fra quindici giorni saranno così numerosi. Non caricheremo già le spingarde con patate e le carabine con uova di passeri. Terminiamo la nostra ispezione, mio caro Tremal-Naik, e vedremo di fortificare i punti più deboli. Dobbiamo resistere e resisteremo.
Mentre riprendevano il loro giro, i dayaki si erano accampati intorno alla fattoria, tenendosi fuori di portata dai tiri delle spingarde, costruendo rapidamente, con rami e con foglie di banano, delle capannuccie per ripararsi dagli ardenti raggi del sole, mentre i loro artiglieri innalzavano senza indugio delle piccole trincee formate di terra e sassi e piazzavano i loro pezzi in modo da poter battere la fattoria tutta all'intorno. Quei cannoni non potevano recare quindi danno alle massiccie tavole che formavano la cinta, essendo il tek un legno durissimo che offre una grande resistenza, tuttavia quando Yanez, terminata l'ispezione, salì sulla torricella con Tremal-Naik e Sambigliong, per dominare meglio tutta la pianura, non poté frenare un gesto di stizza.
– Quel pellegrino deve essere stato un soldato – ripeté. – I dayaki non avrebbero mai pensato ad innalzare delle trincee, né a scavare dei fossati per ripararsi dai tiri degli avversari.
– Lo vedi? – chiese in quel momento Tremal-Naik.
– Chi?
– Il pellegrino.
– Come! Osa mostrarsi?
– Guardalo là, in piedi su quel tronco d'albero che gli artiglieri hanno fatto rotolare dinanzi al miriam per rinforzare la trincea.
Yanez guardò attentamente nella direzione indicata, poi, tratto di tasca un binocolo di marina, lo puntò.
Sul tronco stava un uomo molto alto e molto secco, vestito tutto di bianco, con alamari d'oro, con scarpe rosse a punta rialzata come usano i ricchi bornesi di Bruni ed il capo difeso da un ampio turbante di seta verde che gli calava fino sugli occhi.
Pareva che avesse cinquanta o sessanta anni. La sua pelle era assai abbronzata, ma non così oscura né opaca come quella dei malesi e dei dayaki e anche i suoi lineamenti, che Yanez distingueva benissimo, erano molto più fini e più perfetti di quelli delle due razze dominanti le grandi isole malesi.
– Parrebbe un arabo od un birmano – disse Yanez, dopo di averlo osservato a lungo. – Un dayako no di certo e nemmeno un malese. Da dove sarà piombato costui?
– Non lo hai mai veduto? – chiese Tremal-Naik.
– Frugo e rifrugo nella mia memoria e mi convinco sempre più di non aver mai avuto a che fare con quell'uomo – rispose il portoghese.
– Eppure in qualche luogo dobbiamo averlo veduto. Il suo odio contro di me e anche contro di voi, avendo udito narrare che dopo di me si sarebbe anche occupato delle Tigri di Mompracem, deve essere stato motivato da qualche cosa.
– Ah! Vorrebbe prendersela anche con Mompracem – disse Yanez, sorridendo. – Si capisce che non conosce ancora quanto valgono i nostri tigrotti.
«Si provi a rovesciare le sue orde sulle coste della nostra isola! Vedrà quanti dayaki torneranno alle loro natie foreste. Ah! La danza di guerra! Brutto indizio.»
– Che cosa vuol dire, Yanez?
– Che i dayaki si preparano alla pugna. Si esaltano prima colla danza quando mettono mano ai kampilang. Sambigliong, va' ad avvertire i nostri uomini di tenersi pronti e fa' portare le spingarde ai quattro angoli della fattoria, onde possano battere tutti i punti dell'orizzonte. Quando i dayaki si muoveranno, verremo noi a dirigere la difesa.
Un centinaio e mezzo di guerrieri, che tenevano in ambo le mani una sciabola, si erano staccati dal grosso su quattro colonne avanzandosi verso il kampong, per eseguire la danza di guerra.
Giunti a cinquecento passi dalla cinta, mandarono un urlo altissimo, un urlo di sfida, poi formarono quattro circoli, mettendosi a ballare disordinatamente.
Nel centro avevano deposto i loro kampilang, incrociando l'uno coll'altro in modo da occupare un vasto spazio poi, alcuni avevano tratto dai panieri, che portavano appesi al fianco, alcune teste umane che parevano recise di recente, collocandole fra i gruppi formati dalle sciabole.
Vedendo quelle teste, Yanez aveva fatto un gesto d'ira, a malapena represso.
– Miserabili! – aveva esclamato.
– Appartenevano ai tuoi uomini, è vero, mio povero amico? – disse Tremal-Naik.
– Sì – rispose il portoghese. – Devono aver pescato i cadaveri lanciati nel fiume dall'esplosione, per impadronirsi delle loro teste. Noi non faremo altrettanto ma, vivaddio, contraccambieremo con piombo senza risparmio.
– Vuoi che li mitragliamo giacché sono a buona portata?
– Non ancora. Dobbiamo lasciare a loro di sparare il primo colpo.
I dayaki intanto continuavano a sgambettare come scimmie o come ubriachi in delirio, ululando spaventosamente, dimenando le braccia e contorcendosi, mentre alcuni suonatori percuotevano con delle mazze dei tamburoni di legno coperti con una pelle di tapiro.
Ora i danzatori procedevano a passo cadenzato, poi spiccavano salti come se calpestassero dei carboni accesi, finalmente si davano ad una corsa pazza, impugnando certe specie di kriss, come se inseguissero dei nemici fuggenti.
Quella danza durò una buona mezz'ora, poi, i guerrieri esausti, trafelati, rientrarono nei loro accampamenti.
Successe un profondo silenzio che si prolungò per alcuni minuti, poi un urlo formidabile, mandato da tutti i combattenti, echeggiò nella pianura, propagandosi sotto i boschi che la circondavano.
– Si preparano all'attacco? – chiese Tremal-Naik a Yanez che aveva puntato nuovamente il binocolo.
– No: vedo un uomo che esce dalla tettoia abitata dal pellegrino con una banderuola verde infissa su una lancia.
– Che ci si mandi un parlamentario?
– Sembra – rispose il portoghese.
– A proporci la resa?
– La pace no di certo.
Un dayako, un qualche famoso guerriero a giudicarlo dalle lunghe penne che gli ornavano la testa e dalla straordinaria quantità di braccialetti di ottone che portava alle braccia e alle caviglie, aveva lasciato il campo, seguito da un altro che reggeva a stento uno di quei grossi tamburi di legno che avevano servito poco prima per accompagnare i danzatori.
– Cospettaccio! – esclamò il portoghese. – Ecco un parlamentario in piena regola; invece d'avere un trombettiere ha un tamburino o meglio un tamburone. Quel pellegrino deve essere un uomo civilissimo. Scendiamo, Tremal-Naik, e andiamo a udire che cosa ci manda a dire il generalissimo dei dayaki.
Avevano appena lasciata la torretta e raggiunta la terrazza che si alzava sopra la saracinesca, quando il parlamentario giunse, chiedendo di voler parlare all'uomo bianco.
– Non sono io il padrone del kampong – disse il portoghese, curvandosi sul parapetto e guardando con curiosità il guerriero ed il suo tamburino.
– Non importa – rispose il parlamentario. – Il pellegrino della Mecca, il discendente del gran Profeta, desidera che io comunichi solamente coll'uomo bianco, il fratello della Tigre della Malesia.
– Per Giove! – esclamò Yanez, ridendo. – Due fratelli di colore diverso! Quel pellegrino deve essere un grande sciocco. – Poi alzando la voce, proseguì: – Mi dirai allora che cosa ha da dirmi il discendente del Profeta.
– Egli ti manda a dire che accorda per ora la vita a te ed ai tuoi uomini, a condizione che tu gli ceda Tremal-Naik e sua figlia.
– E per cosa farne di loro?
– Per decapitarli – rispose candidamente il guerriero.
– Mi dirai almeno per quale motivo.
– Allah così vuole.
– Dirai allora che il mio Allah invece non lo vuole e che io sono qui venuto per far rispettare il suo desiderio e che sono pronto a difendere i miei amici.
– Ti ripeto che Allah ed il Profeta hanno decretata la morte di quell'uomo e di quella fanciulla.
– Io me ne infischio di loro e di quell'imbroglione di pellegrino che vi ha fanatizzati dandovi da bere delle panzane.
– Il pellegrino è uomo che ha compiuto dei miracoli sotto i nostri occhi.
– E non sotto i miei e gli dirai anzi che lo sfido a farne qualcuno. Fino a prova contraria non lo crederò altro che un intrigante che abusa della vostra dabbenaggine o dei vostri istinti sanguinari.
– Io andrò a riportare a lui le parole dell'uomo bianco.
– Senza fretta, giacché noi non ne abbiamo – disse Yanez, ironicamente.
Il tamburino fece echeggiare per tre volte il suo pesantissimo istrumento che risuonò come il tuono udito in lontananza, poi i due selvaggi tornarono verso l'accampamento dove tutti i guerrieri pareva che li aspettassero con viva impazienza.
– Quel pellegrino deve essere il più gran furbo che viva sotto la cappa del cielo – disse Yanez a Tremal-Naik, quando i due parlamentari si furono allontanati. – Che specie di miracoli può aver compiuto quell'uomo per persuadere i dayaki d'essere un semidio? Vorrei saperlo.
– Qualche cosa deve evidentemente aver fatto – rispose l'indiano. – Non si impone da un momento all'altro a questi selvaggi che sono per natura diffidenti.
– Armi, denari e miracoli! – esclamò Yanez. – Con tutto ciò si domano anche gli antropofaghi della Malesia. E non sapere per quali cause quell'uomo se la prende con noi!
– Con me e con mia figlia – corresse Tremal-Naik.
– Per ora e poi?... E poi non mi fiderei delle promesse di quell'impostore. Toh! Ecco il parlamentario che ritorna. Comincia a diventare noioso lui e anche il suo tamburone. Se si mostra ancora gli farò tirare nelle gambe una scarica di pallottole o di chiodi.
– Uomo bianco – disse il parlamentario, quando giunse sotto il terrazzo. – Il pellegrino mi manda a dire che egli compirà dinanzi a te un miracolo stupefacente che nessun altro uomo potrebbe fare, per dimostrare a te ed ai tuoi uomini la sua invulnerabilità.
– Vuole che io provi sul suo corpo la penetrazione delle palle della mia carabina? – chiese Yanez beffardamente.
– Egli si propone di eseguire dinanzi ai tuoi occhi la prova del fuoco e vuol mostrarti come ne uscirà incolume per la protezione celeste che gode. Chiede solo che tu gli conceda una zona di terreno in prossimità del kampong, in modo che tu possa ben osservarlo.
– E poi?
– Non ti basta?
– Domando che cosa farà dopo.
– Aspetterà la tua decisione.
– Che sarebbe?
– Di consegnargli nelle sue mani l'indiano e sua figlia, perché dopo una simile prova non ti rimarrà più alcun dubbio che egli non sia un semidio, contro cui nessuno potrebbe lottare, né tu, né i tuoi uomini e nemmeno la Tigre della Malesia, quantunque la si dica invincibile.
– Giacché il pellegrino è così gentile da offrirci uno spettacolo, digli che noi non ci opponiamo. Ci servirà almeno di svago.
– Tu non credi, uomo bianco, che il pellegrino possa subire una simile prova?
– Te lo saprò dire quando avrò veduto quel miracolo.
– E ti arrenderai allora?
– Questo poi non te lo posso dire per ora.
– I tuoi uomini disarmeranno subito e ti abbandoneranno.
– Va bene: aspetterò che gettino a voi i loro fucili – rispose Yanez col suo sorrisetto ironico.
Non era trascorso un quarto d'ora da che i due parlamentari avevano fatto ritorno per la seconda volta all'accampamento, quando Yanez e Tremal-Naik, che non avevano abbandonato il terrazzo, curiosi di godersi quel miracolo, videro due drappelli di dayaki, formati d'una quindicina d'uomini ciascuno, tutti disarmati, accostarsi al kampong portando delle grandi ceste colme di pietre per la maggior parte piatte, che dovevano aver raccolte di certo nel letto di qualche ruscello.
Si fermarono a cinquanta passi dal terrazzo e si misero a disporle in modo da formare una specie di aia, larga una mezza dozzina di metri e lunga il doppio.
– Preparano il letto del braciere – disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava.
Ripartiti i due drappelli, se ne avanzarono due altri carichi di legname resinoso che accumularono sulle pietre e che poi accesero lasciandolo avvampare per un paio d'ore. Yanez, Tremal-Naik e tutta la guarnigione, eccettuate le sentinelle, avevano assistito pazientemente a quei preparativi, tenendosi al riparo degli alberi i cui rami fronzuti proiettavano una fresca ombra sulle terrazze costruite sulla cinta per permettere ai difensori di far fuoco più comodamente.
I dayaki, che da quanto si poteva capire, ci tenevano a mostrare all'uomo bianco – essere superiore per loro – i miracoli del pellegrino, a poco a poco si erano radunati intorno al falò, senza che i difensori del kampong si fossero presi la briga di protestare, essendosi avanzati tutti inermi.
– Ecco un divertimento che non godremo mai più – aveva detto Yanez. – E che non produrrà alcun effetto, almeno sui miei tigrotti.
– E nemmeno sui miei malesi e giavanesi – aveva aggiunto Tremal-Naik. – Già non credono in Allah come questi fanatici imbecilli. Chi può essere stato a far conoscere a questi selvaggi la religione maomettana?
– Gli arabi antichi, mio caro – rispose il portoghese. – Non sai tu che quegli intrepidi navigatori conoscevano e percorrevano queste regioni, quando gli europei non sapevano nemmeno che esistessero in questa parte del globo le grandi isole malesi?
«Tu non conosci certo Tolomeo che visse 166 anni dopo la nascita di Gesù Cristo, il dio dei cristiani. Ti posso però dire che fino da quell'epoca gli arabi conoscevano perfettamente i malesi, la Chersoneto Aurea ove si poneva il monte Ofir, che altro non sarebbe che Sumatra; Glabadiva che è l'attuale Giava; i Satiri che sono Battias, gli antropofaghi. Eh! Guarda il pellegrino che si avanza! Quel birbone si lascierà bruciare le piante dei piedi per dare ad intendere ai suoi fanatici che è un semidio, un essere superiore, un vero discendente del gran Profeta? Io ammiro la sua forza d'animo.»
– Ed io vorrei ucciderlo con un buon colpo di fucile o di spingarda – rispose Tremal-Naik.
– Non commettiamo un simile assassinio, amico mio. Dobbiamo essere gli ultimi a rispondere alle provocazioni. Siamo persone civili, noi.
Un urlo immenso li avvertì che il pellegrino stava per lasciare l'accampamento onde mostrare all'uomo bianco ed ai suoi guerrieri la sua invulnerabilità e la sua potenza di essere superiore.
Darma, la gentile e graziosa anglo-indiana, aveva raggiunto suo padre e Yanez.
Anche i Tigrotti di Mompracem si erano radunati sul terrazzo, appoggiando le carabine ai parapetti, temendo qualche sorpresa da parte di quei selvaggi nei quali non avevano nessuna fiducia.
Il pellegrino si avanzava verso la via formata dalle pietre, rese ardenti da due ore di fuoco continuo.
Aveva sul capo il suo turbante verde ed il viso nascosto da un piccolo drappo di seta d'egual colore. Il corpo invece era avvolto in una specie di camicia assai attillata, di nanchino giallo, che gli scendeva fino alle ginocchia ed i suoi piedi erano nudi.
– O che quell'uomo è un gran ciurmatore od una vera salamandra – disse Yanez.
– Forse che i fachiri dell'India non passeggiano sui tizzoni ardenti, invece che sulle pietre arroventate? – disse Tremal-Naik. – Non ricordi della festa di Darma Ragia, dove tu hai conosciuta l'adorabile Surama, la nipote del rajah di Gualpara?
– Per Giove! Se me ne ricordo – rispose Yanez.
– Anche in quella festa i fanatici correvano sulle brace.
– Ma uscivano da quell'inferno zoppi, mentre questo demonio di pellegrino promette di passeggiare su quelle pietre scaldate a bianco senza alcun malanno.
– Lo vedremo, Yanez, a meno che non sia un gran fachiro.
– Apri gli occhi, Darma – disse Yanez, vedendo la fanciulla curvarsi sul parapetto. – Non mi fido di quei bricconi.
– Che cosa temete, signor Yanez?
– Eh! Un colpo di carabina si fa presto a spararlo.
– Non hanno alcuna arma – rispose Darma.
– Sì, visibile. Avanti, signor discendente di Maometto, mostrateci il vostro miracolo.
Il misterioso avversario di Tremal-Naik era giunto dinanzi all'aia lastricata di pietre che doveva proiettare un calore assolutamente intollerabile.
Stette un momento raccolto in se stesso, colle mani alzate e gli sguardi fissi verso occidente, ossia in direzione del lontanissimo sepolcro del Profeta, agitò per qualche po' le labbra come se recitasse una preghiera, poi si slanciò risolutamente sulle pietre, gridando per tre volte, con voce rimbombante:
– Allah! Allah! Allah!
Quindi con passo sicuro, insensibile all'ardente calore che saliva dalle pietre, coi piedi e le gambe nude, s'avanzò sull'aia, a passi lenti, senza che gli sfuggisse un moto che tradisse qualche dolore.
I dayaki, stupiti, ammaliati da una simile prova, lo guardavano con profonda ammirazione, alzando le braccia.
Quell'uomo per loro doveva essere assolutamente un semidio, un vero discendente del grande Profeta.
Il pellegrino compiuta la traversata si fermò un momento, poi ritornò sui suoi passi, sempre calmo, sempre impassibile, come se passeggiasse su un prato anziché su delle pietre che potevano cuocere benissimo del pane.
– Costui deve essere un figlio di compare Belzebù! – esclamò Yanez, che non poteva fare a meno di ammirare lo stoicismo di quell'uomo. – Come può resistere a quel calore? Eppure i suoi piedi sono nudi e qui non vi può essere alcun trucco.
– Quell'uomo deve essere insensibile come una vera salamandra – disse Tremal-Naik.
Il pellegrino, compiuta la seconda prova, volse il viso mascherato dal drappo verso Yanez, guardandolo per qualche istante, poi si allontanò a lenti passi, dirigendosi verso la sua tettoia, mentre i dayaki in preda ad una vera esaltazione, urlavano a squarciagola:
– Allah! Allah! Allah!
Qualche minuto dopo, mentre i guerrieri raggiungevano i loro accampamenti, precipitandosi verso il pellegrino, il parlamentario, accompagnato dal suo tamburino, si presentava per la terza volta sotto la terrazza.
– Che cosa vuoi ancora, uomo noioso? – gli chiese Yanez.
– Vengo a chiederti se dopo una simile prova data dal discendente del gran Profeta tu ti sei deciso ad arrenderti – disse il guerriero.
– Ah! È vero, dovevo darti una risposta – disse Yanez. – Dirai dunque al figlio o nipote o pronipote di Maometto, che io lo ringrazio dell'interessante spettacolo che si è degnato di offrire a noi, poveri miscredenti.
Poi levandosi, con un gesto superbo, un magnifico anello che portava in un dito, lo gettò al parlamentario stupito, aggiungendo:
– E questa è la sua ricompensa!...
L'ASSALTO AL KAMPONG
Nelle isole malesi e anche in quelle polinesiane, la prova del fuoco è molto in uso anche oggidì, ma non serve come da noi un tempo, per provare l'innocenza di qualcuno incolpato o d'un omicidio o d'un furto, bensì come una cerimonia religiosa.
Ed infatti non sono che i sacerdoti che in certe epoche dell'anno, per propiziarsi le divinità più o meno celesti, fanno la passeggiata non già sui carboni accesi come i fanatici indiani, ma invece su pietre rese ardentissime.
Quella cerimonia si eseguisce per lo più su un piano di pietroni che misura ordinariamente tre metri di lunghezza e mezzo di larghezza.
I sacerdoti accendono i fuochi all'alba e li mantengono fino al pomeriggio; poi, accompagnati da alcuni discepoli, sbarazzano le ceneri ed i tizzoni, pronunciano alcune parole rituali che sono indispensabili secondo loro, battono con un ramo di dracina l'orlo del braciere, quindi s'avanzano sulle pietre a piedi nudi, attraversandole lentamente.
La lunghezza del passo non è indicata, ma si suppone che i piedi debbono toccare almeno tre volte e qualche volta anche di più.
Come fanno a resistere, e quello che è più, ad uscire incolumi da quella prova? Mistero!
Essi attribuiscono la loro invulnerabilità, alla mana, un potere misterioso che permette agli iniziati di attraversare le pietre ardenti senza riportare alcuna scottatura, potere che non è riprodotto da alcun simbolo e che si può trasmettere semplicemente colla parola.
Comunque sia il fatto, si è che escono dalla terribile prova assolutamente incolumi.
Un viaggiatore europeo, il colonnello inglese Gudgeon, ha voluto alcuni anni or sono tentare anche lui la prova assieme ad alcuni compagni, in un'isola dell'Oceano Pacifico, durante una cerimonia religiosa, certo di non cavarsela senza dolorose scottature. Ebbene, lo credereste? Il coraggioso colonnello uscì dalla prova non meno illeso dei sacerdoti! Uno solo dei suoi compagni, che aveva pure ricevuto la mana, ossia quel potere misterioso che come dicemmo si trasmette colla parola, riportò delle bruciature non lievi, ma la colpa era stata tutta sua, secondo i sacerdoti.
Egli aveva avuto il torto di guardarsi indietro, cosa che è severamente vietata per chi ha ricevuto la mana, una scusa evidentemente trovata dai sacerdoti per salvare la dignità del rito.
Come il colonnello poté reggere la prova e attraversare quelle pietre, che ancora un'ora dopo compiuta la cerimonia erano così ardenti che gettatevi delle radici di ti presero subito fuoco? L'inglese non lo seppe mai dire.
Raccontò d'aver provato solamente un gran calore per tutto il corpo e qualche cosa ai piedi, come delle leggiere scosse elettriche e nulla di più, scosse però che gli durarono per sette od otto ore di seguito. La pelle dei piedi invece non riportò alcuna scottatura.
Nella Nuova Zelanda le prove del fuoco sono invece più terribili e si dice che il dono di poter resistere è privilegio di solo pochi membri di talune famiglie e di talune caste.
Colà non si tratta di attraversare un semplice strato di pietre, bensì di passeggiare entro una specie di forno circolare, del diametro di una diecina di metri e di rimanervi venti o trenta secondi.
La temperatura che regna in quei forni è così elevata che una volta, un viaggiatore volendo misurarla, vide fondersi la cornice metallica del termometro ed il mercurio salire tutto. E notate che la graduazione era di 200 gradi!
Come possono resistere quegli uomini-salamandra? Anche questo è un mistero; eppure resistono ed escono da quella terribile prova perfettamente incolumi.
Non era quindi da meravigliarsi se anche il misterioso pellegrino della Mecca, che doveva essere nondimeno un uomo assolutamente straordinario, aveva potuto dare quella prova per fanatizzare vieppiù i suoi guerrieri piuttosto che impressionare Yanez ed i difensori del kampong, troppo furbi per cadere stupidamente nell'agguato e di offrire le loro teste ai kampilang di quei sanguinari selvaggi.
Lo sprezzo fatto dal portoghese, di pagare cioè il pellegrino come se si fosse trattato d'un istrione o d'un clown, doveva scatenare la collera, appena repressa, dei tagliatori di teste e rendere doppiamente furioso il pellegrino.
Ed infatti il parlamentario era appena tornato all'accampamento che un clamore spaventevole echeggiò intorno al kampong, clamore che pareva prodotto più da centinaia di belve feroci che da esseri umani.
– Eccoli diventati feroci come le scimmie rosse quando mangiano il pimento – disse Yanez, ridendo. – Avremo una guerra senza quartiere. Bah! Ci difenderemo fino a che avremo una cartuccia o fino a che non ci sarà più un dayako vivo.
Poi alzando la voce gridò:
– Ragazzi miei, raggiungete i vostri posti e picchiate più sodo che potete. Non dimenticate che se cadete nelle mani di quei bruti, la minor cosa che vi possa toccare è quella di perdere la testa sotto un colpo di kampilang.
Tigrotti di Mompracem, malesi e giavanesi, si erano precipitati ai loro posti di combattimento, risoluti ad opporre la più accanita resistenza ed a bruciare perfino l'ultima cartuccia, poiché la prova del pellegrino non aveva scossa per nulla la loro fiducia.
Erano d'altronde sicuri di infliggere a quelle orde assai disordinate una tremenda lezione. Riparati dietro stecconate di legno di tek che potevano sfidare il fuoco dei lila e anche dei miriam e tutti tiratori scelti, non temevano un attacco, specialmente sotto la direzione di Yanez che godeva non meno fama della formidabile ed invincibile Tigre della Malesia.
Tutti, senza contare i Tigrotti di Mompracem, erano stati scorridori del mare, l'unica professione proficua in quei paesi che quantunque ricchissimi non avevano, almeno allora, commercio alcuno.
Con quegli uomini, risoluti a vendere cara la pelle, sapendo che non avrebbero avuto quartiere, i dayaki dovevano avere un osso ben duro da rodere.
Vedendo gli assedianti radunarsi intorno alla tettoia del pellegrino, tigrotti, malesi e giavanesi si erano affrettati a occupare gli angoli della cinta da dove potevano spazzare colle spingarde la pianura.
Yanez e Tremal-Naik invece erano rimasti sul terrazzo sovrastante la saracinesca, certi che i dayaki avrebbero tentato verso quel punto il loro sforzo supremo.
Avevano messa in batteria la spingarda più grossa del kampong, servita da sei pirati di Mompracem ed avevano mandato Sambigliong, sulla torretta, il miglior punto per spazzare la pianura.
– Darma – disse il portoghese, vedendo i dayaki formare le colonne d'assalto. – Questo non è il tuo posto, quantunque sappia che tu adoperi la carabina come un fuciliere di marina. Fra poco i lila e di miriam di quei bricconi lancieranno palle in abbondanza sulla cinta e non voglio che ti esponga ad un simile pericolo.
– Credete dunque che il pellegrino lancierà all'attacco i suoi uomini? – chiese la fanciulla.
– Vedi, ci sono a questo mondo degli uomini che non sanno essere riconoscenti.
– Non vi capisco, signor Yanez.
– Io ho pagato quell'uomo pel divertimento che ci ha offerto, con un anello che non valeva meno di mille fiorini nelle mani di un ebreo, ed ecco quel birbante che mi ricompensa con un attacco all'arma bianca. Vale la pena di essere generosi in questo mondaccio cane? Se io avessi dato un simile regalo ad un clown e ad un istrione del mio paese, sono certo che ci avrebbe portato sulle sue spalle perfino in Ispagna, magari sulla Sierra Guadarrama. Che mondo furfante!...
– Ah! Signor Yanez! – esclamò Darma ridendo. – Voi scherzerete anche quando sarete lì lì per andarvene nel regno delle tenebre.
– Ridi! – disse il portoghese. – Hai del buon sangue, fanciulla mia! Ridi mentre la morte ci minaccia tutti!
– Con voi e coi vostri tigrotti non ho paura dei dayaki.
Un colpo di cannone interruppe il dialogo. Gli assedianti avevano fatto tuonare il loro miriam.
La palla passò, con un lungo sibilo, sopra la cinta e cadde dall'altra parte del kampong senza aver causato alcun danno.
– Bisogna rettificare la mira, miei cari, o non farete nulla – disse Yanez.
– Presto, Darma, ritirati – disse Tremal-Naik. – Le palle non rispettano nessuno.
– Nemmeno le belle fanciulle – aggiunse Yanez.
– E dovrò rimanere inoperosa mentre voi avete bisogno di gente? – chiese Darma.
– Se avremo bisogno d'una carabina di più ti chiameremo – rispose Tremal-Naik. – Nelle stanze pianterrene del bungalow tu non correrai alcun pericolo.
Quattro colpi rimbombarono in quel momento, l'uno dietro l'altro. Dopo il miriam avevano fatto fuoco i piccoli lila mandando le loro palle contro le grosse tavole della cinta.
– Va' – ripeté Tremal-Naik. – Non mi batterei bene se ti vedessi qui, esposta al tiro delle artiglierie. Va', e bada che i forni delle cucine non si spengano.
– I forni? – domandò Yanez mentre Darma baciato il padre scendeva la scala. – Vuoi offrire una colazione agli assedianti?
– Sì, ma vedrai di che specie – rispose l'indiano. – Un vero piatto infernale che li farà urlare come dannati. Eccoli che si muovono! A te la spingarda, Yanez, che sei un artigliere meraviglioso.
– Li mitraglierò per bene – rispose il portoghese, gettando via la sigaretta e accostandosi alla bocca da fuoco, la cui canna lunghissima minacciava la pianura.
I dayaki, che dovevano essere stati istruiti dal pellegrino, avevano formato quattro colonne d'assalto, di sessanta od ottanta uomini ciascuna e muovevano risolutamente verso il kampong, coprendosi coi loro immensi scudi quadrati, di pelle di tapiro o di bufalo, armati solamente di kampilang. Una quinta colonna, formata esclusivamente di moschettieri, erasi sparsa invece per la pianura in catena, per appoggiare l'attacco, insieme ai lila ed ai miriam.
– Il pellegrino deve essere stato un soldato – disse Yanez. – Tuttavia dubito che la sua tattica abbia buon successo. Quando i dayaki si slancieranno all'assalto romperanno le loro file. La disciplina militare non può aver fatto presa su questi guerrieri selvaggi. Musica, avanti!
I dayaki cominciavano a sparare violentemente. I colpi di cannone si alternavano con scariche nutrite di carabine, senza grande successo, poiché le grosse tavole di legno di tek delle cinte non erano facili a sfondarsi ed i difensori del kampong erano ben protetti dai parapetti.
Per di più gli alberi spinosi che si stendevano tutto all'intorno e che avevano rami e fronde fittissime, non permettevano ai fucilieri nemici di poterli mirare.
La spingarda collocata sulla piattaforma della torricella aveva tirato il primo colpo contro la colonna, che muoveva verso il punto dove si trovava la saracinesca e la sua palla, di buon calibro, lanciata da Sambigliong, che era un valente artigliere, non era andata perduta.
– La prima goccia di sangue è stata sparsa – disse Yanez. – Speriamo che diventi un fiume.
Dai quattro angoli del kampong le Tigri di Mompracem, a cui era stato affidato il servizio delle spingarde, si sparava con un crescendo assordante.
Non potendo quelle piccole bocche da fuoco controbattere il tiro dei lila e sopratutto dei miriam, sparavano contro le colonne d'assalto, con palle da una libbra, facendo dei larghi vuoti.
Le carabine indiane, maneggiate dai malesi e dai giavanesi della fattoria, tutte di tiro lunghissimo, appoggiavano vigorosamente il fuoco delle spingarde, mettendo a dura prova il coraggio degli assalitori.
Yanez non perdeva tempo. Sparava un colpo di carabina la cui palla abbatteva quasi sempre un uomo, poi balzava alla spingarda appena era stata ricaricata e prendeva d'infilata la colonna che s'avanzava verso la saracinesca, facendo dei tiri veramente meravigliosi, che stupivano lo stesso Tremal-Naik e che strappavano grida di entusiasmo ai malesi ed ai giavanesi del kampong.
I dayaki, che non si sentivano troppo sostenuti dalle loro artiglierie dirette da pessimi tiratori, né dai loro fucilieri, più abili nel lanciare freccie che palle, cercavano di affrettare il passo, incoraggiandosi con urla ferocissime e coprendosi più che potevano coi loro scudi, come se non potessero venire attraversati dai proiettili delle carabine indiane degli assediati. Il fuoco del kampong, vigorosissimo, li decimava per bene. Le loro colonne soffrivano perdite immense e tuttavia non si scompaginavano ancora.
Quando però le spingarde cominciarono a scagliare addosso a loro nembi di mitraglia, coprendoli di chiodi e di frammenti di ferro, si videro oscillare e le linee si aprirono qua e là.
– Avanti! – gridava Yanez, che non si prendeva nemmeno la briga di ripararsi dietro il parapetto. – Date dentro e finiremo per mandarli a rotoli. Mitragliateli alle gambe!
Ed il fuoco aumentava sempre, coprendo le bande di una vera pioggia di piombo, di ferro e di chiodi.
Tigri di Mompracem, malesi e giavanesi, gareggiavano in bravura ed in audacia, risoluti a non permettere ai dayaki di giungere sotto le cinte e di slanciarsi all'attacco.
Soprattutto le spingarde facevano delle vere stragi gettando a terra, ad ogni scarica di mitraglia, un buon numero d'uomini. Non producevano ferite mortali, è vero, ma mettevano i guerrieri fuori di combattimento, rovinando loro le gambe.
Nondimeno, malgrado le enormi perdite, quegli ostinati selvaggi non accennavano ancora ad arrestarsi. Anzi con un ultimo slancio giunsero ben presto dinanzi alla zona alberata, gettandosi coraggiosamente in mezzo alle spine dove si appiattarono per prendere un po' di riposo e per riordinarsi prima di tentare l'ultimo sforzo.
– Quella è vera carne da cannone – disse Yanez, la cui fronte si era abbuiata. – Non credevo che potessero spingersi così vicini. È bensì vero che non sono ancora sulle cinte e che se le spingarde diventano pel momento inutili, tuttavia le carabine e le pistole avranno ancora buon giuoco.
– Non inquietarti, amico mio – disse Tremal-Naik. – Ho preparato loro una sorpresa che produrrà sulla loro pelle maggior effetto dei chiodi.
– Ma intanto ci sono sotto.
– Lasciali venire. D'altronde le cinte sono alte e le tavole di tek così grosse che i loro kampilang si smusseranno senza riuscire a spaccarle.
– M'inquieta il fuoco dei loro pezzi.
– Tirano così male!
– Che cosa fanno? Non li odo più.
– S'avanzano strisciando tra le spine.
– È bene assicurata la saracinesca?
– Ho fatto mettere le caviglie di ferro e nessuno potrà alzarla. Eccoli!
Mentre i lila ed i miriam continuavano a tuonare, aprendo nei panconi delle cinte qualche foro appena sufficiente per lasciar passare una mano ed i fucilieri s'avanzavano, sempre disposti in catena, strisciando al suolo e nascondendosi dietro i piccoli rialzi di terreno e dietro i tronchi abbattuti per sfuggire alle scariche della spingarda collocata sul minareto, che non aveva cessato di far fuoco, gli assalitori s'aprivano con precauzione il passo fra le piante spinose.
Essendo quasi tutti nudi ed i cespugli e gli arbusti foltissimi e formidabilmente armati di punte acutissime, l'impresa era tutt'altro che facile e lo provavano le grida di dolore che di quando in quando mandavano gli assalitori, che non potevano frenare.
– La loro carne va a brandelli – disse Yanez, che curvo sul parapetto, fra l'apertura lasciata da due sacchi di sabbia collocati dinanzi alla spingarda, li spiava. – Mordono le spine, miei cari.
– Eppure passano egualmente quei demoni. Ecco lì il primo che striscia lungo la cinta.
– E che non andrà a raccontare ai suoi compagni se è più o meno solida – aggiunse il portoghese.
Puntò la carabina e sparò quasi senza mirare. Il dayako che era riuscito, a prezzo di chissà quali punture, ad attraversare quella formidabile barriera, si levò di colpo sulle ginocchia allargando contemporaneamente le braccia e cadde col cranio attraversato dal proiettile, mandando un urlo rauco.
– Fuoco in mezzo alle piante! – gridò Yanez. – Ci sono sotto.
Poi facendo girare la spingarda sul perno e abbassando la canna più che poté, lanciò una bordata di mitraglia di traverso, mentre i Tigrotti di Mompracem, i malesi ed i giavanesi ricominciavano il fuoco massacrando arbusti ed assedianti insieme. Vociferazioni spaventevoli s'alzarono sotto le piante, segno evidente che non tutti i colpi erano andati perduti, poi una valanga d'uomini si rovesciò verso la saracinesca assalendola a colpi di kampilang, mentre i lila ed i miriam raddoppiavano il fuoco, cercando di mandare le loro palle sulle terrazze per allontanare i difensori.
Tremal-Naik aveva mandato un lungo fischio.
Subito si videro uscire dalla cucina otto uomini che portavano delle enormi caldaie che spandevano all'intorno un fumo acre e denso.
Salirono rapidamente la scala, deponendo le caldaie sul terrazzo sovrastante la saracinesca.
– Per Giove! – esclamò Yanez, sentendosi avvolgere da quel fumo che gli strappava dei colpi di tosse. – Che cosa portate qui?
– Guardati, Yanez! – gridò Tremal-Naik. – Lascia il posto a questi uomini.
– Ma gli altri cominciano a montare.
– Il caucciù bollente li farà ridiscendere.
Gli otto uomini, armatisi di giganteschi mestoli, cominciarono a rovesciare il liquido fumante contenuto nelle caldaie.
Urla orribili, strazianti, s'alzarono tosto alla base della cinta. I dayaki, spaventosamente ustionati dal caucciù bollente che veniva gettato dall'alto della cinta e senza alcuna economia, si erano scagliati come pazzi in mezzo alle piante, fuggendo a precipizio.
Una mezza dozzina di loro, che avevano ricevuto le prime palate del terribile liquido, si dimenavano e si contorcevano dinanzi alla saracinesca, ululando lugubremente come lupi idrofobi.
– Per Giove! – esclamò Yanez, facendo un gesto d'orrore. – Questo indiano ha avuto una trovata magnifica! Cucina vivi quei poveri diavoli!
I dayaki fuggivano anche dalle altre parti, poiché anche da quelle terrazze gli assediati avevano cominciato ad aspergere coloro che avevano tentato di scalare la cinta.
Il fuoco intenso delle spingarde e delle carabine, completava la sconfitta degli assedianti i quali ormai non pensavano ad altro che a porsi fuori di portata dalle armi da fuoco dei difensori del kampong ed a rifugiarsi nei loro accampamenti.
Invano i fucilieri avevano tentato di accorrere in aiuto delle colonne di assalto che si ripiegavano confusamente. Una bordata di mitraglia lanciata da tutte le spingarde li persuase a seguire i fuggiaschi.
Due minuti dopo intorno al kampong non restavano che i morti e qualche ferito che stava per esalare l'ultimo respiro.
IL RITORNO DI KAMMAMURI
I dayaki, convinti di non essere in grado di prendere d'assalto il kampong, dopo la disastrosa prova fatta che aveva causato alle loro file delle perdite gravissime, avevano cominciato il vero assedio, sperando che la fame costringesse i difensori a capitolare.
Avevano formato intorno alla pianura quattro campi trincerati, per premunirsi da una possibile sortita degli assediati, rinforzandoli con trincee innalzate certamente dietro le istruzioni del pellegrino che si svelava ogni giorno di più uomo di guerra.
Inoltre, avevan portate le loro artiglierie molto innanzi, scavando due trincee parallele, tribolando non poco gli assediati con un vivissimo cannoneggiamento che, se non causava veramente gravi danni, obbligava Yanez, Tremal-Naik ed i loro uomini ad una continua guardia, temendo che fosse sempre il preludio d'un nuovo assalto.
Cinque giorni erano così trascorsi, dal primo tentativo d'attacco, con gran spreco di munizioni da parte dei dayaki e molto fracasso. L'unico successo ottenuto era stata la demolizione della torricella che essendo troppo esposta, era caduta pezzo a pezzo, obbligando i difensori a ritirare la spingarda e ad abbandonare quel posto.
Yanez cominciava ad annoiarsi. Uomo d'azione ed irrequieto, non ostante sembrasse l'uomo più flemmatico del mondo, trovava che la cosa andava troppo per le lunghe e che anche le sigarette, che consumava in quantità prodigiosa, non bastavano più a distrarlo.
Eppure non mancava nulla nel kampong. I magazzini erano ben forniti, le tettoie erano piene di gabà, di quel bellissimo riso che coltivano i giavanesi e che supera di gran lunga quello di Rangoon, nel recinto interno le galline selvatiche razzolavano in gran numero pronte ad offrirsi agli stomachi degli assediati senza protestare; le frutta non facevano difetto e le cantine erano piene di enormi vasi di terra colmi di bram, quel forte liquore ottenuto dalla fermentazione del riso mescolato con zucchero e succhi di varie palme. Che più? La guarnigione poteva, nelle ore più calde del giorno, dissetarsi con del buon kalapa, quella bibita rinfrescante racchiusa nelle noci di cocco, essendovi delle palme di quella specie intorno all'aia e fumare senza risparmio del delizioso cortado, quei profumati sigari di Manilla e dei rorok giavanesi, piccoli sigaretti rotolati in una foglia secca di nipa, che sono così gradevoli.
– Che cosa ti manca per annoiarti, amico? – gli chiese sul cader del quinto giorno l'indiano, vedendo che Yanez appariva più annoiato che mai. – Io credo che nessuna guarnigione assediata si sia trovata fra tanta abbondanza.
– Questa calma mi sfibra – aveva risposto il portoghese.
– Calma la chiami! Ma se le artiglierie del nemico tuonano da mane a sera!
– Per bucare semplicemente dei panconi che non hanno mai fatto male ad alcuno e che non protestano.
– Vorresti che le palle bucassero i nostri uomini?
– Tu hai ragioni da vendere, mio caro Tremal-Naik, eppure io vorrei andarmene di qua.
– Non hai che da far alzare la saracinesca. Io però al tuo posto preferirei passeggiare intorno al bungalow – rispose l'indiano ridendo. – Io credo che la tua irrequietezza dipenda dall'assoluta mancanza di notizie di Sandokan.
– Anche questo è vero. Vorrei sapere come si svolgono le cose a Mompracem e sospiro il ritorno di Kammamuri.
– Lasciagli il tempo necessario.
– Dovrebbe essere già qui.
– La regione che ha dovuto attraversare per raggiungere la costa non è sempre sicura, mio Yanez, e può aver trovato sul suo cammino non pochi ostacoli. Saliamo sul terrazzo della saracinesca e andiamo a dare uno sguardo agli assedianti prima che il sole tramonti.
Lasciarono il salotto dove avevano appena allora terminata la cena in compagnia di Darma e si portarono verso le cinte.
Gli uomini di guardia, che erano i giavanesi, toccando a loro quella notte vegliare, stavano terminando il loro pasto serale, a cavalcioni dei parapetti divorando con invidiabile appetito i loro piatti stravaganti.
Chi dava dentro, senza preoccuparsi delle palle dei nemici che di quando in quando si cacciavano nei panconi con sordo fragore, al blaciang, quel puzzolento intruglio formato di gamberetti e di piccoli pesci conservati entro vasi di terra, e lasciati fermentare fino a corrompersi; o all'ud-ang, una specie di pasta formata di crostacei seccati e poi ridotti in polvere; od ai pasticci di laron, formati con larve di termiti, un piatto scelto e gustosissimo pei palati giavanesi e malesi.
Pareva che l'assedio non avesse ancora guastato l'appetito di quei bravi, dal lavoro energico che compivano i loro denti neri come chiodi di garofano, per l'abuso del siri e del betel.
Yanez e Tremal-Naik erano appena saliti sul parapetto, quando notarono nei campi dei dayaki un certo movimento.
Dei capi radunavano attorno a loro numerosi guerrieri e pareva che facessero loro dei discorsi infuocati a giudicarlo dall'agitarsi furioso delle braccia, mentre in altri luoghi si eseguivano le danze guerresche dei kampilang e dei kriss. Il sole in quel momento stava per tramontare fra un denso nuvolone nero che pareva saturo di elettricità e che aveva i margini color del rame.
– Un attacco ed un uragano? – si chiese Yanez che aspirava l'aria che era diventata estremamente secca. – Che cosa ne dici, Tremal-Naik?
– Una bufera l'avremo questa notte – rispose l'indiano, che guardava pure il nuvolone il quale si allargava a vista d'occhio.
– Con accompagnamento di fuoco celeste e terrestre. Io sono certo che i dayaki, stanchi di cannoneggiare inutilmente le nostre cinte, approfitteranno della tromba d'acqua per venire all'attacco.
– Ed il momento non sarebbe davvero male scelto. Si spara male quando si ha l'acqua in volto.
– Copriamo le terrazze, Tremal-Naik. In mezz'ora i nostri uomini possono alzare delle tettoie per riparare almeno gli artiglieri. Per Giove! Che questa volta ci prendano davvero?
– Finché avremo del caucciù non lo credo.
– Fa' riempire tutte le pentole che possiedi.
– Vo a dare l'ordine – rispose l'indiano scendendo precipitosamente.
Yanez stava per recarsi verso l'angolo della cinta, dove si trovava una spingarda, quando una freccia lanciata probabilmente da un sumpitam, ossia da una cerbottana, sibilò dinanzi a lui piantandosi contro uno dei pali che reggevano il terrazzo.
– Ah! Traditori! – esclamò Yanez, balzando verso il parapetto con una pistola in mano.
Guardò sotto le piante, mentre Sambigliong che stava mettendo in batteria la spingarda, accortosi del pericolo che aveva minacciato il portoghese, accorreva armato d'una carabina. Nessun ramo si agitava, né alcun rumore turbava il silenzio che regnava sotto gli arbusti spinosi fiancheggianti la cinta.
– L'avete veduto quel briccone, capitano? – chiese il mastro.
– Deve essere scappato subito – rispose Yanez.
– E forse quella freccia era avvelenata col succo d'upas.
– Vediamo – disse il portoghese, dirigendosi verso il palo.
Ad un tratto gli sfuggì un grido di stupore.
– Una freccia messaggera! – esclamò.
All'estremità del dardo, il cui cannello era solidissimo, aveva scorto qualche cosa di bianco, come un pezzo di carta arrotolata intorno al fusto.
– Allora non si tratta d'un tentato assassinio della mia rispettabile persona – disse.
Strappò la freccia, la cui punta formata da una spina acutissima, si era infissa profondamente nel legno e ruppe il filo che teneva la carta stretta attorno al cannello.
– Signor Yanez – disse Sambigliong. – Che i dayaki si servano ora delle frecce per mandare le lettere a destinazione? Ecco un servizio postale di nuovo genere.
– Che cosa c'è dunque? – chiese in quel momento Tremal-Naik, che aveva già dati gli ordini e tornava con Darma.
– Un portalettere sconosciuto che mi ha rimessa questa carta sulla punta d'una freccia – rispose Yanez. – Che contenga una intimazione di resa?
Svolse con precauzione la carta che era coperta di caratteri grossolani, vi gettò sopra uno sguardo, poi mandò un grido di gioia:
– Kammamuri!
– Il mio maharatto! – esclamò Tremal-Naik. – Leggi, leggi Yanez!
Sono nei dintorni del campo da stamane – scriveva il maharatto in inglese – e questa notte cercherò d'introdurmi nella fattoria coll'aiuto d'un ex servo che è ora fra i ribelli.
Lasciate pendere una fune dall'angolo che guarda verso il sud e preparatevi alla difesa. I dayaki sono pronti ad assalirvi.
Kammamuri
– Quel bravo maharatto qui! – esclamò Tremal-Naik. – Deve aver divorata la via per essere giunto così presto.
– Che sia solo? – chiese Darma.
– Se avesse dei tigrotti in sua compagnia l'avrebbe scritto – rispose Yanez.
– Avrà almeno la tigre – disse Tremal-Naik.
– A meno che non gliela abbiano uccisa! – disse Yanez.
– Chi può essere quell'ex servo che lo aiuta?
– Ve ne devono essere parecchi fra i ribelli – rispose Tremal-Naik. – Ne avevo una ventina di dayaki e non me n'è rimasto più uno dopo la comparsa del pellegrino.
– Signor Yanez – disse Sambigliong. – Mi troverò io questa notte verso l'angolo che guarda al sud.
– Tu sarai più necessario qui che colà – rispose il portoghese. – Non hai udito che i dayaki si preparano ad assalirci? Manderemo Tangusa col pilota. Ed ora, amici, prepariamoci a sostenere il secondo attacco, che sarà forse più formidabile del primo e non dimenticate che se i dayaki entrano qui le nostre teste andranno ad arricchire le loro collezioni.
La notte era allora calata, una notte oscurissima, che nulla prometteva di buono. La nube nera aveva invaso tutto il cielo, coprendo rapidamente gli astri e verso il sud balenava.
Una calma pesante regnava sulla pianura e sulle foreste. L'aria era soffocante al punto da rendere difficile la respirazione e così satura d'elettricità che tutti gli uomini del kampong provavano una viva irrequietezza ed un vero senso di malessere.
Anche nei campi dei dayaki tutto era oscuro e di là non proveniva alcun rumore. I lila ed i miriam da qualche ora non tuonavano più.
I difensori del kampong, dopo aver costruite frettolosamente le tettoie per riparare le spingarde, si erano sdraiati sui larghi parapetti delle terrazze, colle carabine a portata di mano, ascoltando ansiosamente i rumori del largo.
Yanez, Tremal-Naik e una mezza dozzina di tigrotti vegliavano sopra la saracinesca, dove avevano piazzata anche la bocca da fuoco che avevano ritirata dalla torricella.
Entrambi erano un po' nervosi e preoccupati. Quel silenzio che regnava negli accampamenti dei dayaki produceva su di loro maggior impressione che un fuoco violentissimo.
– Preferirei un attacco furioso a questa calma – disse Yanez che fumava rabbiosamente un cortado masticandone la punta. – Che si avanzino strisciando come serpenti?
– È probabile – rispose Tremal-Naik. – Non si faranno vivi che quando avranno attraversata la pianura e saranno giunti sotto le piante.
– O che aspettino l'uragano per rendere meno efficaci le nostre carabine? Quando qui piove è un diluvio che si rovescia.
– Il caucciù li calmerà e surrogherà le palle. Tutti i vasi disponibili sono al fuoco.
L'uragano intanto si addensava. Qualche soffio d'aria giungeva facendo curvare le cime degli arbusti spinosi con mille fruscii; verso il sud tuonava e lampeggiava. La gran voce della tempesta suonava la carica.
Ad un tratto un lampo immenso, simile ad una enorme scimitarra, tagliò in due l'enorme nube gravida di pioggia, poi si seguirono dei fragori paurosi. Pareva che lassù, nella volta celeste, si fosse impegnato un duello fra grossi cannoni di marina o da costa e che dei carri carichi di lamine di ferro corressero all'impazzata su dei ponti metallici.
Quel fracasso durò due o tre minuti con grande accompagnamento di lampi, poi le cateratte del cielo si aprirono ed una vera tromba d'acqua si rovesciò furiosamente sulla pianura.
Quasi nel medesimo istante si udirono le sentinelle collocate agli angoli delle cinte gridare:
– All'armi! Ecco il nemico!
Yanez e Tremal-Naik, che si erano coricati sul parapetto, erano balzati in piedi.
– Alle spingarde! – aveva gridato il portoghese con voce tuonante.
Alla luce dei lampi, luce vivissima perché era un bagliore continuo, con incessante accompagnamento di tuoni formidabili, si vedevano i dayaki attraversare la pianura a corsa sfrenata, a gruppi, a drappelli, coi loro giganteschi scudi alzati per proteggersi dai rovesci d'acqua.
Parevano demoni vomitati dall'inferno e l'illusione, con quel lampeggiare che proiettava sulla terra fasci di luce ora rossastra ed ora livida, ora cadaverica, era perfetta.
Le spingarde, che come dicemmo erano state coperte a tempo colle tettoie, avevano cominciato a sparare furiosamente, falciando le cime degli arbusti spinosi prima che la mitraglia cadesse sulla pianura.
Anche i malesi, i giavanesi ed i pirati che non erano occupati al servizio delle bocche da fuoco, sparavano come meglio potevano, rannicchiati dietro ai parapetti, ma l'acqua che cadeva era tanta e tanta che il più delle volte le carabine facevano cilecca.
La bufera rendeva la difesa estremamente difficile colle armi da fuoco, e non accennava a calmarsi, anzi! È vero che non doveva durare molto; gli uragani che scoppiano in quelle regioni acquistano una intensità spaventevole, di cui non possiamo farci un'idea, ma ordinariamente non si prolungano al di là d'una mezz'ora.
Anzi talvolta cessano dopo pochi minuti. Che furia però in quel brevissimo tempo! Pare che l'universo intero vada a catafascio o che un incendio immenso lo divori, non ostante le trombe d'acqua che si rovesciano dal cielo.
La nube nera pareva che fosse diventata di fuoco e che tutti i venti si fossero concentrati sulla pianura stendendosi intorno al kampong di Tremal-Naik.
Gli alberi si torcevano come fossero semplici fuscelli; i giganteschi durion che pareva dovessero sfidare le più tremende convulsioni terrestri e celesti, rovinavano al suolo sradicati da quelle raffiche irresistibili; i poderosi pombo si spogliavano rapidamente dei loro rami; le gigantesche foglie delle palme e dei banani volavano per l'aria come mostruosi volatili.
Acqua, vento e fuoco si mescolavano gareggiando di violenza, mentre in alto, sulla cima della cupola fiammeggiante, i tuoni facevano udire la poderosa voce della tempesta, soffocando completamente i rombi dei miriam, dei lila e delle spingarde.
I difensori del kampong, quantunque acciecati dai lampi e affogati sotto quei getti d'acqua colossali, non si smarrivano d'animo e mantenevano il loro fuoco vivissimo mitragliando le orde selvagge che si avanzavano mescendo le loro urla ai tuoni del cielo.
– Non arrestatevi! – gridavano senza posa Yanez, Tremal-Naik e Sambigliong, che si trovavano sotto la tettoia che riparava la spingarda della saracinesca.
I dayaki che non subivano già grosse perdite, non marciando più in colonna, ben presto giunsero sotto le piante spinose che si misero a sciabolare furiosamente coi loro pesanti kampilang, per aprirsi un varco che permettesse loro di montare liberamente all'assalto della cinta.
Tutto il loro sforzo si era concentrato verso la saracinesca che ormai conoscevano. Era quello il punto più solido del kampong, ma anche quello che offriva maggiori probabilità di poter invadere la fattoria. Alcuni drappelli si erano muniti di travi pesanti per servirsene come di arieti e sfondare i panconi della cinta.
Yanez e Tremal-Naik, comprendendo che stavano per giuocare la loro ultima carta, avevano fatti accorrere tutti i servi del kampong coi pentoloni colmi di caucciù. Quel liquido terribile, ancora una volta, poteva rendere maggiori servigi che le armi da fuoco.
I dayaki che massacravano rapidamente gli arbusti spinosi giungevano. Un drappello dopo essersi aperto un largo sentiero, sbucò sotto la cinta ed assalì risolutamente la saracinesca percuotendola poderosamente con un tronco d'albero spinto innanzi da trenta o quaranta braccia.
Una pioggia di caucciù bollente, che cadde sulle loro teste, bruciando ad un tempo i loro capelli e la cotenna, li costrinse ad abbandonare precipitosamente l'impresa.
Un altro non ebbe miglior fortuna; ma giungeva il grosso che la mitraglia delle spingarde non era riuscita a trattenere.
Due o trecento uomini, resi furibondi dall'ostinata resistenza che opponevano gli assediati, si rovesciarono contro la cinta appoggiando ai parapetti delle grosse canne di bambù per dare la scalata alle terrazze. Alle grida di Yanez e di Tremal-Naik, tutti gli uomini del kampong erano accorsi da quella parte, non lasciando che pochi artiglieri alle spingarde.
Avevano gettate le carabine, diventate quasi inutili con quell'acquazzone che non cessava ancora, ed avevano impugnati i parang, armi non meno pesanti e non meno taglienti dei kampilang dei dayaki.
Gli assalitori, non ostante gli spruzzi abbondanti del liquido infernale, montavano intrepidamente all'attacco con un coraggio disperato, mandando clamori orribili.
I primi che giungono sui parapetti, rotolano nel fossato sottostante colle mani tagliate o la testa spaccata, ma altri ne sopraggiungono menando formidabili colpi di kampilang per allontanare i difensori.
Si arrampicano come le scimmie, su pei bambù o balzandosi l'uno addosso all'altro formano delle piramidi umane che nemmeno il caucciù, che continua a venire versato, riesce a scuotere.
Mandano urla spaventevoli, la loro pelle cade a brandelli e fuma, eppure quei fanatici, incoraggiati dalla voce del pellegrino che echeggia in mezzo alle piante spinose, resistono con una tenacia che fa impallidire Yanez, il quale comincia a perdere buona parte della sua fiducia.
I difensori del kampong, sopratutto i Tigrotti della Malesia, non dimostrano tuttavia meno tenacia, né meno coraggio degli assalitori.
I loro parang, manovrati da braccia solide, tagliano nel vivo e mutilano orrendamente quelli che riescono a issarsi sui parapetti.
Mentre i dayaki urlano: «Allah! Allah! Allah!» né più né meno dei fanatici mussulmani delle sabbiose terre dell'Arabia, i pirati di Yanez rispondono con non meno entusiasmo:
– Viva Mompracem! Largo alle tigri dell'arcipelago!
Il sangue scorre a fiotti. Le palizzate della cinta grondano e le terrazze si arrossano.
Da una parte e dall'altra combattono con pari furore, mentre l'uragano imperversa sempre e somministra la luce ai combattenti onde possano scannarsi meglio.
La tenacia ed il coraggio dei dayaki, non guadagnano gran che. Tre volte i guerrieri del pellegrino, tutto sfidando, il fuoco delle spingarde collocate agli angoli che li prende di fianco con bordate di chiodi, i getti di caucciù ed i parang che li mutilano, sono mandati all'assalto e hanno raggiunti e anche scavalcati i parapetti e tre volte sono stati costretti a lasciarsi cadere nei fossati già pieni di morti e di feriti.
– Ancora uno sforzo! – urla Yanez, che vede gli assalitori esitare. – Uno sforzo ancora e avremo ragione di questi testardi.
Le spingarde raddoppiano il fuoco ed i malesi ed i giavanesi, che hanno avuto un momento di riposo, tornano a tagliare nel vivo, mentre i servi rovesciano gli ultimi vasi contenenti il caucciù.
L'attacco si rallenta, i dayaki tentano per la quarta volta la scalata, non più con lo slancio e col fanatismo di prima.
La paura comincia ad impossessarsi dei loro animi. Non invocano nemmeno più Allah.
Tuttavia il loro ultimo sforzo non è meno pericoloso. Sono ancora in buon numero, mentre la guarnigione si è assottigliata non poco, esposta al fuoco di alcuni tiratori nascosti sotto gli arbusti.
E poi la stanchezza comincia a farsi sentire. Le larghe sciabole pesano nelle mani dei malesi e dei giavanesi, se non in quelle dei tigrotti di Mompracem.
I tagliatori di teste tornano ad arrampicarsi, mentre i loro compagni che sono nel fossato, tentano con uno sforzo supremo di aprire una breccia nella saracinesca percuotendo i panconi colle travi.
Guai se i difensori si perdono d'animo. È finita per tutti, anche per la graziosa Darma!
Yanez volta la spingarda in modo che la mitraglia rada il parapetto, gridando contemporaneamente ai suoi uomini che stanno per avventarsi sugli assalitori che già si preparano a balzare sulle terrazze:
– Indietro... un momento solo!
Il colpo parte e la mitraglia spazza da un angolo all'altro della cinta, tutto il parapetto, fulminando o storpiando quanti nemici si trovano sopra.
Nel medesimo tempo i servi rovesciano tutte le caldaie ancora rimaste su coloro che s'accaniscono contro la saracinesca.
Il fumo si era appena dileguato, quando una tigre superba si scaglia sul parapetto, mandando un aoug ferocissimo, abbranca un dayako rimasto sospeso e miracolosamente illeso e gli pianta i denti nel cranio.
Alla vista di quel terribile carnivoro che i lampi incessanti mostrano come se fosse di pieno giorno, un terrore invincibile invade gli assalitori.
Se anche le belve della foresta accorrono in aiuto dell'uomo bianco e dell'indiano, vuol dire che gli uomini sono più potenti del pellegrino della Mecca.
La ritirata si converte in pochi istanti in una fuga precipitosa, disordinata. Dei selvaggi gettano perfino gli scudi ed i kampilang per correre più lesti.
Più nessuno obbedisce ai capi, né alle grida del pellegrino che invano si sfiata a urlare:
– Avanti per Allah! Maometto vi protegge!
Non erano dopo tutto così sciocchi per accorgersi che Allah ed il Profeta non li avevano affatto protetti.
Mentre scappavano a rotta di collo, spronati dai tiri delle spingarde, un uomo si era slanciato sulla terrazza, muovendo rapidamente verso Yanez e Tremal-Naik.
Era anche quello un bel tipo d'indiano di circa quarant'anni, meno alto di Tremal-Naik ed invece più membruto, dalla pelle abbronzata con certi riflessi dell'ottone, che spiccava vivamente sul suo vestito bianco, cogli occhi nerissimi e fieri ed i lineamenti fini ad un tempo ed energici.
Vedendolo Yanez aveva mandato un grido di gioia:
– Kammamuri!
– Il mio bravo maharatto! – aveva esclamato dal canto suo Tremal-Naik.
– Arrivo troppo tardi – rispose il nuovo arrivato, – è vero, padrone?
– In tempo per vedere i talloni dei dayaki, – rispose Tremal-Naik.
– Sei salito in questo momento? – chiese il portoghese.
– Sì, signor Yanez, ed è stato un vero miracolo se i vostri uomini non mi hanno ucciso. Mi arrampicavo sulla fune e proprio nel momento che tiravano una bordata di chiodi.
– Sei stato a Mompracem?
– Sì, signor Yanez.
– Dunque hai veduto la Tigre della Malesia?
– L'ho lasciata sette giorni or sono.
– Sei giunto solo?
– Solo, signor Yanez.
– Non hai condotto alcun rinforzo?
– No.
– Va' a rifocillarti, che devi essere stremato dalle privazioni. Fra poco noi saremo da te – disse Tremal-Naik. – Yanez, diamo gli ultimi colpi ai fuggiaschi e tu, Darma – gridò, volgendosi verso la tigre, che portava il medesimo nome di sua figlia. – Lascia quell'uomo e vattene in cucina.
L'ORGIA DEI DAYAKI
Dieci minuti dopo Yanez e Tremal-Naik, assicuratisi che i dayaki avevano sgombrato anche la zona alberata e che tutti si erano ripiegati sui loro accampamenti, certi di non venire più disturbati, almeno per quella notte, lasciavano la terrazza per raggiungere il maharatto.
L'uragano stava per calmarsi. La nera nube si era squarciata e attraverso uno strappo mostravasi la luna.
Solo in lontananza il tuono continuava a brontolare e si udiva il vento ululare sinistramente sotto le folte foreste che circondavano la pianura.
Trovarono Kammamuri nel salotto da pranzo, seduto dinanzi alla tavola, che divideva fraternamente un pollo arrostito colla tigre.
– È finita la battaglia, padrone? – chiese, rivolgendosi a Tremal-Naik.
– E spero che non avranno più desiderio di ritornare per qualche tempo – rispose l'indiano. – È la seconda sconfitta che subiscono.
– Quali nuove rechi da Mompracem? – chiese Yanez, sedendosi di fronte al maharatto. – Io sono stupito di averti veduto giungere senza una scorta. Gli uomini non mancano a Mompracem.
– È vero, signor Yanez, ma anche là sono non meno necessari di qui – rispose il maharatto.
Il portoghese e anche Tremal-Naik avevano fatto un gesto di stupore.
– Padrone, signor Yanez, io reco da Mompracem delle gravi notizie.
– Spiegati meglio – disse il portoghese. – Chi può minacciare il covo delle Tigri di Mompracem?
– Un nemico non meno misterioso del pellegrino, appoggiato dagl'inglesi di Labuan e dal nipote di James Brooke, il nuovo rajah di Sarawack.
Yanez aveva lasciato cadere un pugno così formidabile sul tavolo da far traballare i bicchieri e le bottiglie.
– Anche Mompracem minacciata! – esclamò.
– Sì, signor Yanez, e la cosa è più grave di quello che credete. Il governatore di Labuan ha notificato a Sandokan, che deve prepararsi a sgombrare l'isola.
– La nostra Mompracem? E per quale motivo?
– Egli ha scritto alla Tigre che la presenza degli antichi pirati costituisce un pericolo permanente per la tranquillità e per lo sviluppo della colonia inglese; che l'isola è troppo vicina e troppo difesa; e che infine serve d'incoraggiamento ai pirati bornesi i quali cominciano ad alzare la testa e scorrere il mare, contando sull'appoggio vostro.
– Menzogne! Noi da molti anni abbiamo rinunciato alle nostre scorrerie e non prestiamo più appoggio ai bornesi, che scorrazzano i mari della Malesia.
– Sono infamie! – gridò Tremal-Naik. – È questa la ricompensa che l'Inghilterra riserbava pei valorosi che hanno liberata l'India dagli strangolatori? Hanno ben ragione di chiamare quel governo l'insaziabile leopardo.
– E Sandokan, che cosa ha risposto a quell'insolente governatore? – chiese Yanez.
– Che è pronto a difendere la propria isola e che non cederà dinanzi ad alcuna minaccia.
– E sta fortificandosi?
– Ha fatto arruolare già cento dayaki di Sarawack ed a quest'ora li avrà ricevuti. Voi sapete che contate ancora dei fidi amici fra gli antichi partigiani di Muda-Hassim, il competitore di James Brooke, lo «Sterminatore dei pirati».
– Sì, vi son laggiù delle persone che si ricordano ancora che fummo noi a rovesciare Brooke e rimandarlo in Inghilterra senza una ghinea – rispose Yanez.
– E chi è che ha mosso tutta questa guerra? Qui i dayaki fanatizzati da un pellegrino che vogliono la testa del tuo padrone; là gl'inglesi aizzati da chissà chi, giacché fino a poche settimane or sono noi vivevamo in buoni rapporti col governatore di Labuan.
– E pare che vi sia anche il rajah di Sarawack della partita, il nipote di Brooke – aggiunse Kammamuri. – Una nave di quel reame, senza alcun motivo plausibile, ha affondato in questi giorni un praho di Sandokan lasciando affogare l'intero equipaggio. Mandata la Marianna a dargli la caccia e chiedere al comandante spiegazioni e riparazioni, per tutta risposta l'equipaggio ricevette l'intimazione di seguirlo a Sarawack.
– Ciò che non avrà fatto, suppongo – disse Tremal-Naik.
– No, ma dovette ritornare più che in fretta a Mompracem sotto il fuoco d'una nave a vapore giunta improvvisamente per sostenere la prima, e che portava pure sul picco le bandiere del rajah.
– Tremal-Naik – disse Yanez che si era alzato e che passeggiava nervosamente per la sala. – Mi viene un sospetto.
– E quale?
– Che tutta questa congiura sia opera del rajah per vendicare la caduta di suo zio e che si sia accordato col governo inglese. Già noi siamo una spina per Labuan, che è così prossima a Mompracem e che noi molti anni fa per poco non abbiamo espugnata e conquistata.
– Non solo, signor Yanez, vi è qualche altro nella partita – disse Kammamuri.
– E chi?
– Sapete che cosa mi ha raccontato l'ex servo del mio padrone che mi ha aiutato ad attraversare gli accampamenti dei dayaki e giungere qui inosservato?
– Che cosa? – chiesero ad una voce Yanez e Tremal-Naik.
– Che il pellegrino che ha fanatizzato i dayaki e che li ha armati e pagati largamente, non è un arabo, come lo si è creduto finora, bensì un indiano.
– Un indiano! – esclamarono i due amici.
– E ho da dirvi qualche cosa di più grave ancora, che vi farà aprire più gli occhi e meglio comprendere con quale nemico noi abbiamo da fare. L'ex servo ha aggiunto d'averlo sorpreso una notte in una capanna inginocchiato dinanzi ad una bacinella piena d'acqua contenente dei piccoli pesci rossi, dei manghi del Gange, di certo.
– Per Giove! – esclamò Yanez, fermandosi di colpo, mentre Tremal-Naik balzava in piedi col viso alterato. – Un bacino con dei pesci dentro!
– Sì, signor Yanez.
– Allora quell'uomo è un thug! – esclamò Tremal-Naik con accento di terrore.
– Deve essere tale perché solamente gli strangolatori indiani adorano i manghi del Gange che, secondo le loro credenze, incarnano l'anima della dea Kalì – rispose Kammamuri.
Per alcuni istanti nella sala regnò un profondo silenzio. Perfino Darma, la superba tigre ammaestrata, divorava la sua cena senza più brontolare, come se avesse compresa la gravità eccezionale della situazione.
– Udiamo – disse ad un tratto Yanez, che aveva riacquistato subito il suo sangue freddo. – Chi è l'uomo che ti ha raccontato ciò?
– Karia, un dayako che fu ai nostri servigi e che ora si trova nel campo dei ribelli, un uomo intelligentissimo che corseggiò i mari parecchi anni. Un giorno gli ho salvato la vita, mentre una tigre stava per divorarlo ed ha conservato a me un po' di riconoscenza. È stato lui, come vi dissi, a farmi attraversare le linee dei ribelli.
– Dove lo avevi trovato? – chiese Tremal-Naik.
– Nella foresta, mentre io cercavo di accostarmi inosservato al kampong. Invece di tradirmi e di consegnarmi al pellegrino, mi guidò qui, dopo d'avervi avvertiti, con una freccia ed un mio biglietto, della mia presenza.
– Possiamo quindi fidarci di quanto ti ha narrato? – disse Yanez.
– Pienamente; e poi non ha mai udito parlare dei thugs indiani ed è rimasto molto meravigliato quando mi udì a dire che se il pellegrino adorava di nascosto i pesci non era mussulmano.
– Yanez – disse Tremal-Naik, che era ancora in preda ad una profonda agitazione. – Che cosa pensi di fare?
Il portoghese, appoggiato alla tavola, con una mano sulla fronte e la testa china, pareva che meditasse profondamente.
– Siamo stati degli stupidi – disse ad un tratto. – Io mi chiedo come mai non abbiamo pensato che quel dannato pellegrino potesse essere un thug! Eppure l'odio che ha contro di te, Tremal-Naik, che hai rapito loro prima la «Vergine della Pagoda» e poi hai strappato pur loro tua figlia Darma, che doveva surrogare sua madre, doveva bastare per aprirci gli occhi.
Poi, dopo un breve silenzio, aggiunse:
– Se noi non avessimo veduto Suyodhana, il loro capo, spirare sotto il pugnale di Sandokan, si potrebbe credere che tutto ciò è opera sua, ma noi tutti abbiamo constatata la sua morte ed abbiamo veduto il suo cadavere gettato nella gran fossa comune assieme ai ribelli di Delhi.
– Chi può essere quel pellegrino? Uno dei luogotenenti di Suyodhana?
– Yanez, che cosa dobbiamo fare? – chiese per la seconda volta Tremal-Naik. – Ora che sappiamo che vi è la mano dei thugs che noi credevamo per sempre annichiliti, io tremo per la vita della mia Darma.
– Non ci resta che andarcene al più presto da qui e raggiungere Sandokan. Qui non abbiamo più nulla da fare ed io e Sandokan sapremo compensarti largamente di ciò che abbandoni nelle mani dei dayaki.
– Sono ancora abbastanza ricco ed ho, tu lo sai, delle fattorie anche nel Bengala. Vorrei invece sapere come potremmo noi fuggire cogli assedianti alle costole.
– Il mezzo lo troveremo. Si dice che la notte porti consiglio. Già che i dayaki ci lasciano un momento tranquilli, andiamo a riposare. Sambigliong s'incaricherà di disporre gli uomini di guardia. Chissà che domani il mio cervello non abbia trovato qualche buona idea.
Certi che gli assedianti, colla terribile batosta ricevuta, non sarebbero tornati alla riscossa, i tre uomini che erano stanchissimi si ritrassero nelle loro stanze non certo lieti, specialmente il portoghese e Tremal-Naik, della brutta piega che prendevano le cose.
La notte passò tranquilla. I dayaki, scoraggiati e anche addolorati per le gravi perdite subite, non avevano più osato lasciare i loro accampamenti che dovevano rigurgitare di feriti.
Gli uomini di guardia del kampong udirono fino all'alba rullare i tamburoni ed i lamenti dei parenti dei morti rimasti nei fossati delle cinte, che nessuno aveva levati di là.
Al mattino seguente Yanez, che aveva dormito male e pochissimo, angosciato dalle tristi notizie recate dal maharatto, era già in piedi prima ancora che il sole fosse spuntato sull'orizzonte.
Pareva che fosse tormentato da qualche idea, perché, invece di scendere nella sala per farsi servire il thè come faceva tutte le mattine, raggiunse il terrazzo su cui esisteva ancora un pezzo della torretta di legno che le artiglierie nemiche avevano demolito e di lassù si mise ad osservare attentamente le cinte e la disposizione interna del kampong.
La fattoria formava un vasto parallelogrammo, tagliato a metà dal bungalow e dalle tettoie e da una palizzata in modo da poter dividere la difesa.
La prima parte, dove trovavasi la saracinesca, comprendeva i fabbricati in muratura; la seconda le aie e le abitazioni della servitù e dei campieri ed i recinti degli animali. Fu quella disposizione, prima non attentamente notata, che colpì il portoghese.
– Per Giove! – mormorò, stropicciandosi allegramente le mani. – Ciò si presta meravigliosamente al mio progetto. Tutto dipende dalla provvista delle cantine del mio amico Tremal-Naik. Se il bram abbonda il colpo è fatto. I dayaki non sono meno golosi dei negri e anche su loro i forti liquori esercitano un fascino irresistibile. Cane d'un pellegrino! Ti preparerò un tiro da maestro.
Ridiscese visibilmente soddisfatto e trovò Tremal-Naik e Kammamuri nel salotto, che stavano vuotando alcune tazze di thè.
– Hai trovato nessuna buona idea che ci permetta di andarcene? – chiese rivolgendosi al padre della fanciulla.
– Ho tormentato invano tutta la notte il mio cervello – rispose Tremal-Naik che sembrava assai abbattuto. – Non vi sarebbe che un solo tentativo da fare, un tentativo disperato.
– Quale?
– Di aprirci il passo attraverso le file degli assedianti coi parang in pugno.
– E farci probabilmente massacrare – rispose Yanez. – Trenta contro trecento, avendo ormai dieci o dodici uomini feriti che non varranno gran che in una lotta corpo a corpo; brutto affare.
– Non ho trovato altro di meglio.
– Di quanti vasi di bram disponi? – chiese bruscamente Yanez.
– A che cosa potrebbe servirci quel liquore? – chiesero ad una voce Tremal-Naik e Kammamuri guardandolo con sorpresa.
– Per farci scappare, amici miei.
– Scherzi, Yanez.
– No, Tremal-Naik. D'altronde il momento sarebbe male scelto. Sei ben provvisto?
– Le mie cantine sono piene, provvedendo io tutte le tribù dei dintorni.
– I dayaki sono buoni bevitori, vero?
– Come tutti i popoli selvaggi.
– Se trovassero sui loro passi un centinaio di vasi di quel liquore, a loro disposizione, credi tu che si fermerebbero per vuotarli?
– Non glielo impedirebbe nemmeno il cannone – rispose Tremal-Naik.
– Allora, miei cari amici, il pellegrino è giuocato – disse Yanez.
– Non ti comprendiamo.
– Il kampong è diviso in due alla palizzata interna?
– Sì, l'ho fatto appositamente costruire per opporre maggiore resistenza nel caso che il nemico avesse potuto forzare la saracinesca – rispose Tremal-Naik.
– L'idea è stata buona, amico mio, e ci servirà magnificamente in questo momento. Noi concentreremo tutte le nostre difese verso le aie e le abitazioni dei servi, lasciando ai dayaki il passo libero e abbandonando loro il bungalow e le tettoie.
– Come – esclamò Tremal-Naik. – Tu cederesti loro le nostre migliori opere di difesa?
– Non ci servirebbero più dal momento che abbiamo deciso di evacuare la piazza – rispose Yanez. – Anzi abbatteremo una parte della cinta che guarda la saracinesca per attirare meglio i dayaki.
– La palizzata interna non è molto solida.
– Mi basta che resista qualche ora e poi i dayaki non si affaticheranno ad abbatterla. Preferiranno bere il tuo bram – disse Yanez ridendo. – Noi collocheremo nel cortile tutti i vasi che contiene la tua cantina e vedrai che quella barriera li arresterà meglio di qualunque altra.
– Si ubriacheranno, ne sono certo.
– È quello che desidero, perché noi ne approfitteremo per andarcene, dopo d'aver incendiato il bungalow e le tettoie. Protetti dalla barriera di fuoco, nessuno ci molesterà almeno per alcune ore.
– Tippo Sahib, il Napoleone dell'India, non sarebbe stato capace di architettare un simile piano.
– Quella non era una Tigre di Mompracem – disse Yanez con comica serietà.
– Cadranno nel laccio i dayaki?
– Non ne dubito. Appena si accorgeranno che la saracinesca è aperta e che le terrazze sono state abbandonate e disarmate, non indugieranno ad assalirci. Sotto gli arbusti spinosi non mancano delle spie che si affretteranno ad avvertirli.
– A quando il colpo? – chiese Kammamuri.
– Tutto deve essere pronto per questa sera. Le tenebre ci sono necessarie per fuggire senza essere veduti.
– All'opera Yanez – disse Tremal-Naik. – Io ho piena fiducia nel tuo piano.
– Hai un cavallo per Darma?
– Ne ho quattro e buoni.
– Va benone, faremo correre i dayaki fino alla costa. Quanto hai impiegato tu, Kammamuri, a raggiungerla?
– Tre giorni, signore.
– Cercheremo di arrivare prima. I villaggi di pescatori non mancano e qualche praho o delle scialuppe sapremo trovarle.
L'audace progetto fu subito comunicato ai difensori del kampong e da tutti approvato senza obbiezioni. D'altronde, non vi era nessuno che non fosse disposto a fare un supremo tentativo per liberarsi da quell'assedio che cominciava a pesare e demoralizzare la piccola guarnigione.
I preparativi furono cominciati. Le spingarde vennero ritirate e piazzate dietro la palizzata interna, su terrazze frettolosamente costruite, essendo la fattoria fornita di legname, poi le cantine furono vuotate portando tutto il bram nel cortile che si estendeva dinanzi al bungalow.
Vi erano più di ottanta vasi, di dimensioni enormi, della capacità di due e anche tre ettolitri ciascuno; tanto liquore da ubriacare un esercito, essendo quella mistura fermentata, di riso, di zucchero e di succhi di palme diverse, eccessivamente alcoolica.
Verso il tramonto, la guarnigione abbatté una parte della cinta e dopo aver isolato le terrazze, le incendiò per meglio attirare i dayaki e far loro credere che il fuoco fosse scoppiato nel kampong.
Terminati quei diversi preparativi e preparate delle cataste di legna sotto le tettoie e nelle stanze terrene del bungalow, abbondantemente inaffiate di resine e di caucciù onde ardessero immediatamente, la guarnigione si ritrasse dietro la palizzata in attesa del nemico.
Come Yanez aveva preveduto, gli assedianti attratti dai bagliori dell'incendio che divorava le terrazze contro cui si erano fino allora infranti i loro sforzi e fors'anche avvertiti dai loro avamposti celati sotto gli arbusti spinosi, che le cinte erano state sfondate, non avevano indugiato a lasciare i loro accampamenti per muovere ad un ultimo assalto.
Presa fra il fuoco ed i kampilang, la guarnigione del kampong non doveva tardare ad arrendersi.
Calavano le tenebre quando le sentinelle che vegliavano sui due angoli posteriori della fattoria, annunciarono il nemico.
I dayaki avevano formato sei piccole colonne d'assalto e s'avanzavano di corsa, mandando clamori assordanti. Si tenevano ormai certi della vittoria. Quando Yanez li vide entrare fra gli arbusti, fece dare fuoco alle cataste di legna accumulate sotto le tettoie e nelle stanze del bungalow, poi appena vide che i suoi uomini erano in salvo, fece tuonare le spingarde per simulare una disperata difesa.
I dayaki erano allora davanti alle cinte. Vedendole in parte abbattute ebbero un momento di esitazione temendo qualche agguato, poi passarono correndo sotto le terrazze che finivano di ardere e si rovesciarono all'impazzata nel kampong, urlando a squarciagola, pronti a sgozzare i difensori a colpi di kampilang.
Yanez vedendoli slanciarsi verso gli enormi vasi che formavano come una doppia barriera dinanzi al bungalow, aveva dato ordine di sospendere il fuoco per non irritare troppo gli assalitori.
Vedendo quei recipienti, i dayaki per la seconda volta si erano arrestati. Un resto di diffidenza li tratteneva ancora non sapendo che cosa potessero contenere.
L'alcool che si sprigionava dai coperchi, che erano stati appositamente smossi, non tardò a giungere ai loro nasi.
– Bram! Bram!
Fu il grido che uscì da tutte le gole. Si erano precipitati sui vasi, strappando i coperchi e tuffando le mani nel liquido.
Urla di gioia scoppiarono tosto fra gli assedianti. Una bevuta s'imponeva, tanto più che i difensori avevano sospeso il fuoco.
Un sorso, solo un sorso e poi avanti all'attacco! Ma dopo le prime gocce tutti avevano cambiato parere. Era meglio approfittare dell'inazione della guarnigione del kampong; d'altronde era infinitamente migliore, quell'ardente liquore, delle palle di piombo.
Invano i capi si sfiatavano per cacciarli innanzi. I dayaki erano diventati ostriche attaccate al loro banco colla differenza che si erano invece incrostati ai vasi.
Ottanta vasi di bram! Quale orgia! Mai si erano trovati a simile festa.
Avevano gettato perfino gli scudi ed i kampilang e bevevano a crepapelle, sordi alle grida e alle minaccie dei capi.
Yanez e Tremal-Naik ridevano allegramente, mentre i loro uomini staccavano senza troppo rumore alcuni tavoloni dalla cinta per prepararsi la ritirata.
Intanto le tettoie cominciavano ad ardere e dalle finestre del bungalow uscivano torrenti di fumo nero.
Fra pochi istanti una barriera di fuoco doveva frapporsi fra gli assedianti e gli assediati.
I dayaki non parevano preoccupati dell'incendio che minacciava di divorare l'intero kampong.
Insaziabili bevitori continuavano a dare dentro ai vasi, urlando, ridendo, cantando e contorcendosi come scimmie. Bevevano colle mani, coi panieri destinati a contener le teste dei vinti nemici, con gusci di noci di cocco trovati per il cortile.
I loro stessi capi avevano finito per imitarli. Il terribile pellegrino dopo tutto era al campo e non poteva vederli. Perché non avrebbero approfittato di quell'abbondanza, dal momento che gli assediati si mantenevano tranquilli?
E gli uomini cadevano, come fulminati, pieni da scoppiare, intorno ai vasi, mentre le fiamme s'alzavano altissime facendo piovere su di loro una pioggia di scintille.
Il bungalow era tutto in fuoco e le tettoie, piene di provviste, ardevano come zolfanelli, illuminando i bevitori.
Era il momento di andarsene. I dayaki non si ricordavano forse di non aver più dinanzi il nemico, tanto la loro ubriachezza era stata rapida.
– In ritirata! – comandò Yanez. – Abbandonate tutto fuorché le carabine, le munizioni ed i parang.
Aiutando i feriti, lasciarono silenziosamente la palizzata, attraversarono la cinta e si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la pianura, preceduti da Tremal-Naik e da Kammamuri che cavalcavano a fianco di Darma.
La tigre li seguiva spiccando salti immensi, spaventata dalla luce dell'incendio che diventava sempre più intensa.
Raggiunto il margine della boscaglia che si estendeva verso ponente, il drappello che si componeva di trentanove persone, compresi sette feriti, s'arrestò per prendere fiato e anche per osservare ciò che succedeva nel kampong e negli accampamenti dei dayaki.
La fattoria pareva una fornace. Il bungalow che era costato tante fatiche al suo proprietario, ardeva dalla base alla cima come una fiaccola immensa, lanciando in aria fitte nubi di fumo e sprazzi di scintille.
Le cinte avevano pure preso fuoco e rovinavano assieme alle terrazze. Si udivano gli scoppi delle spingarde che erano state abbandonate ancora cariche.
Degli uomini s'aggiravano affannosamente trascinando i guerrieri che si erano ubriacati e che correvano il pericolo di essere bruciati accanto ai vasi di bram.
Il pellegrino doveva aver tenuto alcuni drappelli di riserva per appoggiare le colonne d'assalto nel caso che non fossero riuscite a penetrare nel kampong e, non udendo più né spari né grida di guerra, erano certamente accorsi per vedere che cosa era successo dei loro compagni.
– Che l'inferno bruci tutte quelle canaglie – disse Yanez inforcando uno dei quattro cavalli che gli era stato condotto da Tangusa. – Solo mi spiace andarmene senza aver potuto mettere le mani su quel cane di pellegrino. Spero di ritrovarlo un giorno sul mio cammino e allora guai a lui!
– Un giorno? – disse ad un tratto Kammamuri, che aveva volti gli sguardi verso il nord. – Gambe, signori! Siamo stati scoperti e ci danno la caccia!
LA RITIRATA ATTRAVERSO LE FORESTE
Ai bagliori dell'incendio, che rischiaravano tutta la pianura, il maharatto aveva scorta una colonna di dayaki che s'avanzava a passo di corsa lungo il margine della foresta, cercando di accostarsi inosservata. Doveva essere l'ultima riserva del pellegrino, che muoveva alla caccia dei fuggiaschi.
Qualcuno doveva averli veduti attraversare la pianura ed aveva dato l'allarme prima che scomparissero sotto i boschi.
Yanez e Tremal-Naik con un solo sguardo si persuasero che non era il caso d'impegnare una lotta, anche se il grosso dei nemici si trovava almeno per parecchie ore, nell'impossibilità di prendere le armi.
– Sono almeno un centinaio e per la maggior parte armati di fucili! – aveva esclamato il portoghese. – Raccomandiamoci alle nostre gambe e carichiamo i feriti più gravi sui cavalli. A terra, Tremal-Naik, e anche tu, Kammamuri, e tu, Sambigliong forma un drappello che protegga la ritirata.
Sei feriti furono fatti salire sui tre cavalli rimasti liberi, il settimo su quello montato da Darma ed il drappello si slanciò di corsa sotto la foresta, fuggendo verso ponente.
Sambigliong, con otto uomini scelti fra i più lesti ed i più robusti, si era messo alla retroguardia per rallentare, con qualche scarica, lo slancio degli inseguitori.
Avevano il vantaggio di qualche chilometro e si studiavano di mantenerlo, facendo sforzi disperati per non rimanere indietro.
Quella corsa sfrenata sotto le gigantesche piante durò una buona ora, poi Yanez e Tremal-Naik, avendo trovato una macchia foltissima, comandarono la fermata onde non sfiatare completamente i loro compagni.
Quel luogo si prestava anche opportunamente per una valida difesa nel caso che i dayaki fossero riusciti a scoprirli, essendo la macchia formata da durion dal tronco enorme che potevano benissimo proteggerli.
Ogni rumore era cessato. Non udivano più le grida degli inseguitori lanciati sulle loro traccie. Si erano fermati, non osando inoltrarsi sotto la foresta o s'avanzavano a passi di lupo per sorprenderli?
– Aspettiamoli qui – aveva detto Yanez. – Se hanno smarrite le nostre traccie le ritroveranno infallantemente e preferisco fucilarli fra questi colossi, piuttosto che ci piombino addosso in altro luogo più scoperto. Se possiamo infliggere loro un'altra lezione, quelle mignatte ci lascieranno tranquilli fino a che non sarà passata l'ebbrezza agli altri. È terribile una sbornia di bram, è vero, Tremal-Naik?
– Dura almeno ventiquattro ore – rispose l'indiano.
– Con un simile vantaggio giungeremo sulle rive del mare prima di loro.
– Purché non scendano il Kabatuan con delle piroghe. Ecco il pericolo.
– È più breve la via del fiume?
– Di molto, Yanez.
– Non avevo pensato a questo. Bah, se ci assalgono in mare ci difenderemo. Tutto dipende dall'avere un paio di prahos.
– Ne troveremo, signor Yanez – disse Kammamuri. – Nel villaggio ove ne ho noleggiato uno per recarmi a Mompracem, ne ho veduti parecchi. Non avranno difficoltà, quei pescatori, a vendercene un paio.
Attesero più di un'ora entro la macchia, aspettando invano l'arrivo dei dayaki.
Certi che avessero smarrite le loro traccie o che fossero tornati verso i loro accampamenti decisero, dopo breve consiglio, di riprendere la marcia.
Collocarono la fanciulla ed i feriti nel centro della colonna e s'addentrarono risolutamente nella immensa foresta che Kammamuri asseriva estendersi quasi senza interruzione fino sulle rive del mare.
Tutta la notte proseguirono la marcia, sempre col timore di vedersi raggiungere dai tagliatori di teste e allo spuntare del sole improvvisarono un accampamento sulla riva d'un fiumicello che doveva essere qualche affluente del Kabatuan.
Le loro apprensioni andavano a poco a poco calmandosi e cominciavano a sperare di poter raggiungere il mare senza altri combattimenti e d'imbarcarsi per Mompracem.
Ed infatti anche quel giorno passò tranquillo. Della colonna lanciata sulle loro traccie più nessuna nuova.
Per altri tre giorni continuarono ad inoltrarsi attraverso quella interminabile foresta, abitata solamente da qualche tranquillo tapiro e da qualche banda di babirussa e verso il tramonto del quinto salivano i primi contrafforti dei monti Cristallo, la gran catena costiera che si prolunga dal nord al sud a breve distanza dalle sponde occidentali dell'immensa isola.
Non ostante la foltezza dei boschi, l'incontro di non poche pantere nere e di mias, quelle gigantesche scimmie dal pelame rossastro, dotate d'una forza prodigiosa, anche quella traversata fu compiuta senza gravi pericoli.
Nel pomeriggio del sesto giorno, dopo d'aver avvistato il mare dalle più alte giogaie della catena, scendevano in una valle strettissima, che doveva condurli alla costa.
Marciavano da quattro ore, nel più profondo silenzio, in fila indiana, tanto era stretto il passaggio ed ingombro di massi enormi, quando delle grida lontane li fermarono di colpo.
– I dayaki? – aveva chiesto Yanez, voltandosi rapidamente.
Una scarica rimbombò in quel momento sul margine superiore della vallata ed una truppa numerosissima d'uomini apparve, scendente a precipizio i fianchi selvosi della costa.
– Birbanti! – esclamò Yanez, furioso. – Ci hanno seguiti per schiacciarci in questo luogo!
– Capitano – disse Sambigliong. – Proseguite verso la costa coi feriti, la signorina Darma e Tremal-Naik ed una piccola scorta. Kammamuri mi ha assicurato che il mare non è che a tre miglia di distanza.
– E tu? – chiesero Tremal-Naik ed il portoghese.
– Io, signore, assieme agli altri, impedirò il passo a quei furfanti finché avrete preparati i prahos. Se non li arrestiamo, ci schiacceranno tutti in questa gola e nessuno di noi rivedrà più mai Mompracem. Presto, signori, il nemico ci piomba addosso.
– Puoi resistere mezz'ora? – chiese Yanez.
– Anche un'ora, capitano. Lassù – disse il valoroso mastro della Marianna, indicando un'alta roccia che si rizzava proprio in mezzo alla valletta. – Terremo duro a lungo.
– Sì, mio bravo – disse Yanez con voce commossa. – Appena udrai tuonare le nostre carabine, ripiegati verso la costa. I prahos e delle scialuppe saranno pronte. Vi è un villaggio, è vero, Kammamuri, allo sbocco di questo burrone?
– Sì, signor Yanez. È abitato da pescatori e le barche non mancano! Lesti, signori! Tra noi e la tigre daremo da fare ai dayaki.
Le prime palle giungevano di già, sibilando sinistramente nella gola e scheggiando le roccie. Qualcuna poteva colpire la fanciulla.
– Arrivederci presto! – gridarono Yanez e Tremal-Naik, slanciandosi dietro ai cavalli che si erano messi a trottare portando Darma ed i feriti.
– A me, amici! – disse Sambigliong, volgendosi verso i suoi uomini. – Facciamo fronte a quei birbanti! Là, tutti su quella rupe! Vieni, Kammamuri.
Erano in venti, avendone distaccati otto per scortare Yanez e Tremal-Naik, tutti bene armati e ben provvisti di munizioni.
In pochi salti raggiunsero la rupe che sbarrava quasi interamente il burrone e si scaglionarono fra le roccie, riparandosi dietro le sporgenze. Darma, la tigre addomesticata, l'amica fedele del maharatto, era con loro, pronta a provare i suoi artigli sulle carni dei dayaki.
La colonna nemica era già discesa nella valle, a cinquecento passi dallo scoglio. Era composta di un centinaio e mezzo d'uomini, per la maggior parte armati di moschetti e di carabine, il fiore certamente delle forze del maledetto pellegrino.
Vedendo le Tigri di Mompracem, i malesi ed i giavanesi della fattoria occupare la cima della rupe, invece di muovere direttamente all'assalto, i guerrieri si dispersero fra i cespugli che coprivano il fondo del burrone e aprirono un fuoco violentissimo colla speranza di snidare i difensori.
– Amici – gridò Sambigliong, rivolgendosi ai suoi uomini. – Vi avverto che dobbiamo resistere fino a che udremo il segnale che ci darà l'uomo bianco.
Non contate i morti e non economizzate le cartuccie.
– Fuoco! – urlò Kammamuri che occupava proprio la cima della rupe.
Una scarica nutrita partì da dietro le roccie, abbattendo d'un colpo solo un piccolo drappello di uomini, che, sprezzando il pericolo, muoveva audacemente innanzi, senza prendere alcuna precauzione. Era composto di una dozzina d'uomini e nessuno era rimasto in piedi.
– Cominciamo bene, Sambigliong – gridò Kammamuri. – Per Siva e Visnù, dovrebbero mandarci incontro un altro manipolo d'uomini.
I dayaki, così furibondi per la distruzione totale della loro avanguardia, non avevano indugiato a rispondere con scariche formidabili, che rintronavano profondamente nella stretta valle.
Per alcuni minuti la fucilata durò intensissima d'ambo le parti, poi i dayaki, comprendendo che non sarebbero mai riusciti a scacciare coi fucili i difensori della rupe che si tenevano bene nascosti, si radunarono in vari drappelli per prendere a viva forza quella formidabile posizione.
Impugnati i kampilang, si slanciarono, col loro impeto abituale, all'attacco, urlando per incutere maggior terrore ai nemici, ma non erano ancora giunti alla base della rupe che il fuoco dei tigrotti, dei malesi e dei giavanesi, li costrinse ad arrestarsi per riprendere i fucili.
– Amici! – gridò Sambigliong ai suoi prodi che non abbandonavano i loro posti, quantunque molti fossero stati già feriti. – Ecco il momento terribile! Sappiate morire da eroi!
I dayaki per la seconda volta si erano precipitati all'assalto, sostenendosi con un fuoco vivissimo.
Malgrado le enormi perdite che subivano, avevano cominciato ad arrampicarsi su per le roccie, vociando sempre, balzando come scimmie, impazienti d'impadronirsi delle teste di quegli ostinati difensori e di vendicarsi di tante sconfitte subite.
Il drappello guidato da Sambigliong e da Kammamuri resisteva tenacemente.
La lotta diventava terribile! era un battagliare selvaggio, feroce, inumano.
Gli uomini cadevano mandando urla furiose, tentando ancora di offendere o col fucile o coi kampilang o coi parang gli avversari.
Sambigliong e Kammamuri vedevano con angoscia assottigliarsi sempre più il loro drappello. Tutti quelli che si trovavano a metà della rupe erano stati decapitati dalle pesanti sciabole degli assalitori o fucilati sul posto ed il segnale ancora non si udiva! Che cosa poteva essere successo a Yanez? Che i prahos dei pescatori non fossero ancora rientrati in porto? Era quello che si chiedevano con ansietà estrema Kammamuri e Sambigliong, i quali ormai si vedevano impotenti a frenare l'attacco.
I dayaki salivano sempre, sfidando intrepidamente la morte e facendo scintillare i loro terribili kampilang. Non facevano quasi più fuoco, tanto erano sicuri della vittoria.
Sambigliong, vedendoli sciabolare gli uomini che si erano appiattati a due terzi della salita, mandò un grido tuonante:
– Kammamuri! Lancia la tigre!
– A te, Darma! – urlò il maharatto. – Sbrana!
La belva, che durante quella intensa fucilata era rimasta nascosta dietro una roccia, mugolando sordamente e rizzando il pelo, a quel comando balzò innanzi con un aoug spaventevole e piombò su un uomo che stava decapitando un giavanese, piantandogli i denti nella nuca.
I dayaki, vedendo rovinarsi addosso quella belva, che pareva volesse divorarli tutti, si erano precipitati all'impazzata giù dalla roccia, ricaricando precipitosamente i loro moschetti.
Vedendoli retrocedere, Darma aveva subito abbandonato il primo uomo per scagliarsi sopra un altro. Con un secondo slancio piombò addosso ad uno dei fuggiaschi, rovesciandolo di colpo, quando una scarica vivissima la colpì.
La povera bestia si era bruscamente rizzata sulle zampe posteriori, rimanendo in quella posa alcuni istanti, poi s'abbatté, mentre Kammamuri mandava un urlo disperato:
– La mia Darma! Me l'hanno uccisa!
Quasi nel medesimo istante si udirono in lontananza tre spari.
– Il segnale! Il segnale! – gridò Sambigliong. – In ritirata!
Del drappello non rimanevano che undici uomini. Tutti gli altri erano caduti sotto le palle ed i kampilang dei dayaki ed i loro corpi giacevano sui pendii della rupe, privi della testa.
Sambigliong afferrò Kammamuri che stava per scendere verso la tigre, a rischio di farsi fucilare e lo trascinò con sé, dicendogli:
– È morta: lasciala.
Si erano precipitati a corsa disperata nel burrone, mentre una seconda scarica rumoreggiava verso la costa.
Yanez doveva avere molta premura. Il drappello con una corsa fulminea percorse tutta la gola, sotto una grandine di palle, avendo i dayaki ripreso l'inseguimento e sbucò su una piccola pianura alla cui estremità s'alzavano quindici o venti capanne, piantate su dei pali. Al di là rumoreggiava il mare.
– Signor Yanez! – gridarono Sambigliong e Kammamuri, vedendo dei piccoli prahos ancorati dinanzi al minuscolo villaggio, colle vele già spiegate, pronti a prendere il largo.
Il portoghese usciva in quel momento da una capanna, accompagnato da Tremal-Naik e dalla fanciulla, mentre la loro scorta accostava i due legnetti alla riva.
– Presto! – gridò Yanez, vedendo i superstiti ad attraversare, sempre correndo, la piccola pianura.
Pochi momenti dopo, estenuati e insanguinati, madidi di sudore, si precipitavano sulla riva.
– E gli altri? – chiesero ad una voce Yanez e Tremal-Naik.
– Tutti morti – rispose Kammamuri con voce affannosa. – Anche la tigre, la nostra brava Darma.
– Sia dannato quel cane di pellegrino! – gridò l'indiano, sul cui viso traspariva un intenso dolore. – Anche la mia tigre perduta!
– Ed i dayaki? – chiese Yanez.
– Fra poco saranno qui – disse Sambigliong.
– Lesti, imbarchiamoci. Tu sul più grosso, Tremal-Naik, con tua figlia e la scorta. A me l'altro con Kammamuri ed i superstiti.
S'imbarcarono rapidamente ed i due legni presero il largo, mentre la popolazione della borgata udendo le grida dei dayaki si salvava precipitosamente nei boschi vicini.
Il vento era favorevole, sicché i due prahos con poche bordate uscirono dalla piccola baia, filando rapidamente verso il sud-ovest, non volendo scostarsi troppo dalla spiaggia, almeno pel momento.
I dayaki giungevano allora sulle rive della baia, ma troppo tardi. La preda tanto sospirata ancora una volta sfuggiva loro e proprio nel momento in cui credevano di averla finalmente nelle mani.
Non sapendo su chi sfogarsi, avevano dato fuoco al villaggio.
– Canaglie! – esclamò Yanez, che teneva la barra del timone. – Se avessi ancora la mia Marianna vi darei una tale lezione da non scordarvela più. Tutto forse non è finito fra noi e voi e chissà che un giorno non vi ritroviamo sui nostri passi e allora guai al vostro pellegrino!
I due legnetti, spinti da un fresco vento di settentrione, erano già lontani e stavano girando il capo Gaya, per entrare nella baia di Sapangar, entro cui sbocca il Kabatuan.
Erano due piccoli prahos pescherecci, con grandi vele formate di vimini intrecciati, bassi di scafo, privi di ponte e col bilanciere per poter meglio appoggiarsi e resistere alle raffiche senza correre il pericolo di rovesciarsi.
Quello montato da Tremal-Naik, dalla fanciulla e dagli otto uomini della scorta era un po' più grosso e portava per armamento un lila; quello di Yanez invece non aveva che una vecchia spingarda collocata su un cavalletto fissato sulla prora.
– Pessimi velieri – disse Sambigliong, dopo un rapido esame. – Sono vecchi quanto me.
– Non vi era di meglio, mio bravo tigrotto – rispose Yanez. – È stata anzi una vera fortuna trovarli e non ci volle poco a indurre quei pescatori a venderceli.
– Muoviamo subito su Mompracem?
– Costeggeremo fino a Nosong, prima di intraprendere la traversata. Non vi è molto da fidarsi di queste barcaccie che assorbono acqua come le spugne.
– Sono impaziente di giungervi, capitano.
– Ed io non meno di te, Sambigliong. Che cosa sarà successo laggiù, dopo le notizie portate da Kammamuri? Come desidero saperlo!
– Che la Tigre stia combattendo contro gl'inglesi?
– Non mi stupirei: Sandokan non è uomo d'abbassare la bandiera e di cedere alle pretese del governatore di Labuan senza opporre una fiera resistenza. Come rimpiango ora d'aver perduto la mia nave! Colla mia Marianna e la sua e appoggiati dai prahos da guerra, avremmo potuto dar da fare alle cannoniere di Labuan.
– Non è colpa mia, capitano Yanez – disse Sambigliong.
– Tu hai fatto anche troppo per difendere la mia nave – rispose Yanez, con voce dolce. – Non ho alcun rimprovero da farti, mio bravo. Stringiamo verso la costa e cerchiamo di guadagnare più via che potremo. Se il vento si mantiene, domani notte noi approderemo a Mompracem.
Era allora calato il sole e le tenebre scendevano rapide. Il mare era calmo, con leggiere ondulazioni che non davano alcun fastidio ai due legnetti, i quali continuavano la loro rotta verso il sud-ovest, tenendosi a due o tre gomene l'uno dall'altro.
Yanez, seduto a poppa su una grossa pietra che serviva d'àncora, teneva la mano sulla barra, consumando le sue ultime sigarette, mentre la maggior parte dei suoi uomini russavano stesi sul fondo del legno. Solo quattro vegliavano a prora, per la manovra.
Nessun lume brillava sul mare, già divenuto color dell'inchiostro. Anche verso la costa tutto era tenebroso. Solo verso l'isolotto di Sapangar che chiude a ponente la baia omonima, un punto rossastro brillava, la torcia forse di qualche pescatore notturno.
Al di là del capo Gaya, il vento era venuto quasi a mancare ed i due velieri non avanzavano che con estrema lentezza.
– Bramerei trovarmi ben lontano dalla baia prima dell'alba – mormorò il portoghese. – La foce del Kabatuan per poco non è stata fatale alla mia Marianna.
Vegliò fino alle una del mattino, poi non scorgendo nulla di sospetto, cedette la barra a Sambigliong, sdraiandosi sotto un banco, su una vecchia vela di vimini.
Un grido del mastro lo svegliò bruscamente alcune ore dopo:
– All'armi! Tutti in piedi!
Cominciava allora ad albeggiare ed i due prahos, che durante la notte avevano camminato pochissimo, si trovavano verso la punta settentrionale dell'isola di Gaya.
Yanez, udendo il grido del suo fedele mastro, era balzato rapidamente in piedi, chiedendo:
– Ebbene, che cosa c'è? Che non si possa dormire un momento tranquilli e...
Si era bruscamente interrotto, facendo un gesto che tradiva una viva ansietà.
Un grosso giong, un veliero assai più rotondo e più lungo dei soliti prahos, con due vele triangolari, usciva in quel momento dalla baia, seguito da una mezza dozzina di doppie scialuppe munite di ponte e da una scialuppa a vapore che non portava alcuna bandiera sull'asta di poppa.
– Che cosa vuole quella flottiglia? – si era domandato il portoghese.
Un colpo di miriam, partito dal giong, sparato a bianco, fu la risposta. La flottiglia intima ai due prahos di fermarsi.
– I dayaki, signori! – gridò in quell'istante Sambigliong, che si era slanciato verso prora per meglio osservare gli uomini che montavano il veliero e le doppie canoe. – Signor Yanez, virate di bordo e gettiamoci verso la costa!
Il portoghese aveva mandato una bestemmia.
– Ancora essi! – esclamò poi. – Ecco la fine!
Era una follìa tentare d'impegnare la lotta con forze così poderose e munite di lila e di miriam e fors'anche di spingarde. Fuggire era pure impossibile: la scialuppa a vapore, che era pure montata da uomini di colore, malesi e dayaki, non avrebbe tardato a raggiungere i due vecchi e pessimi velieri.
Gettarsi verso la costa o meglio ancora verso l'isola di Gaya che era coperta di folte foreste, era l'unica salvezza che restasse ai fuggiaschi.
– Appoggiate sulla costa! – gridò Yanez. – E armate i fucili.
Il praho di Tremal-Naik che si trovava a sette o otto gomene da quello di Yanez, aveva già virato di bordo e muoveva sollecitamente verso Gaya.
Disgraziatamente il tempo mancava. Il giong accortosi dell'intenzione dei fuggiaschi, con una lunga bordata si era frammesso fra i due prahos, seguito subito dalla scialuppa a vapore ed aveva cominciato a far fuoco coi suoi lila, cercando di abbattere le manovre.
– Ah! Canaglie! – aveva gridato Yanez. – Ci separano per distruggerci più facilmente. Su, Tigri di Mompracem, diamo battaglia e affondiamo tutti piuttosto che cadere vivi nelle mani di quei selvaggi.
Afferrò la carabina e pel primo aprì il fuoco, sparando sul ponte del giong.
I suoi uomini avevano pure impugnate le armi, moschettando vigorosamente l'equipaggio della nave avversaria.
Anche sul praho di Tremal-Naik, quantunque stretto fra il grosso veliero e la scialuppa a vapore che tentava di abbordarlo, le carabine tuonavano furiosamente, tentando una suprema resistenza.
Non doveva durare a lungo quella lotta così impari. Una bordata di mitraglia disalberò d'un colpo solo il praho dell'indiano rasandolo come un pontone ed immobilizzandolo, mentre una piccola granata, sparata dal pezzo d'artiglieria che armava la scialuppa a vapore sfondava la ruota di prora, aprendo una falla enorme.
– Tigrotti di Mompracem! – aveva gridato Yanez, che si era subito accorto della disperata situazione in cui trovavasi Tremal-Naik. – Andiamo a salvare la fanciulla!
Il praho virò per la seconda volta di bordo cercando di accostarsi a quello dell'indiano, quando si vide tagliare la via dal giong.
Il grosso veliero, compiuta la sua opera di distruzione, si era rivolto verso quello di Yanez, mentre la scialuppa a vapore abbordava, con due doppie scialuppe d'appoggio, quello di Tremal-Naik che cominciava ad affondare.
– Fuoco sul ponte, tigrotti! – gridò il portoghese. – Almeno vendichiamo gli amici!
Una voce dall'accento metallico, si levò in quel momento dalla poppa del giong:
– Arrendetevi al pellegrino della Mecca! Vi prometto salva la vita!
Il misterioso nemico era apparso sul cassero, col suo turbante verde in capo, impugnando una di quelle corte scimitarre indiane chiamate tarwar.
– Ah! Cane! – gridò Yanez. – Anche tu ci sei! Prendi!
Aveva in mano la carabina carica. La puntò e fece fuoco rapidamente.
Il pellegrino aprì le braccia, le richiuse, poi cadde addosso al timoniere, mentre un altissimo urlo di furore s'alzava fra l'equipaggio del giong.
– Finalmente! – gridò Yanez. – Ed ora fumiamo la nostra ultima sigaretta!
LA NAVE AMERICANA
La sconfitta delle Tigri di Mompracem era oramai questione di minuti.
Il praho di Tremal-Naik, stretto dalla scialuppa a vapore e dalle due doppie barche, colla prora sgangherata che beveva acqua in quantità, era stato subito preso d'assalto non ostante la disperata resistenza dell'equipaggio e stava per scomparire negli abissi del mare.
Yanez, con una emozione facile a comprendersi, aveva veduto Tremal-Naik, Darma e pochi superstiti, trascinati nella scialuppa a vapore, la quale aveva subito preso il largo verso il sud, filando velocemente senza più occuparsi della battaglia.
Sul secondo praho non rimanevano che sette uomini, mentre il giong ne aveva tre volte tanti e portava grossi pezzi in paragone all'unica e vecchia spingarda.
Per di più le doppie barche accorrevano da tutte le parti per finirla ed aiutare il grosso veliero.
Non rimaneva che arrendersi o lasciarsi affondare. Già una bordata di mitraglia aveva fatto cadere a pezzi le due vele di giunchi, togliendo cosi a Yanez ogni speranza di poter raggiungere l'isola che si trovava ancora a otto o dieci gomene di distanza e di salvarsi sotto le folte foreste.
I sette valorosi nondimeno non avevano cessato di far fuoco, bruciando freddamente le loro ultime cartuccie. Il portoghese ne dava l'esempio, sparando senza posa, con una calma meravigliosa, senza levarsi dalle labbra la sua ultima sigaretta che si era promesso di finire prima di andarsene all'altro mondo.
Il giong che aveva conservato tutte le sue vele, correva addosso al povero praho immobilizzato, per abbordarlo o per sfasciarlo con una rigorosa speronata. Aveva sospeso il fuoco delle sue artiglierie, giudicando inutile sprecare le munizioni, tanto era oramai sicuro di aver facilmente ragione su quel pugno di prodi.
– Su, Tigri di Mompracem – gridò Yanez, vedendo che l'equipaggio del veliero preparava i grappini d'abbordaggio. – Una scarica ancora e poi mano ai parang! Saremo noi che salteremo sul ponte del giong.
Quei sette demoni che preferivano la morte alla resa, avevano scaricate le loro carabine ed impugnate le pesanti sciabole, quando una violenta detonazione rimbombò dietro di loro, propagandosi pel lontano orizzonte.
Un istante dopo una nuvola di fumo s'alzava sulla poppa del giong e l'albero maestro spaccato di colpo dallo scoppio di qualche obice, cadeva pesantemente in coperta, assieme all'immensa vela che portava, coprendo i combattenti come sotto un gigantesco sudario.
Yanez, sorpreso che qualcuno potesse accorrere in suo aiuto e proprio in quel momento, quando pareva che la fine fosse oramai prossima, si era vivamente voltato. Una magnifica nave a vapore, di grandi dimensioni, formidabilmente montata da uomini vestiti di bianco, degli europei senza dubbio, girava in quel momento la punta settentrionale di Gaya, dirigendosi velocemente sul luogo della pugna.
– Amici, tigrotti! Siamo salvi! – gridò mentre un secondo obice fracassava il timone del giong ed un terzo spaccava in due una delle scialuppe doppie.
Con un salto fu sulla murata poppiera e facendo portavoce colle mani, gridò ripetutamente:
– A me, europei!
Un quarto colpo di cannone, che aprì una falla enorme alla linea di galleggiamento del giong fu la risposta; gli uomini che montavano quella superba nave dovevano essersi accorti che sul praho vi era un uomo bianco, un uomo appartenente alla loro razza che correva un estremo pericolo e, senza chiedere spiegazioni, cannoneggiavano bravamente il grosso veliero, che era invece montato da selvaggi.
Sul ponte di comando si vedevano alcuni ufficiali fare dei gesti, come per rassicurare il portoghese.
Le doppie scialuppe, vedendo avanzarsi quel colosso di ferro, si erano affrettate a scappare verso l'isola, abbandonando il giong alla sua sorte, tanto più che non avevano più nemmeno l'appoggio della scialuppa a vapore, scomparsa già verso il sud coi prigionieri.
Il veliero, colpito già da tre obici, si era inclinato su un fianco, imbarcando acqua per lo squarcio che doveva essere stato gravissimo. I suoi uomini, dopo d'aver scaricato i loro pezzi contro la nave, cominciavano a saltare in acqua per non venire attratti dal gorgo.
– Amici! – gridò Yanez. – Ai remi! Andiamo a cercare il pellegrino!
Mentre la nave a vapore metteva in acqua due scialuppe, montate da due dozzine d'uomini armati di carabine, i pirati di Mompracem, impadronitisi dei remi, spinsero il praho addosso al giong il quale cominciava ad immergersi.
A bordo non erano rimasti che dei morti e qualche ferito. Tutti gli altri nuotavano disperatamente verso l'isola, dove erano già pronte le scialuppe doppie.
Yanez, Kammamuri e Sambigliong si issarono rapidamente a bordo del veliero, slanciandosi verso il cassero dove supponevano si trovasse il pellegrino.
Non si erano ingannati. Il loro misterioso ed implacabile avversario, giaceva su una vecchia vela, coi pugni stretti sul petto, comprimendosi una ferita prodotta probabilmente dalla palla della carabina di Yanez. Non era morto, poiché appena si vide presso quei tre uomini, con uno scatto improvviso s'alzò sulle ginocchia e strappatosi dalla cintura una pistola dalla canna lunghissima, tentò di far fuoco. Kammamuri, a rischio di ricevere la scarica in pieno petto, gli si era gettato prontamente addosso, strappandogli l'arma.
– Credevo che fossi morto – disse il maharatto. – Ma giacché ti ritroviamo ancora vivo, ti ricacceremo all'inferno.
Aveva voltata l'arma contro il pellegrino e stava per fracassargli il cranio, quando Yanez gli trattenne il braccio.
– È più prezioso vivo che morto – gli disse. – Non commettiamo la sciocchezza di finirlo. Sambigliong, prendi quest'uomo e portalo sul praho. Lesti; il giong affonda!
Il veliero continuava ad inclinarsi sul fianco squarciato, minacciando di rovesciarsi.
Yanez ed i suoi compagni saltarono sul praho, mentre una delle due scialuppe gettava un cavo per rimorchiarlo verso la nave, la quale erasi arrestata a due gomene di distanza.
Tutto l'equipaggio, che era piuttosto numeroso, era salito sulle murate del vapore, seguendo con viva curiosità l'opera di salvataggio.
– Sono europei! – aveva esclamato Yanez, appena ebbe terminato di far legare il pellegrino. – Che siano inglesi?
– Per lo meno parlano inglese – disse Kammamuri, che aveva udito un comando dato dall'ufficiale che guidava la scialuppa.
– Sarebbe comica che dovessimo la nostra salvezza a dei nemici non meno accaniti dei dayaki.
Poi, con un profondo sospiro, aggiunse:
– E Tremal-Naik? E Darma? Che cosa sarà accaduto di loro? Ah! Mio Dio!
– La scialuppa a vapore è scomparsa verso il sud, signor Yanez.
– Non si è diretta verso la foce del Kabatuan? Sei proprio sicuro?
– Sicurissimo: non sono stati consegnati ai dayaki.
– Ma allora chi erano costoro? Dove li avranno condotti?
Una scossa lo interruppe. Il praho aveva urtato contro la piattaforma inferiore della scala che era stata subito abbassata.
Un uomo sui cinquant'anni, solidamente piantato, con una barbetta brizzolata tagliata a punta, che indossava una divisa di panno azzurro cupo con bottoni dorati ed un berretto con gallone, attendeva sulla piattaforma superiore.
Yanez pel primo balzò sui gradini e salì rapidamente, dicendo al comandante della nave, in inglese:
– Grazie, signore, del vostro aiuto. Ancora qualche minuto e la mia testa andava ad aumentare le collezioni di quei terribili cacciatori di crani.
– Sono ben felice, signore, di avervi salvato – rispose il comandante, tendendogli la destra e dandogli una stretta vigorosa. – Qualunque altro uomo bianco, d'altronde, avrebbe fatto altrettanto. Con quei furfanti non ci vuole misericordia, come non ci vogliono mezze misure.
– Ho l'onore di parlare al comandante?
– Sì, signore...
– Yanez de Gomera – rispose il portoghese.
Il comandante aveva fatto un soprassalto. Prese Yanez per una mano, traendolo sulla tolda per lasciare il passo libero a Sambigliong ed agli altri che portavano il pellegrino e si mise a guardarli con viva curiosità, ripetendo:
– Yanez de Gomera! Questo nome non mi è nuovo, signore. By God! Sareste voi il compagno di quell'uomo formidabile che anni or sono ha detronizzato James Brooke, lo «Sterminatore dei pirati»?
– Sì, sono quello.
– Ero a Sarawack il giorno in cui Sandokan vi entrò coi guerrieri di Muda-Hassim e le sue invincibili Tigri. Signor de Gomera, sono ben felice di avervi prestato un po' d'aiuto. Ma che cosa volevano quegli uomini da voi?
– È una storia un po' lunga a narrarsi. Ditemi, signore, voi non siete inglese?
– Mi chiamo Harry Brien e sono americano della California.
– E questa nave che è così poderosamente armata, meglio d'un incrociatore di prima classe?
– Oh, molto meglio! – disse l'americano, sorridendo. – Credo che finora non ve ne sia una seconda in tutta la Malesia e nel Pacifico. Forte, a prova di scoglio, con artiglierie formidabili e rapida come una rondine marina.
Si volse verso i marinai che stavano loro d'intorno, interrogando curiosamente i compagni del portoghese, mentre il medico di bordo prodigava le prime cure al pellegrino, dal cui petto usciva un filo di sangue.
– Date la colazione a quelle brave persone – disse loro. – E voi signor de Gomera, seguitemi nel quadro. Ah! Che cosa devo fare del vostro praho?
– Abbandonatelo alle onde, comandante – rispose il portoghese. – Non vale la pena di prenderlo a rimorchio.
– Dove desiderate che vi sbarchi?
– Più vicino a Mompracem che vi sarà possibile, se non vi spiace.
– Vi condurremo direttamente colà, si trova quasi sulla mia rotta e la visiterò volentieri. Venite, signor de Gomera.
Si diressero verso poppa e scesero nel quadro, mentre la nave, dopo che i marinai ebbero issato le due scialuppe e tagliati gli ormeggi del praho, riprendeva la sua corsa verso il sud.
Il comandante fece portare una colazione fredda nel salotto poppiero ed invitò Yanez a dare l'assalto.
– Possiamo discorrere anche mangiando e bevendo – disse amabilmente. – La mia cucina è a vostra disposizione, signor de Gomera, al pari della mia cantina particolare.
Quando il pasto fu finito, l'americano conosceva già tutte le disgraziate avventure toccate al suo commensale sulla terra dei dayaki, per opera del misterioso pellegrino e anche la pericolosa situazione in cui trovavasi Sandokan.
– Signor de Gomera – disse, offrendogli un manilla profumato. – Vorrei proporvi un affare.
– Dite, signor Brien – rispose il portoghese.
– Sapete dove stavo per recarmi?
– Non lo saprei indovinare.
– A Sarawack per cercare di vendere questa nave.
Yanez si era alzato, in preda ad una visibile commozione.
– Voi volete vendere la vostra nave? – esclamò. – Non appartiene alla marina da guerra americana?
– Niente affatto, signor de Gomera. Era stata costruita nei cantieri d'Oregon, per conto del sultano di Shemmerindan, il quale voleva vendicare, a quanto mi fu detto, suo padre uccisogli dagli olandesi nella sanguinosa sconfitta inflitta a quei predoni molti anni or sono.
– Nel 1844 – disse Yanez. – Conosco quell'isola. (Nel 1844, un piroscafo da guerra olandese, mandato dal governatore di Macassar a castigare i pirati del Cotti, diede una terribile lezione a quel sultanato. Arse mille case della capitale, impose una taglia di 120.000 fiorini, il risarcimento del danni subiti dalle navi mercantili assalite e volle ostaggi fino al pagamento completo delle somme fissate)
– Il sultano aveva già versato ai costruttori un'anticipazione di ventimila sterline, promettendo l'intero pagamento alla consegna della nave, ed un forte regalo se fosse riuscita tale da poter sfidare impunemente le navi olandesi.
«Non abbiamo lesinato e, come avete potuto osservare, questo piroscafo vale meglio d'un incrociatore di prima classe. Disgraziatamente quando condussi la nave alla foce del Cotti, fui informato che il sultano era stato assassinato da un suo parente, ad istigazione degli olandesi, a quanto pare, per evitare una nuova campagna. Il suo erede non ne volle sapere della nave, abbandonandoci l'anticipo fattoci.»
– Quello là è una bestia – disse Yanez. – Con un simile piroscafo avrebbe potuto far tremare anche il sultano di Varauni.
– Da Ternate ho telegrafato ai costruttori e mi hanno incaricato di offrirla al rajah di Sarawack o a qualche sultano. Signor de Gomera, vorreste acquistarla? Con questa voi potreste diventare il re del mare.
– Vale? – chiese Yanez.
– Gli affari sono affari, signore – disse l'americano. – I costruttori chiedono cinquantamila sterline.
– Ed io, signor Brien ne offro sessantamila, pagabili sul banco di Pontianak, a condizione che mi lasciate il personale di macchina a cui offrirò doppia paga.
– Sono gente che non rifiuterà, avventurieri della più bella razza, pronti a chiudere ed aprire una valvola ed a sparare il fucile.
– Accettate?
– By God! È un affare d'oro, signor de Gomera, e non me lo lascierò sfuggire.
– Dove volete sbarcare col vostro equipaggio?
– A Labuan possibilmente, per prendere il postale che va a Shangai, da cui troveremo facile imbarco per San Francisco.
– Quando saremo a Mompracem farò mettere a vostra disposizione un praho onde vi sbarchi in quell'isola – disse Yanez.
Estrasse un libriccino che teneva gelosamente nascosto in una fascia che portava sotto la camicia, si fece dare una penna e appose delle firme su diversi biglietti.
– Ecco dei chèques per sessantamila sterline, pagabili a vista sul banco di Pontianak, dove io e Sandokan abbiamo in deposito tre milioni di fiorini. Signor Brien, da questo momento la nave è mia e ne assumo il comando.
– Ed io, signor de Gomera, da comandante divento un pacifico passeggiero – disse l'americano, raccogliendo gli chèques. – Signor de Gomera, visitiamo la nave.
– Non occorre, mi è bastato uno sguardo per giudicarla. Solo desidero conoscere il numero delle bocche da fuoco.
– Quattordici pezzi, fra cui quattro da trentasei, un'artiglieria assolutamente formidabile.
– Mi basta: devo occuparmi del pellegrino. O egli mi dice dove la scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik e Darma o lo martirizzo fino a che esalerà l'ultimo respiro.
– Conosco un mezzo infallibile per costringerlo a parlare, l'ho appreso dalle nostre pellirosse – disse l'americano. – Sempre la rotta su Mompracem, signor de Gomera?
– Ed a tiraggio forzato – rispose il portoghese. – È probabile che in questo momento Sandokan stia per misurarsi cogli inglesi e non ha che dei prahos.
– E voi, signor de Gomera, avete a vostra disposizione una nave da cacciare tutti a fondo. Pezzi da trentasei! Faranno saltare le cannoniere di Labuan come giuocattoli.
Lasciarono il quadro e salirono in coperta. La nave filava a tutto vapore verso il sud-ovest, con una velocità assolutamente sconosciuta ai piroscafi di quell'epoca.
Quindici nodi all'ora e sei decimi! Chi avrebbe potuto gareggiare con quel piroscafo americano che filava come una rondine marina o poco meno? Yanez ne era entusiasmato.
– È un fulmine! – aveva detto ad Harry Brien. – Con tale nave, né gl'inglesi di Labuan, né il rajah di Sarawack mi fanno paura. Sandokan, se volesse, potrebbe dichiarare la guerra anche all'Inghilterra!
Kammamuri in quel momento gli si appressò, dicendogli:
– Signor Yanez, la ferita del pellegrino non ha alcuna importanza. La vostra palla deve aver colpito prima qualche cosa di duro, probabilmente l'impugnatura del tarwar, che quell'uomo portava alla cintura e l'ha colpito solamente di rimbalzo, strisciando su una costola.
– Dov'è?
– In una cabina di prora.
– Signor Brien, volete accompagnarmi?
– Sono con voi, signor de Gomera – rispose l'americano. – Cerchiamo di strappare il velo che nasconde quel misterioso personaggio.
Scesero nella corsìa di babordo di prora ed entrarono in una stanzetta che serviva d'infermeria.
Il pellegrino giaceva su una branda, guardato da Sambigliong e da un marinaio della nave.
Era un uomo sui cinquant'anni magrissimo, dalla pelle assai abbronzata, coi lineamenti fini come quelli degl'indiani delle alte caste e gli occhi nerissimi, penetranti, animati da un fuoco sinistro. Aveva i piedi e le mani legate e conservava un mutismo feroce.
– Capitano – disse Sambigliong a Yanez. – Ho veduto or ora il petto di quest'uomo e vi ho scorto un tatuaggio rappresentante un serpente con una testa di donna.
– Ecco la prova che egli è veramente un thug indiano e non già un arabo maomettano – rispose Yanez.
– Ah! Uno strangolatore! – esclamò l'americano, guardandolo con vivo interesse.
Il prigioniero udendo la voce di Yanez aveva trasalito, poi aveva alzato il capo, fissandolo con uno sguardo ripieno d'odio.
– Sì – disse. – Sono un thug, un amico devoto di Suyodhana, che aveva giurato di vendicare su Tremal-Naik, su Darma, su te e più tardi sulla Tigre della Malesia, la distruzione dei miei correligionari. Ho perduto la partita quando credevo di averla vinta: uccidimi. Vi è qualcuno che penserà a vendicarmi e più presto di quello che credi.
– Chi? – domandò Yanez.
– Questo è un mio segreto.
– Che io ti strapperò.
Un sorriso ironico sfiorò le labbra dello strangolatore.
– E mi dirai anche dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i miei tigrotti sfuggiti al fuoco dei tuoi lila.
– Questo non lo saprai mai!
– Adagio, signor strangolatore – disse l'americano. – Permettetemi d'avvertirvi che io conosco un mezzo infallibile per farvi parlare. Non resistono nemmeno le pellirosse, che sono d'una cocciutaggine incredibile.
– Voi non conoscete gl'indiani – rispose il thug. – Mi ucciderete, ma non mi strapperete una sillaba.
L'americano si volse verso il suo marinaio, dicendogli:
– Prepara sul ponte un paio di tavole ed un barile d'acqua.
– Che cosa volete fare, signor Brien? – chiese Yanez.
– Ora lo vedrete, signor de Gomera. Fra due minuti quest'uomo parlerà, ve lo prometto. Voi – aggiunse poi rivolgendosi a Sambigliong ed a Kammamuri. – Prendete quest'uomo e portatelo in coperta.
FUOCO DI BORDATA!
L'indiano non aveva opposto la menoma resistenza, anzi il sorriso ironico che gli sfiorava le labbra non era nemmeno sparito. Pareva che quell'uomo fosse assolutamente sicuro di sé e che nemmeno la prospettiva, non certo piacevole, di dover sopportare la tortura, avesse scossa la sua forte anima di settario fanatico.
Quando si trovò sulla tolda, disteso su una tavola e solidamente legato, in modo da impedirgli di fare il menomo movimento, anche allora la sua serietà non venne meno.
Guardò con occhio tranquillo i marinai che avevano formato circolo intorno a lui, poi il capitano e Yanez, dicendo a quest'ultimo col suo solito accento beffardo:
– Ed ora mi getterai ai pesci?
– Abbiamo qualche cosa di meglio, signor strangolatore – disse l'americano. – Vi duole la ferita?
Lo strangolatore alzò le spalle con disprezzo.
– Non datevi alcun pensiero per quella graffiatura – disse con voce recisa. – Mi prendete per un fanciullo?
– Meglio così. Portate un paio di secchie e l'imbuto.
Tre marinai si fecero largo, portando quanto era stato chiesto. L'imbuto era quello che usava il cambusino per riempire le botti, un arnese massiccio dall'imboccatura abbastanza larga per tappare completamente la bocca dell'indiano.
– Vuoi confessare? – chiese per l'ultima volta l'americano. – Mi risparmierai una tortura inutile, perché non potrai resistere.
– No – rispose seccamente lo strangolatore.
– Neanche se ti promettessi un giorno la libertà? – chiese Yanez, a cui ripugnava ricorrere a mezzi estremi.
– Quel giorno io non sarei più vivo.
– Agite – disse l'americano.
Tutti si erano ristretti attorno alla tavola. Solo il timoniere era rimasto dietro la ruota ed i fuochisti dinanzi ai forni.
Due marinai introdussero nella bocca dell'indiano l'estremità dell'imbuto, tenendovelo ben fermo, mentre un terzo vi versava lentamente l'acqua contenuta nel bugliolo. (Questa tortura crudelissima fu largamente usata dai soldati americani del generale Smith, contro gl'insorti delle isole Filippine)
Lo strangolatore, costretto a bere per non morire soffocato, aveva cercato, con uno sforzo disperato, di spezzare i legami per allontanare l'imbuto. Aveva subito compreso che non avrebbe potuto resistere a lungo a quella tortura che prima di allora non aveva mai conosciuta.
Tuttavia, deciso a resistere fino all'ultimo, anche a morire, non fece alcun atto che potesse far supporre all'americano ed al portoghese di essere pronto a confessare.
Il liquido continuava a scorrergli nello stomaco ed il suo ventre si gonfiava a vista d'occhio. I suoi lineamenti dimostravano uno spasimo estremo, gli occhi pareva che volessero schizzargli dalle orbite e respirava affannosamente per le nari, con un rantolo sinistro, lugubre.
– Confesserai? – gli chiese l'americano che assisteva, freddo, impassibile, a quella scena, facendo segno al marinaio che teneva la secchia di fermarsi.
Il thug fece col capo un feroce gesto di diniego ed i suoi denti scricchiolarono sulla canna di ferro dell'imbuto.
Un altro paio di litri d'acqua scorsero pel tubo. Il martirizzato, col viso congestionato, gli occhi già spaventosamente sbarrati, lo stomaco enormemente dilatato, fece ad un tratto un brusco soprassalto.
Era la sua resa.
– Basta – aveva detto Yanez, nauseato. – Basta.
L'imbuto fu tolto. Il thug aspirò a lungo l'aria, poi con voce rantolosa, mormorò:
– Assassini!
– Oh! Non morrai per un po' d'acqua – disse l'americano. – Non si può resistere, questo è vero, ma non si corre alcun pericolo se non si continua. Parlerai?
L'indiano stette un momento silenzioso, poi vedendo l'americano fare cenno ai marinai di ricominciare, una orribile espressione di spavento si diffuse sul suo viso.
– No... no... più... – balbettò.
– Chi è l'uomo che ti ha mandato qui? Parla o ricominciamo – disse Yanez.
– Sindhia – rispose l'indiano.
– Chi è costui? E tu, sopratutto, chi sei veramente?
– Sono... sono... il precettore... di Sindhia... l'ho allevato... io... io... l'amico... fedele... di Suyodhana...
– E quel Sindhia? – insistette Yanez che vedeva l'indiano girare gli occhi e respirare sempre più affannosamente.
– Parla o torniamo all'acqua – disse l'americano.
– È... è... il figlio... di... Suyodhana – burbugliò lo strangolatore.
Un grido di stupore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Kammamuri e di Sambigliong. Suyodhana aveva lasciato un figlio! Era possibile? Il capo dei settari, che meno degli altri avrebbe dovuto amare una donna, lui che incarnava sulla terra il Trimurti della religione indiana, come un giorno la piccola Darma aveva incarnata Kalì, la sanguinaria divinità, aveva avuto il suo romanzo, come un mortale qualunque?
Yanez si era curvato sull'indiano, per chiedergli maggiori spiegazioni e s'avvide che il povero uomo aveva smarrito i sensi.
– Che muoia? – chiese, rivolgendosi all'americano. – Non ha confessato tutto e bisogna che sappia dove si trova il figlio del terribile strangolatore e dove hanno condotto Tremal-Naik e Darma.
– Lasciatelo digerire tranquillamente la sua acqua – rispose lo yankee. – Questa tortura non uccide, se viene sospesa a tempo e domani quest'uomo starà bene quanto me e voi. Facciamolo riportare nella cabina e lasciamo che dorma.
– È svenuto.
– S'incaricherà il medico di bordo di farlo tornare in sé. Non temete, signor de Gomera. Questa sera o domani, noi sapremo tutto quello che desiderate sapere.
Fece un cenno ai due marinai e questi sollevarono l'indiano, che non dava più segno di vita e lo portarono nel frapponte.
– Ebbene, signor de Gomera – disse l'americano, rivolgendosi a Yanez che pareva assai preoccupato e pensieroso. – Pare che non siate troppo lieto della nuova che avete appreso. È un uomo pericoloso, il figlio del capo degli strangolatori?
– Può diventarlo – rispose Yanez. – Non sapendo noi né dove si trovi, né chi sia, né di quali mezzi disponga. La guerra sorda ma implacabile, fattaci finora, dimostra che quel Sindhia deve possedere l'energia e la ferocia del padre. È necessario che io sappia dove si nasconde.
– Non era dunque fra i dayaki che vi hanno assaliti?
– Non sembra. Non vi era che quel pellegrino alla testa dell'insurrezione, di questo siamo certi. Se vi fosse stato qualche altro indiano a quest'ora l'avremmo saputo.
– Che sia veramente possente quel Sindhia?
– I fatti lo dimostrano. È stato lui ad armare i dayaki, lui a sobillare gl'inglesi e forse anche il nipote di James Brooke. Sono certo che deve disporre di ricchezze incalcolabili.
– E l'oro è il nerbo della guerra – disse l'americano.
– E deve aver armato qualche nave anche.
– Che la vostra affonderà senza fatica, signor de Gomera. Nessuno potrà sfidare impunemente le vostre artiglierie che sono le più moderne e le più formidabili che finora si conoscano e che anche la marina del mio paese sta adottando. Che peccato non potervi tenere compagnia!
– Signor Yanez – disse in quel momento Kammamuri, che fino allora era rimasto silenzioso e non meno pensieroso del portoghese. – Che cosa ne dite di questa inaspettata rivelazione?
– Che non avrei mai supposto che noi dovessimo trovarci ancora di fronte ai thugs indiani. Tu che sei stato loro prigioniero parecchio tempo, non hai mai udito a narrare che Suyodhana avesse un figlio?
– No, signor Yanez, e poi se i thugs lo avessero saputo, il loro capo avrebbe molto perduto della sua influenza. Egli deve averlo fatto allevare molto lontano dalle Sunderbunds, all'insaputa di tutti, per celare la propria colpa. Un capo come lui non può amare una mortale: il suo cuore non deve battere che per la sanguinaria dea e per nessun'altra donna.
– Credi tu che la comunità dei thugs fosse molto ricca?
– Mi fu detto che poteva disporre di tesori favolosi e che solo Suyodhana sapeva dove erano collocati.
– Distrutti i settari, certo quelle ricchezze saranno state raccolte da Sindhia.
– È probabile, signor Yanez – rispose il maharatto.
– Ed ora viene a sfidarci per vendicare suo padre! – disse il portoghese, come parlando fra sé. – Come la Tigre della Malesia ha vinto e ucciso la Tigre dell'India, abbatterà anche il tigrotto.
– Mi stupisce però – disse l'americano – come lui, figlio d'uno strangolatore, sia riuscito a procurarsi l'appoggio degl'inglesi, se è vero quanto voi sospettate.
– Sapete voi sotto quale nome o quale titolo si nasconda? – chiese Yanez. – Non sarà stato così sciocco da dire al governatore di Labuan che è un seguace di Kalì. Mi occorre sapere dove si trova ed il suo precettore me lo dirà dovessi torturarlo fino a che muoia.
– Basterà minacciarlo d'una nuova bevuta – disse l'americano. – Non resisterà, lo vedrete e vi spiattellerà tutto. Signor de Gomera, andate un po' a riposarvi. Dovrete essere assai stanco, dopo tante emozioni. I vostri marinai dormono già come ghiri.
Il portoghese, che da due notti non chiudeva gli occhi, seguì il consiglio del l'americano e scese nel quadro con Kammamuri, gettandosi vestito come era in un lettuccio.
Intanto la nave continuava la sua rotta verso il sud-est, tenendosi a una dozzina di miglia dalla costa. Divorava i suoi quindici nodi, velocità assolutamente straordinaria in quell'epoca, in cui i piroscafi migliori, non esclusi gl'incrociatori, non riuscivano ordinariamente a percorrerne più di dodici.
Al largo non appariva alcuna nave; verso la costa, assai sinuosa e frastagliata da minuscoli seni, veleggiavano lentamente alcuni prahos montati probabilmente da pescatori, essendo le acque che bagnano quella grande isola ricchissime di pesci.
A mezzodì il Nebraska – tale era il nome del magnifico vapore – avvistava già l'isola di Tega e puntava direttamente verso il capo Nosong, che forma l'estremità d'una vasta isola staccata dalla terra ferma da uno stretto canale che sbocca nella vasta baia di Bruni.
Alle quattro, Labuan, la colonia inglese, a cui Sandokan per tanti anni aveva dato da fare, minacciando l'esterminio dei suoi primi coloni, era in vista verso il sud.
Quasi nel medesimo istante la voce dell'americano svegliava bruscamente Yanez.
– In piedi, signor de Gomera! – aveva gridato il comandante.
Vi era nella voce un certo tono, che fece balzare subito in piedi il portoghese.
Anche il viso dell'americano era assai oscuro.
– Avete qualche brutta nuova da comunicarmi? Mi sembrate sconvolto, signor Brien.
– By God! – bestemmiò lo yankee, grattandosi rabbiosamente la testa. – Non me l'aspettava, signor Yanez.
– Insomma che cosa c'è di nuovo?
– C'è... c'è... che quel maledetto indiano se n'è andato all'altro mondo senza completare le sue confessioni.
– Morto!
– Aveva qualche terribile veleno nascosto in un anello. Vi rammentate che ne aveva uno al dito medio, con un grosso corindone?
– Sì, mi pare d'averglielo veduto.
– Ho trovato il corindone levato e sotto di esso un piccolo vuoto che doveva contenere qualche granello di chissà quale sostanza tossica ed è rimasto fulminato sotto gli occhi del marinaio di guardia – disse l'americano.
Yanez aveva fatto un gesto di collera.
– Morto, portando nella tomba il segreto che più mi premeva! – esclamò coi denti stretti. – Come faremo noi a sapere dove quella scialuppa a vapore ha condotto Tremal-Naik, Darma ed i loro uomini? Maledizione! La stella, che per tanti anni ci ha protetti, comincia a offuscarsi. Sarebbe il principio della fine?
– Non scoraggiatevi, signor Yanez – disse l'americano. – Non li avranno già mangiati i vostri amici. Se non li hanno uccisi subito, vuol dire che i rapitori avevano ricevuto l'ordine di tradurli in qualche luogo.
– E dove?
– Ecco il punto nero, per ora.
Yanez, che in quella disgraziata spedizione, più volte aveva perduto la sua calma, si era messo a passeggiare per la cabina in preda ad una vivissima agitazione.
Che cosa fare? Che cosa risolvere? Dove dirigere le ricerche? Erano quelli i pensieri che turbavano la sua mente.
– Dove ci troviamo ora, signor Brien? – chiese ad un tratto fermandosi dinanzi all'americano.
– In vista delle coste di Labuan, signor de Gomera.
– Quando potremo giungere a Mompracem?
– Fra le dieci e le undici di notte.
– Fate mettere in acqua una scialuppa con viveri e armi per due uomini e accostate Labuan.
– Che cosa volete tentare, signor de Gomera?
– Mi è venuto un sospetto.
– E quale?
– La scialuppa a vapore si è diretta verso il sud, senza entrare nella baia di Kabatuan, che i miei prahos avevano già oltrepassata.
– Sicché voi credete?
– Che abbia condotti Tremal-Naik, Darma ed i loro uomini a Labuan.
– E vorreste sbarcare un paio dei vostri malesi onde vadano ad informarsi?
– E raccoglierli più tardi.
– Due uomini bianchi avrebbero maggiori probabilità e ve ne sono a bordo di quelli che hanno fegato. Basta pagarli.
– Avranno ciò che chiederanno.
– Seguitemi, signor Yanez.
Quando salirono in coperta, le spiaggie di Labuan erano perfettamente visibili, non distando che una dozzina di miglia.
L'americano fece armare una scialuppa, chiamò due marinai, due californiani alti come granatieri e li informò del desiderio espresso dal portoghese.
– E offro cento sterline a ciascuno se riuscirete a darmi notizie dei miei amici – aggiunse Yanez.
– Andiamo anche all'inferno noi – rispose uno dei due marinai. – È vero, Bob?
– A prendere Belzebù, se lo vorrete, signor comandante – disse l'altro.
– Fra due giorni al più tardi io verrò a raccogliervi.
– Di notte? – chiese Bob.
– Sì, e segnalerò la nostra presenza con un razzo verde.
– Che il diavolo ci porti via se non riusciremo, signor comandante – rispose il primo.
La scialuppa era pronta. I due californiani vi scesero e presero subito il largo arrancando verso l'isola, mentre il Nebraska riprendeva frettolosamente la sua rotta, dirigendosi verso ponente.
Un po' più tardi lo strangolatore, dopo che il medico ebbe constatato essere veramente morto, veniva gettato in mare chiuso entro un'amaca e con una palla di cannone ai piedi, onde sottrarlo alla voracità dei pescicani, che si tengono ordinariamente a fior d'acqua.
Alle otto di sera, il Nebraska, che non aveva rallentata la velocità, si trovava già a mezza via fra Labuan e Mompracem. Il mare era sempre deserto e la luna sorgeva lentamente all'orizzonte, specchiandosi in esso.
Una calma assoluta regnava intorno alla nave. Nessuna ondulazione increspava la superficie che pareva d'olio.
Yanez, Kammamuri e Sambigliong, dal castello di prora, spiavano ansiosamente l'orizzonte, impazienti di avvistare l'alta rupe su cui sorgeva la dimora della Tigre della Malesia, mentre l'americano, che aveva ripreso momentaneamente il comando della poderosa nave, passeggiava sulla plancia di comando.
– Quale sorpresa per Sandokan vedendoci giungere con un simile rinforzo! – disse Sambigliong. – Abbiamo perduta la Marianna e torniamo con una nave che ne vale venti.
– Che darà del filo da torcere a Sindhia ed ai suoi alleati, se veramente ne ha, – rispose Yanez.
– Che gl'inglesi si siano accontentati d'una semplice minaccia, capitano?
– È un bel po' che ci hanno fatto capire di andarcene lontani da Mompracem.
– E l'ultima minaccia era grave, signor Yanez – disse Kammamuri. – Non avevo mai veduto Sandokan così preoccupato.
– Si preparava alla resistenza?
– Sì, signor Yanez.
Ad un tratto il portoghese impallidì.
– Se giungessimo troppo tardi? – chiese con ansietà. – No, è impossibile che abbiano potuto vincere in così breve tempo Sandokan. Ha uomini di ferro e navi e cannoni e batterie formidabili. Le sole forze di Labuan non sarebbero sufficienti per una tale impresa. Fra un'ora sapremo che cosa sarà avvenuto.
Si era messo, come era sua abitudine, quando un pensiero lo tormentava, a passeggiare pel castello, colle mani affondate nella tasca e la sigaretta spenta fra le labbra.
Passarono quindici o venti minuti. Solo diciotto o venti miglia separavano il Nebraska da Mompracem.
Ad un tratto, verso ponente, si udì un rombo lontano, che si propagò sul mare rumoreggiando sinistramente.
Yanez aveva interrotta bruscamente la sua passeggiata, mentre l'americano scendeva precipitosamente la plancia di comando.
– Un colpo di cannone! – aveva esclamato Yanez.
– E viene da Mompracem, signor de Gomera – disse l'americano, salendo il castello. – Il vento ci soffia di fronte.
– Che gl'inglesi abbiano assalita l'isola?
– Ma ci siamo noi e vi mostrerò la potenza delle nostre artiglierie. Uomini di macchina! A tiraggio forzato e caricate le valvole più che potete. Uomini dei pezzi! Ai vostri posti!
Una seconda detonazione rimbombò in quel momento, più distinta della prima, seguita dopo qualche po' da una serie non interrotta di spari più o meno sonori.
Non ci si poteva ingannare. All'orizzonte, in direzione di Mompracem, si combatteva un'aspra battaglia.
Yanez e l'americano si erano slanciati sul ponte di comando, mentre gli artiglieri caricavano frettolosamente i pezzi della coperta e delle batterie e si raddoppiava il personale di macchina.
– Siamo pronti? – chiese Brien all'ufficiale di quarto che aveva ispezionati rapidamente tutti i pezzi.
– Sì, comandante.
– Doppia riserva al timone ed in coperta la guardia franca.
Le detonazioni continuavano con un fragore crescente. Si udivano quelle secche dei piccoli pezzi e quelle poderose e più prolungate delle artiglierie di grosso calibro.
Yanez un po' pallido per l'emozione, ma calmo, aveva puntato un cannocchiale verso ponente, mentre la nave correva come una rondine marina, lasciandosi dietro una interminabile scia spumeggiante.
– Fumo all'orizzonte! – gridò ad un tratto il portoghese. – Vi sono delle navi a vapore laggiù. Sono navi inglesi, non ne dubito. Presto! Presto!
– Corriamo il pericolo di saltare, signor de Gomera. Non possiamo forzare di più le caldaie.
Un fumo biancastro, che la luce lunare mostrava perfettamente, si alzava verso Mompracem.
I colpi spesseggiavano. Si combatteva furiosamente in quella direzione.
Poi cominciarono a scorgersi i lampi delle artiglierie. Avvampavano su una vasta zona, come se un gran numero di navi combattessero.
– I nostri prahos! – urlò d'improvviso Yanez, staccando dall'occhio il cannocchiale. – La Tigre della Malesia s'allontana al nord. Maledetti! Ancora una volta gl'inglesi ci hanno vinti!
L'americano gli aveva strappato di mano il cannocchiale.
– Si, i prahos – disse poi. – E cannoneggiati da cannoniere. Veleggiano al nord.
– Cannonieri! – gridò Yanez. – Pronti pel fuoco di bordata! Massacrate quelle navi!
Il Nebraska si avanzava rapido, in modo da frapporsi fra i velieri che fuggivano sempre sparando, colla Marianna di Sandokan in coda che avvampava come un vulcano e le piccole navi a vapore che li perseguitavano con scariche formidabili.
– Eccoci in pieno ballo – disse l'americano. – Giovanotti! Fuoco di bordata!
LA DICHIARAZIONE DI GUERRA
La flottiglia della Tigre della Malesia, pur fuggendo dinanzi al nemico, si batteva furiosamente, rispondendo vigorosamente coi quattro pezzi da caccia postati sulla tolda della Marianna e le grosse spingarde dei prahos.
Si componeva di otto velieri, muniti di vele immense e montati da equipaggi numerosi, ma solo quello montato dalla Tigre, che era ancora più grosso di quello che Yanez aveva perduto sul Kabatuan, era in grado di tenere, almeno per qualche tempo, testa agli avversari. Gli altri non erano che dei semplici navigli malesi, un po' più grossi dei prahos comuni, senza bilancieri e forniti invece di ponte e di murate piuttosto alte per meglio proteggere i fucilieri.
La squadra nemica, che doveva prima aver cacciate le Tigri di Mompracem dalla loro isola, era di molto più forte e anche meglio armata, componendosi di due piccoli incrociatori che battevano bandiera inglese, di quattro cannoniere e di un brigantino di tonnellaggio quasi eguale a quello della Marianna.
Tuttavia quelle diverse navi non osavano abbordare i velieri di Sandokan ed avevano molto da fare a tener testa alle formidabili scariche di moschetteria dei pirati, ai pezzi da caccia ed ai colpi di mitraglia dei prahos che spazzavano, come uragani micidiali, i loro ponti.
La comparsa improvvisa della magnifica e poderosa nave americana, aveva interrotta per un momento la pugna e sospeso il combattimento, ignorando tanto gl'inseguiti quanto gl'inseguitori a quale nazione appartenesse, non essendo stata innalzata alcuna bandiera sull'asta di poppa, né al pomo della mezzana.
Una voce formidabile, che s'alzò dal ponte di comando della nave, avvertì le Tigri di Mompracem che avevano un formidabile protettore.
– Viva Sandokan! Urrah per Mompracem.
Poi seguì il comando:
– Fuoco di bordata sugl'inglesi!
I sette pezzi di babordo della nave americana, tutti pezzi di grosso calibro e di lunga portata, avvamparono quasi nell'istesso tempo, con un rimbombo spaventevole che si ripercosse fino in fondo alla stiva, facendo tremare perfino i puntali, e quella tempesta di proiettili rovinò addosso ad uno dei piccoli incrociatori demattandolo d'un colpo solo, squarciandogli il fianco di tribordo e facendogli scoppiare le caldaie.
Un uragano di fuoco e di fumo irruppe tosto dalla sala delle macchine, seguito da un fragore formidabile che pareva prodotto dallo scoppio delle casse di munizioni e di barili di polvere.
La nave, arrestata di botto, si piegò sul fianco ferito, mentre l'equipaggio si gettava in acqua, urlando.
– Ebbene, signor de Gomera – disse l'americano che gli stava presso, sulla plancia di comando. – Che cosa ne pensate delle vostre artiglierie?
– Ve lo dirò più tardi – rispose il portoghese. – Gettiamoci fra i prahos e le cannoniere e diamo battaglia. Artiglieri! Fuoco di tribordo! Giù il brigantino!
Una seconda scarica seguì quel comando, mentre i prahos delle Tigri di Mompracem si riparavano dietro la nave americana scaricando le loro grosse spingarde.
Il brigantino, che si era portato innanzi per proteggere coi suoi pezzi da caccia l'altro incrociatore, prese una tale fiancata che tutte le sue murate si sfasciarono, mentre l'albero maestro, spaccato due piedi sopra la tolda, precipitava attraverso la prora con orrendo fracasso, sfondando parte del castello ed ammazzando o storpiando una mezza dozzina di gabbieri.
Urla formidabili si levarono dai ponti dei prahos della Tigre della Malesia, frammisti a poderose scariche di mitraglia. I pirati di Mompracem si prendevano la loro rivincita e mercé l'aiuto di quella nave potente, sul cui picco era stata subito spiegata la bandiera dell'antico scorridore del mare, tutta rossa con tre teste di tigre, infliggevano a loro volta agli assalitori vittoriosi una dura lezione.
Le cannoniere, vistesi impotenti a sostenere il fuoco contro un così terribile avversario, che possedeva delle artiglierie di una potenza e di un calibro quasi sconosciuto in quell'epoca, raccolti in furia i marinai dell'incrociatore e gettata una gomena al brigantino che si trovava nell'impossibilità di rimettersi alla vela, batterono rapidamente in ritirata in direzione di Mompracem, salutati da un'ultima scarica fatta dai pezzi da caccia della Marianna e dalle spingarde dei prahos.
Intanto un uomo era disceso sulla piattaforma della scala della nave americana, che era stata subito abbassata e si era slanciato sulla coperta cadendo fra le braccia aperte di Yanez.
Era di statura piuttosto alta, stupendamente sviluppato, con una testa bellissima, d'aspetto fiero ed energico, colla pelle assai abbronzata, gli occhi nerissimi che pareva avessero dentro un fuoco e la capigliatura folta, ricciuta e nera come l'ala d'un corvo, che cadevagli sulle spalle. La barba invece, appariva un po' brizzolata mentre sulla fronte si disegnavano alcune rughe che non dovevano essere precoci.
Vestiva all'orientale, con casacca di seta azzurra a ricami d'oro e maniche ampie, stretta alla cintura da un'alta fascia di seta rossa sorreggente una splendida scimitarra e due pistole dalle canne lunghissime e arabescate ed i calci ad intarsi d'avorio e d'argento; aveva calzoni larghi, alti stivali di pelle gialla a punta rialzata e sul capo un turbantino di seta bianca con un pennacchio fermato da un diamante grosso quasi come una noce.
Una bellissima fanciulla, che indossava un costume di donna indiana, lo seguiva.
– Sandokan! – aveva esclamato Yanez, stringendoselo al petto. – Tu, battuto! E anche tu, mia Surama!
Un lampo ardente balenò negli sguardi del comandante della squadriglia di velieri, mentre il suo viso assumeva una terribile espressione d'odio e nel medesimo tempo di dolore.
– Sì, battuto per la seconda volta e ancora dal medesimo nemico – disse poi con voce sorda.
– Cacciato da Mompracem!
– Non l'avrei certo lasciato per far piacere a loro, Yanez.
– Tutto perduto?
– Hanno distrutto tutto, quei cani. I villaggi sono in fiamme, la popolazione è stata massacrata senza risparmiare né le donne, né i fanciulli, colla ferocia ben nota degl'inglesi quando si sentono più forti e si trovano dinanzi a delle genti di colore. Anche la nostra casa non sussiste più.
– Ma perché questo assalto improvviso?
Sandokan, invece di rispondere aveva volto lo sguardo in giro, guardando la tolda della magnifica nave che si copriva di marinai americani.
– Dove hai trovato questo incrociatore? – chiese poscia. – Che cos'hai fatto in questi giorni? E Tremal-Naik? E Darma? E la Marianna? E chi sono questi uomini bianchi che prendono le difese delle Tigri di Mompracem?
– Sono avvenute delle cose gravissime, fratellino mio, dopo la mia partenza pel Kabatuan – rispose Yanez. – Ma prima che ti racconti ciò, dimmi dove ti recavi ora.
– In cerca di te, innanzi tutto, poi di un nuovo asilo. Non mancano le isole al nord del Borneo dove potersi posare e prepararsi alla vendetta – disse Sandokan. – La Tigre della Malesia farà udire ancora il suo ruggito sulle spiaggie di Labuan e anche su quelle di Sarawack.
Yanez fece un segno al capitano americano che stava fermo a pochi passi, in attesa di ricevere gli ordini del nuovo proprietario della nave, poi, dopo averlo presentato a Sandokan, gli chiese:
– Dov'è che desiderate sbarcare, capitano?
– Possibilmente a Labuan, dove mi sarà più facile trovare imbarchi per Pontianak e poi ho due uomini laggiù che potrebbero darvi delle preziose informazioni, signor de Gomera.
«Rimarranno a vostra disposizione fino a che ne avrete bisogno tutto il personale di macchina che ha accettato le vostre proposte e due quartier-mastri artiglieri onde istruire i vostri malesi nel servizio dei pezzi. Sarei ben lieto di rimanere in vostra compagnia e prendere parte alla campagna, che non ne dubito, inizierete contro quei signori dalle bandiere rosse inquartate.»
– Avanzatevi lentamente su Labuan in modo da potervi giungere di notte. I prahos potranno seguirci senza difficoltà, essendo il vento fresco – ordinò Yanez.
Poi, passato un braccio sotto il destro di Sandokan, lo trasse verso poppa e scesero entrambi nel quadro, seguiti dalla giovane indiana.
In quel momento le cannoniere, il brigantino e l'incrociatore scomparivano fra le nebbie dell'orizzonte.
– Narrami che cosa è successo a Mompracem, innanzi tutto – disse Yanez, mentre sturava una bottiglia di whisky e fissava sorridendo Surama. – Perché ti sono piombati addosso?
«Kammamuri che era giunto alla fattoria di Tremal-Naik mi aveva già narrato che il governatore di Labuan desiderava prenderti l'isola.»
– Sì, e col pretesto che la mia presenza costituiva un continuo pericolo per quella colonia ed incoraggiava i pirati bornesi – rispose Sandokan. – Non credevo però che spingesse le cose tanto oltre verso di noi, che abbiamo reso all'Inghilterra un così grande servigio sbarazzando l'India dalla setta dei thugs.
«Invece quattro giorni or sono un messo inglese mi recò l'ordine di sgombrare l'isola entro quarant'otto ore, sotto la minaccia di cacciarmivi colla forza.
«Scrissi allora al governatore che l'isola da vent'anni era stata occupata da me e che per diritto mi apparteneva e che la Tigre della Malesia era tale uomo da difenderla a lungo; quand'ecco che ieri sera, senza alcuna dichiarazione di guerra, mi vedo piombare addosso quella squadra che tu hai trattata così bene, mentre un'altra, composta di piccoli velieri, sbarcava sulle rive occidentali quattro compagnie di sipai con quattro batterie d'artiglieria.»
– Canaglie! – esclamò Yanez, indignato. – Ci hanno considerato come fossimo ancora dei pirati!
– Peggio, come degli antropofaghi – disse Sandokan, con voce fremente. – A mezzanotte i villaggi sorpresi erano in fiamme ed i loro abitanti massacrati con inaudita ferocia, mentre la squadra apriva un fuoco terribile contro le nostre trincee della piccola baia, distruggendomi buona parte dei prahos.
«Quantunque preso fra due fuochi, fra i pezzi delle navi e le batterie dei sipai, ho resistito disperatamente fino all'alba, respingendo più di quattordici attacchi; poi, quando vidi che ogni resistenza era inutile, mi sono imbarcato cogli avanzi delle mie bande ed a colpi di cannone mi sono aperto il passo fra gl'incrociatori e le cannoniere, riuscendo a fuggire in tempo.»
– Ed ora che cosa intendi di fare?
La Tigre della Malesia alzò la destra agitandola come se impugnasse qualche arma e si preparasse a vibrare un colpo mortale, poi, contraendo le labbra come la belva di cui portava il nome, disse con uno scoppio d'ira spaventevole:
– Che cosa penso di fare? Come vent'anni or sono ho fatto tremare Labuan, tornerò a spargere il terrore su tutte le sue coste. Dichiaro la guerra all'Inghilterra ed a Sarawack insieme.
– Od al figlio di Suyodhana?
Sandokan aveva fatto un soprassalto.
– Che cosa hai detto, Yanez? – gridò, guardandolo con profonda sorpresa.
– Che l'uomo che ha sollevati i dayaki del Kabatuan, che ha fatto muovere il governatore di Labuan e quello di Sarawack per cacciarci da Mompracem è il figlio della Tigre dell'India che tu hai uccisa a Delhi.
Sandokan era rimasto muto: pareva che quella inaspettata rivelazione lo avesse fulminato.
– Aveva un figlio, il capo degli strangolatori indiani! – esclamò finalmente.
– E molto abile e molto risoluto e deciso a vendicare la morte di suo padre – aggiunse Yanez. – Noi abbiamo perduta già la nostra isola, tutte le fattorie di Tremal-Naik sono state distrutte e quel caro amico e Darma si trovano in sua mano.
– Te li hanno rapiti! – gridò Sandokan.
– Dopo un combattimento terribile che sarebbe terminato colla morte di tutti, senza l'arrivo provvidenziale di questa nave.
Sandokan si era messo a girare pel salotto cogli scatti d'una belva rinchiusa in una gabbia, la fronte burrascosamente aggrottata e le mani raggrinzite sul petto.
– Narrami tutto – disse ad un tratto, fermandosi dinanzi al portoghese e vuotando d'un fiato solo una tazza di whisky.
Yanez, più brevemente che poté, raccontò le diverse avventure toccategli dopo la partenza da Mompracem e che già noi conosciamo.
Sandokan le aveva ascoltate in silenzio, senza interromperlo.
– Ah! Questa nave è nostra? – disse quando Yanez ebbe finito. – Sta bene: faremo guerra all'Inghilterra, a Sarawack, al figlio di Suyodhana, a tutti!
– E dei nostri prahos che cosa farai? Non potrebbero seguire questa nave che fila come un pesce veliero. Vorresti affondarli?
– Li manderemo nella baia d'Ambong. Colà abbiamo degli amici e terranno in consegna i nostri velieri fino al nostro ritorno, mantenendo un equipaggio solo sulla Marianna.
– Che ci seguirà?
– Potremmo averne bisogno più tardi.
Lasciarono il quadro e salirono in coperta, dove Kammamuri, il prode maharatto, e Sambigliong li attendevano.
La nave filava a piccolo vapore verso oriente, seguita a breve distanza dalla Marianna di Sandokan e dai prahos, i quali avevano il vento in favore.
In lontananza si profilavano debolmente le alture di Labuan, indorate dagli ultimi raggi del sole, prossimo ormai al tramonto.
Alle nove di sera, l'incrociatore s'arrestava a mezzo miglio dalla spiaggia di fronte al luogo ove aveva sbarcato i due marinai potendo darsi che il segnale venisse fatto quella notte istessa.
Nessuno aveva acceso i fanali, nemmeno la poderosa nave onde non attirare l'attenzione delle cannoniere inglesi a guardia dell'isola.
Erano trascorse quattro ore, quando un razzo verde, s'alzò sulla cima d'una scogliera. Yanez, Sandokan, l'americano e la giovane indiana che stavano chiacchierando sulla plancia di comando, seduti su delle poltrone a dondolo, si erano bruscamente alzati.
– Il segnale dei miei uomini! – aveva esclamato lo yankee. – Sapevo che erano due furbi quelli e che non avrebbero perduto il loro tempo nelle taverne di Victoria.
Ad un suo comando un marinaio lanciò un razzo rosso a cui i due americani risposero subito con un altro d'eguale colore.
Poco dopo una sottile linea oscura si staccava dalla scogliera, lasciandosi dietro una scia fosforescente. Il mare, saturo di nottiluche, luccicava sotto i colpi dei remi come se dei getti di zolfo fuso scorressero sotto la scialuppa. Yanez aveva fatto abbassare la scala.
Dieci minuti dopo l'imbarcazione abbordava la grossa nave ed i due americani salivano frettolosamente.
– Dunque? – chiesero ad una voce Yanez ed il comandante, con ansietà.
– Siamo riusciti al di là delle nostre speranze, signori – rispose uno dei due.
– Sbrigati a spiegarti, Tom – disse lo yankee. – Sai dove sono state condotte quelle persone?
– Sì, capitano. L'ho saputo da un nostro compatriota che montava quella scialuppa a vapore di cui vi ha parlato il signore – disse, accennando Yanez.
– Si è fermata a Labuan quella scialuppa? – chiese il portoghese.
– Solo pochi minuti per rinnovare la provvista di carbone e per sbarcare quel nostro compatriota a cui una palla aveva spezzato un braccio, – rispose il marinaio. – Mi disse quell'uomo che a bordo vi era un indiano, una fanciulla e cinque malesi.
– E dove li hanno condotti?
– A Redjang, nel fortino di Sambulu.
– Nel Sultanato di Sarawack! – esclamò Sandokan. – Allora è stato quel rajah che li ha fatti rapire?
– No, signore. Il nostro compatriota ci ha detto che è stato un uomo che si fa chiamare «Il Re del Mare» ma che pare abbia l'appoggio, più o meno velato, del governatore di Labuan e del rajah.
– Non sa chi è costui? – chiese Yanez.
– Lui stesso lo ignora, non avendolo mai veduto. Ma ha tuttavia assicurato che quell'uomo è potente e che è amico del rajah – disse il marinaio.
– Quell'uomo non può essere che il figlio di Suyodhana – disse Sandokan, dopo un breve silenzio.
Si volse verso il comandante americano:
– Volete sbarcare qui? – gli chiese.
– Preferirei qui piuttosto che su di un'altra costa.
– Non avrete dei fastidi da parte degl'inglesi, dopo quello che avete fatto?
– Nessuno mi conosce, signore, e poi sono suddito americano e gli inglesi non oseranno molestarmi. D'altronde inventerò una storiella qualunque per spiegare la mia presenza sulle coste di Labuan: un naufragio per esempio avvenuto molto al largo, la presa della mia nave da parte dei pirati bornesi o qualche cosa d'altro. Non inquietatevi per me.
– V'incarichereste di affidare una lettera all'ufficio postale di Victoria pel governatore di Labuan?
– Figuratevi se vi negherei un tal favore, signore.
– Vi avverto che si tratta d'una dichiarazione di guerra.
– Me l'ero immaginato – rispose l'americano. – Mi guarderò dall'avvertire il governatore di averla impostata io.
– Yanez – disse Sandokan, volgendosi all'amico. – Preleva dalla mia cassa, che si trova nella mia cabina della Marianna, mille sterline che regalerai all'equipaggio americano e fa' preparare le scialuppe onde sbarchi. Scendo un momento nel quadro a scrivere la lettera pel governatore.
Quando tornò sul ponte, l'equipaggio americano che doveva lasciare la nave, escluso il personale di macchina ed i due quartier-mastri cannonieri che avevano già firmato l'arruolamento, lo salutò con un formidabile:
– Urrah alla Tigre della Malesia! Urrah! Hipp! Hipp!
Sandokan reclamò con un gesto un breve silenzio, poi fatti salire a bordo della nave i comandanti dei prahos e la maggior parte dei suoi tigrotti, lesse ad alta voce:
Noi Sandokan, soprannominato la Tigre della Malesia, ex principe di Kini Balù, e Yanez de Gomera legittimi proprietari dell'isola di Mompracem, notifichiamo al signor governatore di Labuan che da oggi dichiariamo la guerra all'Inghilterra, al rajah di Sarawack ed all'uomo che è da loro protetto.
Da bordo del Re del Mare: 24 Maggio 1868.
Sandokan e Yanez De Gomera
Un urlo terribile, selvaggio, si scatenò come un uragano dai petti delle terribili Tigri di Mompracem.
– Viva la guerra! Morte ed esterminio alle giacche rosse!
– Signore – disse il comandante americano, tendendo a Sandokan la destra. – Vi auguro di dare a quel prepotente John Bull una dura lezione. Della potenza della nave, che v'ho venduto, ne rispondo pienamente e nessun'altra che si trovi in questi mari potrà tenervi testa. Prima però di lasciarvi vi voglio fare una domanda e darvi un consiglio.
– Parlate – disse Sandokan.
– La nave non possiede che cinquecento tonnellate di carbone, provvista che, anche economizzata, non potrà durarvi più d'un mese. Servitevi più che potete delle vele, perché dopo la vostra dichiarazione di guerra, avrete chiusi i porti olandesi e del Sultanato di Bruni che si manterranno indubbiamente neutrali e che si rifiuteranno di provvedervi.
– Avevo già pensato a questo – rispose Sandokan.
– Mandate quindi, prima che la guerra scoppi, la vostra Marianna a caricare carbone a Bruni e datele un appuntamento in qualche punto della baia di Sarawack onde la vostra nave non rimanga senza combustibile in sul più bello della guerra. Il carbone per voi non sarà meno prezioso della polvere, ricordatevelo.
– In caso disperato andrò a saccheggiare i depositi che gl'inglesi hanno su certe isole pel rifornimento delle loro squadre – rispose Sandokan.
– Ed ora, signori, buona fortuna – disse l'americano, stringendo energicamente le mani ai due antichi pirati di Mompracem.
Mise la lettera nel portafoglio e scese la scala.
Il suo equipaggio aveva preso posto nelle imbarcazioni che erano guidate da numerosi pirati.
La squadriglia prese subito il largo, dopo un altro più fragoroso urrah.
Mezz'ora dopo, le imbarcazioni, sbarcato l'equipaggio americano sulla spiaggia di Labuan, facevano ritorno.
La Marianna ed i prahos avevano sciolte le vele, pronti a salpare pel nord e raggiungere il porto amico di Ambong, con equipaggi ridotti, essendo la maggior parte dei loro marinai passati sull'incrociatore.
– Ed ora – disse Sandokan, quando ebbe dato gli ultimi ordini ai comandanti dei legni e che questi si misero in marcia, – andiamo a liberare Tremal-Naik ed abbattere la potenza del rajah di Sarawack, suoi alleati e protetti.
Un momento dopo, il Re del Mare, come era stata battezzata la poderosa nave americana, si slanciava a tutto vapore verso il sud, per raggiungere la baia di Sarawack.
PARTE SECONDA
IL FIGLIO DI SUYODHANA
UNA SPEDIZIONE NOTTURNA
– Signor Yanez, vedo un lume brillare laggiù, entro quell'apertura.
– L'ho veduto, Sambigliong.
– Che vi sia un praho ancorato nella rada?
– Io credo invece che si tratti di una scialuppa a vapore, di quella che ha condotto qui Tremal-Naik e Darma.
– Che si vegli all'entrata della rada?
– È possibile, amico – rispose tranquillamente il portoghese, gettando via la sigaretta che stava fumando.
– Potremo passare inosservati?
– Chi vuoi che si aspetti un colpo di mano da parte nostra? Redjang è troppo lontana da Labuan e poi scommetterei che nemmeno a Sarawack sanno che noi siamo già giunti. Chissà se la nostra dichiarazione di guerra al leopardo inglese e al nipote di James Brooke è giunta qui. E poi non siamo noi vestiti da sipai indostani? Forse che le truppe del rajah portano dei vestiti diversi dai nostri?
– Tuttavia, signor Yanez, preferirei che quella scialuppa o quel praho non si trovasse qui.
– Devono dormire della grossa a bordo, mio caro Sambigliong, e noi li sorprenderemo.
– Come! Assaliremo quei marinai? – chiese Sambigliong.
– Non amo lasciarmi alle spalle dei nemici che potrebbero molestarci nella ritirata. Ci sbarazzeremo il terreno senza che la Perla di Labuan venga in nostro aiuto e avvicinandosi alla costa urti contro qualche scogliera. Suppongo che non saranno in molti su quella scialuppa o praho che sia e noi siamo lesti di mano. Non fate uso delle armi da fuoco: solo i parang ed i kriss devono lavorare. Mi avete capito?
– Sì, signor Yanez – risposero parecchie voci.
– Avanti dunque e silenzio.
Questa conversazione avveniva su una grossa scialuppa, manovrata da sei paia di remi e montata da quattordici persone che indossavano il pittoresco costume dei sipai sarawackini: giacca di panno rosso, calzoni bianchi di tela, turbantino in testa pure bianco e scarpe colla punta rialzata.
Dodici avevano la pelle di colore molto oscuro, che li faceva rassomigliare a malesi o per lo meno a dayaki: e gli altri due invece erano di razza caucasica ed indossavano la divisa di ufficiali.
Erano tutti uomini robusti, alti e muscolosi e tenevano presso i loro rispettivi banchi delle lunghe carabine di fabbrica indiana, delle pesanti sciabole colla lama molto larga e dei pugnali a lama serpeggiante, i famosi e terribili kriss malesi.
La scialuppa, che manovrava silenziosamente e velocemente, sotto la direzione di Yanez che stava a poppa, alla barra del timone, muoveva verso una profonda baia che s'apriva sulla costa occidentale dell'isola del Borneo, in quella porzione che è bagnata dalle acque del grande golfo di Sarawack.
Quantunque la notte fosse oscurissima, essendo le stelle coperte da un velo di vapori che la brezza di ponente spingeva verso la costa, la scialuppa s'avanzava senza mai esitare, scivolando fra le scogliere corallifere che apparivano vagamente a babordo ed a tribordo e contro cui rompevasi la risacca con dei muggiti prolungati.
Si dirigeva verso un piccolo punto luminoso che si scorgeva in fondo alla rada e che ora s'alzava ed ora s'abbassava, come se subisse delle scosse improvvise.
Si era già molto inoltrata entro quel profondo squarcio della costa, quando l'uomo bianco che stava seduto presso Yanez, un bel giovane di venticinque o vent'otto anni, di forme massiccie, con una barbetta tagliata all'americana e che indossava la divisa di luogotenente, chiese:
– Capitano Yanez, se ci interrogano, che cosa diremo?
– Che andiamo a portare viveri al fortino di Macrae – rispose il portoghese, che aveva accesa una seconda sigaretta. – Forse che la nostra scialuppa non è carica d'ogni ben di Dio?
– E appena saremo bordo contro bordo daremo addosso?
– Sì, signor Horward. Noi pirati non esitiamo mai e andiamo sempre a fondo. Se sarà una scialuppa a vapore, v'incaricherete voi di metterla subito sotto pressione, così ci rimorchierete subito al largo dopo fatto il colpo.
– Avete fiducia che riesca?
– Piena, completa, signor Horward. Fra due ore Tremal-Naik e Darma saranno a bordo del Re del Mare, ve lo dico io.
– Siete ammirabili voi altri, signor Yanez.
– Siamo abituati a correre tutti i rischi – rispose il portoghese. – D'altronde anche voi americani avete nelle vene del buon sangue.
– Oh!
Una voce che era partita dal praho o dalla scialuppa, poiché l'oscurità non permetteva ancora di ben distinguere che cosa fosse, aveva gridato:
– Chi vive?...
– Amici che vanno a rifornire di viveri il fortino di Macrae – rispose Yanez.
– Abbiamo l'ordine di proibire lo sbarco a tutti fino all'alba.
– Chi ha dato quest'ordine?
– Il capitano Moreland, che si trova nel fortino in attesa che la sua nave si sia rifornita di carbone.
– Aspetteremo l'alba presso di voi – rispose Yanez.
Poi volgendosi verso il macchinista americano ed a Sambigliong che gli stava presso, disse a mezza voce:
– Non sapevo che vi fosse una nave in queste acque. Il capitano Moreland! Chi sarà costui?
– Qualche inglese ai servigi del rajah di Sarawack, senza dubbio – rispose l'americano.
– Priveremo la nave del suo capo – disse Sambigliong. – Lo faremo prigioniero assieme alla guarnigione del fortino.
– Adagio, mio caro – disse Yanez. – Vi possono essere in quel fortino più uomini di quello che crediamo e noi dobbiamo giuocare d'astuzia. D'altronde nulla sospetteranno, ora che abbiamo fermata la scialuppa che era incaricata di approvvigionarlo.
– Una vera fortuna, signor Yanez – disse l'americano.
– Non dico il contrario... Là, vedete se mi ero ingannato? È una scialuppa a vapore e non già un praho. Ragazzi, tenetevi pronti.
– Accosta! – gridò in quel momento una voce rauca. – O vi scarico addosso un po' di mitraglia.
– E assassinereste dei camerati – rispose Yanez. – Vi avverto intanto che io sono un ufficiale del rajah e non un dayako.
L'uomo che aveva formulata quella minaccia brontolò qualche parola che non giunse fino a Yanez.
La scialuppa a vapore era ormai tanto vicina da distinguerla benissimo, essendo illuminata da un grosso fanale di marina appeso sulla cima del fumaiolo.
Era una barcaccia lunga una diecina di metri, larga di fianchi, fornita di ponte, con un piccolo pezzo di cannone collocato a prora. Alcuni uomini erano appoggiati alla murata di babordo, vestiti di bianco e sembravano indiani dai turbantini che portavano in testa.
– Gettate una gomena – disse Yanez, mentre i suoi malesi alzavano i remi e afferravano i parang tenendoli nascosti sotto i banchi.
Una fune fu gettata dalla barcaccia e venne subito afferrata da Sambigliong che era passato a prora.
– Pronti – sussurrò Yanez ai suoi uomini. – Quando udrete il mio comando, balzate sopra il bordo.
Con poche bracciate la scialuppa si trovò addosso alla barcaccia. Yanez e l'americano in un momento passarono a bordo della seconda.
– Chi è che comanda qui? – chiese il portoghese, con voce imperiosa.
– Sono io, signore – rispose un indiano che portava sulle maniche i galloni di sergente, salutando. – Perdonate, signor tenente, di avere minacciato di mitragliarvi, ma il capitano Moreland ha dato ordini severissimi e non posso permettervi d'approdare.
– Dov'è il capitano?
– Nel fortino.
– E la sua nave?
– Alla foce del Redjang, dinanzi la bocca settentrionale.
– I prigionieri sono sempre nel fortino?
– Quell'indiano e quella fanciulla?
– Sì – disse Yanez.
– Ieri vi erano ancora, ma credo che appena la nave del capitano avrà compita la sua provvista di carbone, li trasporterà a Sarawack.
– Che cosa si teme?
– Un colpo di mano da parte delle Tigri di Mompracem. Corre voce che si siano messi in mare contro l'Inghilterra e il rajah.
– Baie – disse Yanez. – Sono tutti fuggiti al settentrione del Borneo. Quanti uomini hai qui?
– Otto, signor tenente.
– Arrenditi!
Prima che il sergente si fosse rimesso dallo stupore, il portoghese con una mossa fulminea l'aveva afferrato colla destra per la gola, mentre colla sinistra gli aveva puntato al petto una delle due pistole che teneva alla cintura.
Vedendo quell'atto, i dodici tigrotti che formavano l'equipaggio della scialuppa, avevano scavalcata rapidamente la murata scagliandosi contro gli indiani coi parang alzati.
– Chi oppone resistenza è uomo morto! – tuonò Yanez.
Il sergente, che doveva essere un uomo di fegato, con una brusca mossa cercò di sottrarsi alla stretta del portoghese e di estrarre la sciabola, mentre gridava ai suoi uomini:
– Prendete le carabine!
L'americano Horward che gli si era posto dietro, fu pronto ad afferrarlo a mezzo corpo ed a farlo ruzzolare sul ponte con uno sgambetto dato a tempo. Vedendo il loro sergente cadere e che i pirati stavano per far uso dei parang, l'equipaggio non osò muoversi.
– Sambigliong, lega il sergente e voi altri disarmate tutti e calateli sotto il ponte bene assicurati.
L'ordine fu subito eseguito senza che gl'indiani opponessero resistenza.
– Ora – continuò il portoghese, sedendosi presso il sergente che era stato legato solidamente alla murata. – Se ti preme salvare la pelle, discorriamo un po'. Sarebbe inutile che tu ti ostinassi a tacere, conoscendo noi il modo di far parlare anche i muti. Quanti uomini vi sono nel fortino di Macrae?
– Cinquanta, compreso il capitano ed un tenente del rajah.
– Chi è quel sir Moreland?
– Si dice che prima fosse un tenente della marina anglo-indiana.
– Che cosa è venuto a far qui?
– Non lo so, signore; pare che siasi unito al rajah di Sarawack, e che goda anche la protezione del governatore di Labuan. So che comanda una bella nave a vapore, formidabilmente armata.
– È un inglese, dunque?
– Così si dice – rispose il sergente. – Quantunque sia di carnagione molto bruna.
– Che bandiera batte la sua nave?
– Quella del rajah di Sarawack.
– Quale distanza corre da qui al fortino?
– Appena un miglio.
– Tu avrai salva la vita e dieci sterline di regalo. Signor Horward, voi rimarrete qui con due dei nostri e nel frattempo accenderete la macchina. Ne avremo bisogno fra alcune ore. Gli altri s'imbarchino con me.
Poi, rivolgendosi nuovamente al sergente:
– Si trova su un'altura il fortino, è vero?
– Di fronte a noi – rispose l'indiano. – È la sola altura che vi sia su questa costa.
– Benissimo: voi rimarrete prigionieri fino al nostro ritorno e, se rimarrete tranquilli, vi lascieremo poi liberi. Signor Horward, buona notte e buona guardia.
– Buona fortuna, capitano Yanez – rispose l'americano.
Il portoghese ridiscese nella scialuppa con Sambigliong e nove uomini, lasciandone due all'americano e diede il segnale della partenza.
L'imbarcazione si staccò dalla barcaccia e filò verso la spiaggia che si trovava a tre o quattrocento passi e contro cui rompevasi, con cupo fragore, la risacca, risalendo per un buon tratto la spiaggia.
Gli undici uomini sbarcarono senza alcun inconveniente, tirarono in secco la scialuppa, poi deposero i parang, armandosi invece delle carabine e caricandosi di ampie ceste che parevano piuttosto pesanti.
– Siete pronti? – chiese Yanez.
– Sì, capitano – risposero tutti.
– Lasciate parlare me solo e tenetevi pronti a tutto.
– Saremo muti.
– Avanti, miei prodi. Le Tigri di Mompracem non temono i mammalucchi del rajah di Sarawack.
Essendosi in quel frattempo diradato un po' il velo nebbioso che nascondeva le stelle, Yanez aveva subito scorto l'altura su cui trovavasi il fortino, essendo il paese circostante tutto piano. Il drappello si mise in marcia nel più profondo silenzio. Yanez rischiarava la via con una grossa lanterna, che aveva tolta dalla scialuppa e che dovevasi scorgere ad una grande distanza fra l'oscurità della notte.
Scoperto al di là delle dune una specie di sentiero che serpeggiava fra delle piantagioni d'indaco e che pareva si dirigesse verso l'altura, gli undici uomini vi s'inoltrarono camminando in fila indiana.
Non avevano scelta male la direzione, perché venti minuti dopo si trovavano alla base della minuscola collina, alta appena duecento metri, sulla cui cima scorgevasi confusamente una specie di torricella con intorno delle case e delle cinte.
– Se non dormono o non sono ciechi devono aver scorta la mia lampada – disse Yanez. – Mio caro signor Moreland, vedrai come ti giuocheranno le Tigri di Mompracem! Poi Sandokan si occuperà della tua nave, giacché ne hai una.
Un sentieruzzo che s'innalzava a zig-zag conduceva al fortino.
Yanez, dopo d'aver accordato ai suoi uomini un momento di riposo, essendo quelle ampie ceste assai pesanti, cominciò a salire, tenendo la sciabola sguainata.
Il drappello era giunto già a metà costa, quando da uno spalto del fortino si udì una voce gridare:
– Chi va là?
– Il tenente Farshon con sipai di Sarawack che portano viveri pel fortino e ordini pel capitano Moreland.
– Attendete.
Si udirono delle voci, poi si videro parecchi lumi brillare sulle palizzate e finalmente tre uomini che parevano dayaki, quantunque indossassero il costume indiano e armati di carabine, mossero incontro al drappello. Uno di essi portava una torcia.
– Da dove venite, signor tenente? – chiese uno dei tre.
– Da Kohong – rispose Yanez. – È ancora sveglio il capitano Moreland?
– Ha finito or ora di cenare assieme ai prigionieri.
– Si mangia molto tardi a Macrae.
– Il capitano è tornato dopo il tramonto, questa sera.
– Conducetemi subito da lui; ho delle gravi notizie da comunicargli.
– Seguitemi, signor tenente.
Yanez gli si mise dietro, mormorando fra i denti:
– Ecco una cosa che non avevo prevista. Se Tremal-Naik o Darma, vedendomi comparire improvvisamente, mandasse un grido di sorpresa? Mio caro Yanez sta' in guardia. La carta che stai giuocando è terribile.
Il drappello varcò un ponte levatoio, attraversò due cinte e un vasto cortile e giunse dinanzi ad un fabbricato piuttosto vasto, costruito in muratura e sormontato da una torricella. Dalle finestre del pianterreno uscivano due sprazzi di luce, essendo le imposte ancora aperte.
– Venite, tenente: il capitano è là – disse uno dei tre dayaki. – Devo dare ricovero ai vostri uomini?
– No, per ora: lasciateli qui nel cortile.
Ringuainò la sciabola, si assicurò le pistole dentro la fascia, scambiò con Sambigliong un rapido cenno e affettando una grande calma entrò in una saletta illuminata da una lanterna cinese, di carta oliata, dove dinanzi ad una tavola riccamente imbandita si trovavano tre persone: un capitano di marina, Tremal-Naik e Darma.
UN AUDACE COLPO DI MANO
Vedendo entrare Yanez, in quel costume a cui non erano abituati, Tremal-Naik e la fanciulla si erano alzati di scatto colla bocca aperta pronti a mandare quel grido di sorpresa, naturale del resto, che l'audace portoghese tanto temeva. Uno sguardo fulmineo di lui lo arrestò a tempo sulle loro labbra.
Fortunatamente il capitano Moreland, che volgeva le spalle alla porta e che nell'alzarsi si era imbrogliata la correggia della sciabola nella spalliera della sedia, non aveva potuto sorprendere quello sguardo imperioso.
Fece mezzo giro su se stesso e squadrò il portoghese che aveva portata la destra sulla visiera dell'elmetto di sughero coperto di flanella bianca, salutando militarmente.
Il capitano era un bel giovane, di forse venticinque anni, di statura piuttosto alta e slanciata, con due occhi nerissimi, che parevano avessero dentro il fuoco, una barbetta nera che gli dava un aspetto fiero e, come aveva detto il sergente della barcaccia, aveva la pelle assai abbronzata. Si sarebbe detto che aveva nelle vene più sangue indiano o malese che europeo, malgrado la purezza dei suoi lineamenti che erano più caucasei che indù.
– Da dove venite, signor tenente? – gli chiese in purissima lingua inglese, dopo che lo ebbe ben guardato.
– Vengo da Kohong a portarvi dei viveri da parte di quel governatore. Non ne aspettavate, capitano?
– Sì, avevo fatto chiedere delle provviste che qui non si possono trovare.
– Delle bottiglie e dei prodotti europei?
– È vero – rispose il capitano. – Ma non era necessario che per inviarmi ciò mi mandasse anche un ufficiale. Bastavano alcuni soldati.
– Non si fidava a comunicare loro le notizie che io sono incaricato di darvi a voce.
– Delle notizie?
– E gravi, sir Moreland.
– Siete il comandante della guarnigione di Kohong, voi?
– Sì, capitano.
– Non siete inglese, voi.
– No, uno spagnolo da parecchi anni ai servigi del rajah di Sarawack.
– Che cosa avete da dirmi?
Yanez accennò Tremal-Naik e Darma che stavano immobili, in piedi guardandolo con crescente stupore, senza però lasciarsi sfuggire un cenno qualsiasi che potesse allarmare il capitano.
– Avete ragione – disse sir Moreland, sorridendo. – Sono miei prigionieri.
Si volse verso Tremal-Naik e Darma e disse loro con perfetta cortesia:
– Permettete che mi assenti qualche minuto.
– Toh! toh! – mormorò Yanez fra i denti. – Li tratta più da ospiti che come prigionieri. Che cosa vi può essere sotto?
Seguì lo sguardo del capitano e lo vide fissarsi replicatamente sulla fanciulla, la quale abbassò gli occhi, mentre un leggiero rossore le coloriva le gote.
– Ah! Diavolo! – pensò il portoghese, corrugando lievemente la fronte. – Il sangue anglo-indiano s'intende forse? La sarebbe curiosa!
Il capitano aveva aperta una porta laterale ed introdusse Yanez in un elegante gabinetto ammobigliato all'indiana, con ricchi tappeti, mobili leggieri, divanetti di stoffa orientale trapuntati in oro e con grandi vasi di bronzo a rilievi, collocati negli angoli.
Una lampada a globo un po' opaca ed azzurrognola spandeva una luce un po' velata sui tappeti facendo scintillare i loro ricami d'argento.
– Nessuno potrà udirci, tenente – disse il capitano, dopo d'aver chiusa la porta a chiave e d'aver lasciata cadere una pesante tenda di broccato antico.
– Sapete capitano, che le Tigri di Mompracem hanno dichiarato la guerra all'Inghilterra ed al rajah di Sarawack suo protetto? – disse Yanez.
– Ne sono stato informato fino da ieri da un corriere del rajah – rispose sir Moreland. – Ma quelli sono pazzi!
– Non forse quanto credete – rispose Yanez. – Ricordatevi che fu Sandokan a rovesciare James Brooke quand'era al colmo della sua potenza e che lo si credeva invincibile.
– Quelli erano altri tempi, tenente. E poi, sfidare l'Inghilterra! Ignorano dunque che la sua potenza navale è temuta perfino dagli stati europei? Quei pazzi faranno qualche crociera in queste acque coi loro prahos, poi si squaglieranno alle prime cannonate.
– Ecco dove v'ingannate, sir Moreland. Non è coi loro velieri che hanno intrapresa la guerra. Ieri è stata veduta una grossa e poderosa nave a vapore, fumare a venti miglia al largo di Kohong e che aveva sul picco la bandiera rossa delle Tigri di Mompracem.
Il capitano aveva sussultato.
– Qui di già? – esclamò.
– E pare che si dirigano verso queste coste.
– L'avete incontrata voi?
– No, capitano.
– Che cosa vengono a fare qui? Che sappiano che la mia nave è ancorata alla seconda bocca del Redjang?
– Il governatore di Kohong crede invece che mirino ad assalire il fortino di Macrae per liberare i due prigionieri ed è perciò che mi ha mandato qui ad avvertirvi di inviarli subito da lui. Io ho l'incarico di condurli colla barcaccia a vapore che staziona nella rada.
– Sono più sicuri a bordo della mia nave.
– Li esporreste al rischio d'una grave battaglia ed essendo molto problematica la vostra vittoria, il governatore preferirebbe che glieli mandaste. Pare che tale desiderio lo abbia manifestato anche il rajah a quanto ho potuto capire. Ci tiene ad avere in ostaggio quelle due persone per frenare Sandokan nelle sue audacie ed impedirgli di ritentare l'insurrezione dei dayaki dell'interno, che sono stati suoi alleati ai tempi di James Brooke.
Sir Moreland era rimasto silenzioso, come se fosse in preda ad una viva preoccupazione; poi, dopo qualche istante di silenzio, disse con tono singolare che non sfuggì al portoghese:
– Anch'io ci tengo dacché Tremal-Naik e Darma rimangano prigionieri.
Si passò con un moto nervoso una mano sulla fronte e mandò un sospiro.
– Fatalità del destino – disse poi, come parlando fra sé.
Yanez lo osservava attentamente, pensando:
– Che diavolo... che quell'anglo-indiano sia stato ferito dagli occhi di Darma? Vivaddio è un bel giovane, pieno di fuoco e di slancio e mi sembra leale. Se provassi a grattargli dolcemente la gola? – Capitano – disse. – Che cosa decidete dunque?
– Il governatore di Kohong può aver ragione – rispose sir Moreland, dopo un altro breve silenzio. – I prigionieri potrebbero essermi d'imbarazzo a bordo della mia nave e poi non si sa mai come finisce una battaglia, specialmente quando vi sono di mezzo quei terribili pirati. Ho fiducia intera nella robustezza del mio vascello e nel valore dei miei uomini, scelti con cura e anche nella potenza dei miei cannoni che sono dei più moderni; ma non conosco le forze dei nostri avversari e potrei avere la peggio. Voi credete che essi sappiano dove si trova il mio Sambas?
– È il nome della vostra nave?
– Sì – rispose il capitano.
– A Kohong si crede che la Tigre della Malesia e Yanez sappiano dove si trova ancorata e non si dubita che da un momento all'altro vi assalgano.
– Allora affiderò a voi i due prigionieri; ma risponderete della loro salvezza?
– Io seguirò la costa passando dietro le scogliere. L'acqua non è abbondante in quei canali interni e la nave dei pirati della Malesia non potrebbe seguirmi. Io rispondo pienamente di loro, capitano.
– È meglio che approfittiate delle tenebre.
– È quello che volevo proporvi, sir Moreland – disse Yanez, che frenava a grande stento la gioia interna.
– Quanti uomini avete?
– Dieci qui e due nella rada.
– Vi servirete della barcaccia a vapore, così all'alba potrete giungere a Kohong.
– E voi, capitano?
– Io uscirò in mare ed andrò a cercare la Tigre della Malesia. Anelo di misurarmi con quell'uomo.
– Lo odiate?
– È un pirata che è tempo di domare – si limitò a rispondere il capitano. – Seguitemi.
Riaprì la porta e rientrò nel salotto dove si trovavano ancora Tremal-Naik e Darma.
– Preparatevi a partire – disse, guardando particolarmente la fanciulla.
– Dove volete tradurci, capitano? – chiese Tremal-Naik.
– Ho ricevuto l'ordine di farvi condurre a Kohong.
– Qualcuno minaccia il fortino?
– Non posso rispondere a questa domanda.
Yanez finse di approvare con un gesto.
Sir Moreland fece cenno ai due prigionieri di andarsi ad abbigliare, poi sturò una bottiglia e riempì due bicchieri offrendone uno al portoghese.
– Voi mi assicurate che non vi lascierete catturare, è vero? – chiese l'anglo-indiano, dopo d'aver vuotato il suo.
– Se vedo qualche pericolo mi getterò alla costa, capitano – rispose Yanez.
– Sono valorosi i vostri uomini?
– Sono i migliori della guarnigione di Kohong. Quando avrò l'onore di rivedervi?
– Salperò all'alba e muoverò subito verso la cittadella, a menoché i pirati della Malesia non mi arrestino. Tuttavia ho fiducia di vincerli.
Yanez sbozzò un sorrisetto ironico.
– Ve l'auguro, capitano – disse poi. – È ora di finirla con quei fieri e pericolosi scorridori del mare.
Tremal-Naik e Darma erano in quel momento rientrati. Il primo si era coperto il capo d'un immenso turbante e la seconda si era gettata sulle spalle una mantiglia di seta bianca che l'avvolgeva tutta.
– Vi scorterò fino alla spiaggia – disse il capitano. – Quantunque nessun pericolo vi minacci.
Yanez, udendo quelle parole, aggrottò lievemente la fronte.
– Che prenda con sé degli uomini? – mormorò, assai contrariato da quella proposta. – Bah! Li ridurremo a dovere appena saremo in vista del mare.
Uscirono tutti insieme nel cortile, dove si trovavano sempre allineati i dieci pirati, appoggiati alle loro carabine. Vedendo apparire il capitano, presentarono le armi con un insieme che fece stupire lo stesso Yanez.
– Sono uomini solidi – disse sir Moreland, dopo d'averli osservati uno ad uno. – Andiamo.
Quattro pirati formarono l'avanguardia, dietro si misero Yanez e Tremal-Naik, poi Darma col capitano a qualche distanza, quindi gli altri sei. I primi portavano il fanale e tre torcie per illuminare la via, essendosi il cielo ricoperto di un fitto velo di vapori che intercettava completamente quel vago chiarore che proiettavano gli astri, specialmente attraverso la limpida atmosfera delle regioni equatoriali.
Un profondo silenzio regnava nelle pianure sottostanti alla collinetta, rotto solo dal passo leggiero del drappello. Anche la risacca pareva che si fosse calmata in causa forse del riflusso.
Yanez taceva, ma scambiava di quando in quando uno sguardo con Tremal-Naik e lo urtava col gomito, come per raccomandargli la massima prudenza. Dietro di lui il capitano diceva qualche parola, sottovoce, alla fanciulla, che il portoghese non riusciva ad afferrare per quanto aguzzasse l'udito.
I pirati, muti come pesci, col dito sul grilletto delle carabine, li seguivano, pronti al primo comando ad avventarsi contro il capitano.
Discesa la collinetta, il drappello s'avanzò in mezzo alle piantagioni e, siccome il sentiero era stretto, Yanez ne approfittò per distanziare il capitano.
– Sii pronto a tutto – sussurrò a Tremal-Naik, quando credette che il capitano non lo potesse più udire.
– E Sandokan? – chiese sottovoce l'indiano.
– Ci aspetta al largo.
– A quale rischio ti sei esposto, Yanez.
– Bisognava ben tentare un colpo di testa. Senza di voi non saremmo stati liberi di cominciare le ostilità.
– Del capitano che cosa ne farai? Ti chiedo la sua libertà, perché egli ci ha trattati più come ospiti che come prigionieri.
– Non ho alcuna intenzione di ucciderlo. Sarebbe una vigliaccheria assassinarlo. Chi è quell'uomo?
– Un inglese ai servigi del rajah, e che prima faceva parte della marina indiana.
– Lui, inglese, con quella pelle così abbronzata e quegli occhi! No, io lo credo un anglo-indiano piuttosto.
– Anche a me è venuto il sospetto; comunque sia, si è comportato verso di noi come un vero gentiluomo.
– Zitto: ecco il mare.
S'accostò ai quattro pirati che lo precedevano, fra i quali si trovava Sambigliong e sussurrò loro qualche parola.
– Va bene – rispose l'antico mastro della Marianna. – Me ne occuperò io.
Pochi minuti dopo giungevano sulla spiaggia del mare, là dove la scialuppa si trovava arenata. A tre o quattro gomene la barcaccia fumava. Il macchinista americano non aveva perduto il suo tempo a quanto pareva.
– Spingete in acqua la scialuppa – comandò Yanez.
Mentre quattro uomini eseguivano l'ordine, gli altri si erano disposti intorno al gruppo formato da Tremal-Naik, da Darma e dal capitano. Sambigliong anzi si era messo dietro a quest'ultimo.
Appena Yanez vide la scialuppa a galleggiare, s'accostò a sir Moreland che stava presso Darma e gli stese la mano, dicendogli:
– Fidatevi di me, capitano: io condurrò i prigionieri in salvo.
Nel medesimo tempo strinse la mano dell'anglo-indiano con tale forza da fargli scricchiolare le dita e da paralizzargli il braccio.
Mentre lo teneva, impedendogli in tale modo che sguainasse la sciabola, Sambigliong afferrò a mezzo corpo il capitano e con un colpo solo l'atterrò.
Sir Moreland aveva mandato un grido di furore:
– Ah! Miserabili!
I pirati si erano precipitati su di lui ed in meno che lo si dica gli avevano legate le mani dietro al dorso e l'avevano privato della sciabola e delle pistole che portava alla cintura.
Appena poté rimettersi in piedi, avendogli lasciate le gambe libere, fece atto di scagliarsi su Yanez che lo guardava, sorridendo silenziosamente.
– Che cosa significa questa aggressione? – gridò, pallido di ira. – Chi siete voi?
Yanez si levò l'elmetto e salutandolo ironicamente, gli rispose:
– Ho l'onore di presentarvi i saluti del mio amico, la Tigre della Malesia.
– Chi siete voi?
– Yanez de Gomera, sir Moreland.
La sorpresa fu tale che il giovane capitano fu per qualche istante incapace di pronunciare una parola.
– Yanez – disse finalmente, guardandolo quasi con terrore. – Voi, il compagno della Tigre della Malesia!
– Ho quest'onore – rispose il portoghese.
Il capitano girò lo sguardo verso Darma. La fanciulla non aveva mandato un grido, né aveva fatto un gesto durante quell'improvviso attacco. Era rimasta immobile e silenziosa, a cinque passi dall'anglo-indiano, quantunque il suo pallore tradisse una certa angoscia.
– Uccidetemi dunque, se l'osate – disse rivolgendosi a Yanez.
– Ci chiamano pirati, ma sappiamo essere generosi forse più degli altri – rispose il portoghese. – Se io fossi caduto nelle mani del rajah a quest'ora mi avrebbe fatto fucilare; io, signore, vi dono invece la vita.
– Che io avrei chiesta – disse Tremal-Naik.
– E che io non ti avrei rifiutata – aggiunse Yanez.
– Che cosa volete fare di me, dunque? – chiese il capitano coi denti stretti.
– Lasciarvi libero di tornarvene a Macrae, signore.
– Potreste pentirvi d'una simile generosità, perché domani vi darò la caccia colla mia nave.
– E troverete sul vostro cammino un avversario degno di voi – rispose Yanez. – Se volete attendere l'equipaggio della barcaccia, fra pochi minuti sarà qui.
– Si sono arresi quei miserabili?
– Li abbiamo sorpresi e non potevano misurarsi con noi. Capitano, buona notte e buona fortuna.
– Ci rivedremo più presto di quello che credete.
– Vi aspettiamo, sir Moreland. Su, imbarcate!
Tremal-Naik prese per mano Darma, che non aveva mai aperto bocca e la trasse dolcemente verso la scialuppa facendola sedere a poppa, poi s'imbarcarono tutti gli altri, mentre il capitano passeggiava nervosamente sulla spiaggia, cercando di spezzare le corde che gli legavano le mani.
La scialuppa prese subito il largo dirigendosi verso la barcaccia che fumava sempre e che aveva a prora il fanale acceso.
Darma, dopo d'aver stretta mestamente la mano al portoghese e d'averlo ringraziato con un sorriso, si era appoggiata con un gomito al banco di poppa e teneva gli sguardi fissi sulla riva. Anche il capitano aveva cessato di passeggiare. Ritto su una duna di sabbia guardava la scialuppa ad allontanarsi e forse non era la scialuppa che guardava.
– Ebbene, Tremal-Naik, che cosa ne dici di questo colpo di testa? – chiese Yanez, ridendo.
– Che voi siete dei demoni – rispose l'indiano. – Non dubitavo che un giorno o l'altro sareste venuti a salvarci, non però così presto. Come avevate saputo che ci avevano condotti a Macrae?
– A Labuan; più tardi ti narrerò tutto ciò che è avvenuto dopo il vostro rapimento. Sappi intanto che abbiamo una delle più potenti navi del mondo e che ci prepariamo a fare la guerra al rajah di Sarawack e all'Inghilterra, per vendicarci di averci cacciati da Mompracem.
– Tanto osate?
– E devo aggiungere un'altra cosa che ti farà stupire.
– Quale?
– Che quel pellegrino che ci diede tanto da fare era un emissario del figlio di Suyodhana.
– Tu dici...
– Quando saremo a bordo del Re del Mare ti spiegheremo meglio. Vorrei ora sapere se nessuno ti disse mai che Suyodhana avesse un figlio.
– Mai ne ho udito parlare e poi, come capo dei thugs, non poteva ammogliarsi. Sicché sarebbe stato lui a muoverci la guerra?
– Sembra, e appoggiato dagl'inglesi e dal rajah di Sarawack.
– E come gl'inglesi possono aver accordata protezione al figlio d'un thug perché venga a misurarsi con noi che abbiamo estirpata quella piaga che disonorava l'India?
– È un mistero che noi non siamo riusciti a spiegare.
– E dove si trova quell'uomo?
– Ecco un altro mistero, mio caro Tremal-Naik. Speriamo in qualche luogo d'incontrarlo e di fargli fare la fine di suo padre. Signor Horward!
La scialuppa era giunta presso la barcaccia e l'americano era salito prontamente in coperta.
– Tutto bene, signor Yanez?
– Meglio non la poteva andare. Avete la massima pressione?
– Da un'ora.
– Ed i prigionieri?
– Sembrano conigli.
– A bordo, ragazzi.
Aiutò Darma a salire sulla barcaccia, poi tutti si issarono sulla tolda.
– Sbrighiamoci – disse Yanez.
Fece slegare uno ad uno gl'indiani che formavano l'equipaggio della barcaccia, fece scivolare nelle tasche del sergente un pugno di sterline e li fece scendere nella scialuppa, dicendo loro:
– Il capitano Moreland vi aspetta sulla spiaggia. Portate a lui i miei saluti ed i miei ringraziamenti per la bella barca a vapore che mi ha regalato. Signor Horward, a tutto vapore.
L'americano fece fischiare ripetutamente la macchina, come un ironico saluto agl'indiani della scialuppa, e la barcaccia, sbarazzata dell'àncora, filò rapidamente verso l'uscita della baia.
Yanez, affidata la barra del timone a Sambigliong, si era collocato a prora assieme a Tremal-Naik e scrutava attentamente le tenebre per cercare di discernere la nave di Sandokan, che doveva incrociare a non molta distanza dalla costa.
Dovendo però avere i fanali spenti non era cosa facile scoprirla.
– Si sarà portata più al largo a menoché non siano avvenute delle novità durante la mia assenza – disse Yanez a Tremal-Naik che lo interrogava. – Da un praho che veniva da Labuan abbiamo saputo che una squadriglia d'incrociatori inglesi ha lasciato Victoria per darci la caccia.
– Che Sandokan li abbia incontrati?
– Avremmo udito il cannone e poi Sandokan non è un uomo da lasciarsi sorprendere, specialmente colla nave che possiede. Vedo laggiù delle scorie accese alzarsi.
«È il Re del Mare! Signor Horward caricate le valvole!»
La barcaccia, che era davvero una buona camminatrice, s'avanzava sempre più rapida sul tenebroso mare, lasciandosi a poppa una scìa che talvolta diventava luminosa per effetto d'un principio di fosforescenza.
Ad un tratto una massa enorme, che scivolava sulle acque con sordo fragore, comparve dinanzi alla scialuppa a vapore sbarrandole la via, mentre una voce formidabile gridava:
– Puntate il pezzo di prua!
– Alt! – aveva comandato prontamente Yanez. – Ehi, Sandokan, cala la scala. Sono le Tigri di Mompracem che tornano!
La barcaccia, che aveva rallentato il cammino, abbordò l'enorme nave presso l'anca di tribordo, sotto la scala che era stata abbassata d'un colpo solo.
UN COMBATTIMENTO TERRIBILE
Sandokan attendeva Yanez ed i prigionieri sulla cima della gradinata, a fianco d'una bellissima fanciulla dalla pelle leggermente abbronzata, i lineamenti dolci e fini, gli occhi nerissimi ed i capelli assai lunghi, intrecciati con nastrini di seta e che indossava il pittoresco costume delle donne indiane.
Alcuni uomini dalla tinta olivastra, che indossavano le bianche divise della marina da guerra, illuminavano la scala con delle grosse lanterne.
Yanez pel primo era giunto sulla tolda, tendendo una mano al terribile pirata e l'altra alla giovane indiana.
– Nulla? – aveva chiesto la Tigre della Malesia con ansietà.
– Eccoli, – aveva risposto Yanez.
Sandokan aveva mandato un grido e si era slanciato verso Tremal-Naik, mentre Darma si gettava fra le braccia della giovane indiana, esclamando:
– Surama! Non credevo più mai di rivederti!
– Nel quadro, miei cari amici – disse Sandokan, dopo d'essersi stretto al petto l'indiano e di aver baciato sulle gote Darma. – Abbiamo mille cose da dirci.
– Un momento, Sandokan – disse Yanez, arrestandolo. – Fa' mettere la prora al nord e risaliamo a piccolo vapore verso la seconda foce del Redjang. Vi è un leopardo nero che ci aspetta lassù e che se non lo assaliamo ci guasterà i nostri piani. Si dice che sia molto forte.
– Una nave?
– Sì, e che a quest'ora si prepara per darci la caccia.
– Ah! – fece Sandokan, quasi con noncuranza. – Domani ci sbarazzeremo di quell'importuno.
Chiamò Sambigliong e l'ingegnere di macchina e diede loro alcuni ordini, poi scese nell'elegante salotto del quadro con Tremal-Naik, Darma e Surama che s'appoggiava dolcemente a Yanez, il suo sahib bianco.
Quando ebbe appreso l'esito della spedizione e quand'ebbe spiegato a Tremal-Naik tutto ciò che era accaduto dopo il combattimento avvenuto sulle coste del Borneo, dell'acquisto della potente nave americana e della dichiarazione di guerra lanciata contemporaneamente all'Inghilterra ingenerosa ed al nipote di James Brooke, disse:
– Non sono già le squadre inglesi, che non tarderanno a darci la caccia, né la flottiglia del rajah di Sarawack che m'inquietano: è sempre il mistero che avvolge il figlio del tuo antico nemico, mio caro Tremal-Naik. Dove si nasconde quell'uomo che ha dato una rara prova della sua potenza, distruggendo per opera del pellegrino le tue piantagioni e le tue possessioni? Quando ci assalirà?
Che cosa sta tramando costui? Io non temo nessuno, eppure quell'uomo che non abbiamo mai veduto, che non sappiamo né dove sia né che cosa stia preparando, mi preoccupa, più che la presenza d'una squadra inglese.
– Non avete raccolta nessuna notizia su di lui? – chiese Tremal-Naik, che pareva non meno preoccupato del formidabile pirata.
– Abbiamo interrogato parecchie persone durante la nostra corsa verso il sud avendo fermato parecchi velieri di Sarawack, e senza riuscire a sapere dove sia quell'uomo.
– Non sarà già uno spirito.
– Si mostrerà una volta o l'altra – disse Yanez. – Se vuol farci la guerra e vendicare la morte di suo padre, non rimarrà già eternamente nascosto.
– Che cosa conti di fare intanto, Sandokan? – chiese Tremal-Naik.
– Di cominciare le ostilità col dare battaglia a quella nave che si tiene ancorata alla foce del Redjang. Giacché abbiamo dichiarata la guerra diamo segno di farla davvero.
– Volete affondarla? – chiese Darma con un tono di voce che fece trasalire Yanez.
– La distruggerò, Darma – rispose freddamente Sandokan.
Il portoghese, che la guardava attentamente, la vide leggermente impallidire e gli parve che un lieve sospiro le fosse uscito dalle labbra, ma fu tutto, poiché la fanciulla non ribatté parola alla terribile sentenza di morte pronunciata dal formidabile pirata contro la nave di sir Moreland.
Tutti si erano alzati per risalire in coperta. Surama aveva presa per una mano Darma, dicendole:
– Lasciamo fare agli uomini e tu vieni a riposarti nella mia cabina. Ho fatto preparare un bel lettino per te, perché ero sicura di rivederti presto.
La figlia di Tremal-Naik sorrise senza rispondere e la seguì nell'interno del quadro.
Quando Sandokan, Tremal-Naik e Yanez furono in coperta, tutti gli uomini erano ai loro posti di combattimento, avendo Sambigliong avvertito le Tigri di Mompracem che l'incrociatore si preparava ad assalire una grande nave nemica.
I fanali di posizione erano stati accesi e le batterie illuminate e raddoppiato il personale del timone. I quattro enormi pezzi da caccia, disposti in barbetta, a prora ed a poppa entro torri giranti difese da piastre di ferro di spessore considerevole, erano già stati caricati.
Un colpo di vento avendo dispersi nuovamente i vapori che ingombravano il cielo, cacciandoli verso il sud, le stelle erano riapparse, sicché un vago chiarore si era diffuso sulle nere acque del vasto golfo di Sarawack, chiarore che permetteva di poter facilmente distinguere una nave, anche se navigasse coi fanali spenti.
Il Re del Mare s'avanzava a piccolo vapore, per non consumare troppo combustibile, anzi Sandokan, per maggior economia, aveva fatto spiegare le vele basse sul trinchetto e sull'albero maestro, essendo il vento abbastanza fresco e non del tutto sfavorevole. Dopo i consigli del capitano americano, il formidabile pirata era diventato eccessivamente economico nel consumo del combustibile, non potendo provvedersi in alcun porto dopo l'audace dichiarazione di guerra, e durante la traversata fra Labuan ed il golfo di Sarawack non aveva fatto uso che delle vele, manovra d'altronde più familiare ai suoi uomini, quantunque non pochi di loro fossero stati già istruiti nel servizio delle macchine dagli americani rimasti a bordo.
Yanez e Tremal-Naik, appoggiati alla murata di prora, il cui capo di banda era stato imbottito da amache arrotolate per riparo dei fucilieri, scrutavano attentamente l'orizzonte, mentre Sandokan visitava le batterie ed i pezzi per vedere se tutto era in ordine.
A levante le coste apparivano confusamente, diventando sempre più elevate di miglio in miglio che s'avvicinavano al dirupato e altissimo promontorio di Si
rik, che chiude verso occidente la vasta baia o golfo di Sarawack. Nessun lume però brillava, quantunque in quei luoghi si trovasse la cittadella di Redjang.
La notte trascorse così in continua esplorazione, senza risultato alcuno, ma appena cominciò a diffondersi un po' di luce, si udì subito la voce della vedetta installata sulle crocette del trinchetto a gridare a squarciagola:
– Fumo a levante!
Yanez, Tremal-Naik e Sandokan si erano subito issati sulle griselle di babordo del trinchetto, innalzandosi fino alla coffa e videro subito, là dove il mare pareva confondersi col cielo, un pennacchio di fumo alzarsi nettamente nella limpida atmosfera mattutina.
– Viene dalla foce del Redjang – disse Yanez. – Scommetterei cento sterline contro una sigaretta che quella è la nave di sir Moreland.
– L'hai veduta tu quella nave? – chiese Sandokan a Tremal-Naik.
– No – rispose l'indiano. – Mi hanno detto però che stava completando le sue provviste di carbone alla foce del secondo braccio del Redjang.
– Vi è un deposito di combustibili colà?
– Udii parlare d'un praho carico di carbone mandato da Sarawack. Non deve esservi nemmeno una misera borgata su quelle spiaggie.
– Peccato – disse Sandokan.
– Ma io ho udito raccontare che ve n'è uno alla foce del Sarawack invece, su di un'isoletta e dove va a provvedersi la squadra del rajah.
– Chi te lo ha detto?
– Sir Moreland.
– Se ci va la squadra del rajah, possiamo bene andarci anche noi, è vero, Yanez?
– E senza pagarlo – rispose il portoghese, che non dubitava mai di nulla. – Ecco la prora che comincia ad emergere. Muovono su di noi, Sandokan, ed a tutto vapore. Devono aver scorto anche essi il nostro fumo.
Sandokan si levò da una tasca un cannocchiale, lo allungò più che poté e lo puntò sulla nave il cui scafo si cominciava a distinguere anche a occhio nudo.
– Una bella nave infatti – disse. – Lo si direbbe un incrociatore e di forte tonnellaggio. Vedo molti uomini a bordo.
– Corre su noi? – chiese Yanez.
– A tiraggio forzato, credo. Teme che noi scappiamo. No, mio caro, non ne abbiamo alcun desiderio. È qui che noi cominceremo le ostilità.
– Lo caleremo a fondo?
– Mi rincresce pel capitano – disse Tremal-Naik. – Contraccambiamo molto male la sua ospitalità.
– Dorata, ma senza libertà – disse Yanez.
– Prepariamoci – disse Sandokan.
Scesero in coperta, dove s'incontrarono con Darma e con Surama che erano allora salite.
– Ci attaccano, mio sahib? – chiese l'indiana a Yanez.
– E farà molto caldo qui fra poco, Surama – rispose il portoghese.
– Noi vinceremo, è vero?
– Come abbiamo vinti i thugs di Suyodhana.
– È la nave di sir Moreland? – chiese Darma, con una certa ansietà, che non isfuggì all'astuto portoghese.
– Almeno lo supponiamo.
Poi, prendendola per un braccio e traendola verso la torre di prora, le chiese, sorridendo:
– Che cos'hai, Darma? È già la terza volta che, udendo parlare del capitano, mi sembri commossa.
– Io! – esclamò la fanciulla, arrossendo leggermente. – Vi siete ingannato, signor Yanez.
– Per Giove! Che la vecchiaia mi abbia indebolita la vista?
– Oh no, ci vedete ancora troppo bene.
– Allora?
Darma volse il capo verso il mare, fissando i suoi sguardi sulla nave nemica, che forzava le sue macchine, dicendo:
– È una grossa nave anche quella.
– Che non varrà la nostra – rispose Yanez.
– Costringetela ad arrendersi piuttosto che affondarla. Potrebbe esservi utile.
– Se è comandata da sir Moreland non abbasserà la bandiera. Quell'uomo, quantunque giovane, deve essere un valoroso e si batterà finché tutto il suo equipaggio non sarà distrutto.
– E non accorderete quartiere a nessuno?
– Quando la nave colerà a picco vedremo di salvare i superstiti, te lo prometto, Darma. Ritirati nella cabina con Surama. Qui stanno per piovere le granate.
La voce formidabile, sonora come lo squillo d'una tromba, della Tigre della Malesia, echeggiò in quel momento sul ponte:
– A tutto vapore, ingegnere di macchina! Pronti pei fuochi di bordata! Dietro le brande i fucilieri!
La nave avversaria che doveva essere fornita di macchine poderose, non era più che a duemila metri e muoveva diritta sul Re del Mare delle Tigri di Mompracem, come se avesse avuto intenzione di speronarlo o per lo meno di abbordarlo.
Era un bell'incrociatore, e fornito di sperone, con tre alberi e due ciminiere.
Pareva che fosse potentemente armato a giudicarlo dal numero dei suoi sabordi e anche in coperta si scorgevano parecchi pezzi, ma non protetti da torri blindate come quelli delle Tigri di Mompracem.
Dietro le murate e perfino sulle coffe si vedevano numerosi fucilieri e sul ponte di comando parecchi ufficiali.
– Ah! – disse Sandokan, che lo contemplava con occhio tranquillo. – Vuoi misurarti pel primo colle Tigri di Mompracem? Siamo pronti a riceverti.
Mentre le due fanciulle sgombravano rapidamente la coperta rifugiandosi nel quadro di poppa, Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si ritrassero nella torretta di comando dove potevano mettersi in comunicazione col personale di macchina.
Gli artiglieri americani, assieme ai migliori puntatori malesi, attendevano dietro ai loro pezzi col cordone tira-fuoco in mano.
Ad un tratto una detonazione scoppiò al largo, mentre un getto di fuoco sfuggiva da uno dei due pezzi di prora dell'incrociatore. Si udì un rauco sibilo, che s'avvicinava, rapidissimo attraverso gli strati d'aria, poi una vampa s'alzò sull'orlo della prima torretta di babordo del Re del Mare, mentre delle scheggie passavano sibilando sopra i fucilieri appiattati dietro le murate.
– Granata da dodici pollici! – aveva esclamato Yanez. – Buon tiro!
La voce di Sandokan si fece udire subito.
– Artiglieri, non vi trattengo più!
I due pezzi da caccia di prora avvamparono nell'istesso tempo, mentre quelli della batteria di tribordo, trovandosi a buon tiro, tuonavano a loro volta con rimbombo tale da far tremare tutta la nave.
L'incrociatore, che aveva già guadagnato altri cinquecento metri e che manovrava in modo da presentare all'avversario il fianco di babordo, fu sollecito a rispondere.
Palle e granate cominciavano a cadere in gran numero su entrambi i vascelli, scrosciando lungo i fianchi di ferro e scheggiando i ponti, smussando i pennoni e massacrando le manovre.
Le granate, scoppiando, lanciavano in alto getti di fuoco, minacciando ad ogni istante di incendiare le alberature.
I fucilieri, coricati dietro le murate, a loro volta avevano aperto il fuoco, facendo delle scariche nutrite.
Una fitta nuvola di fumo avvolgeva le due navi, rotta da lampi, mentre il fracasso era diventato così formidabile da soffocare la voce dei comandanti.
La nave americana, meglio protetta, meglio armata e anche più rapida, e montata da un equipaggio ormai incanutito fra il fumo delle battaglie, aveva buon giuoco contro l'avversario.
Le sue poderose artiglierie battevano terribilmente l'incrociatore, coprendolo di fuoco e di ferro, demolendogli le murate, massacrando le sue manovre e aprendogli fori considerevoli nello scafo.
Invano la povera nave, che aveva creduto di annientare facilmente i pirati di Mompracem, cercava di tener testa a quell'uragano di ferro che cadeva sui suoi ponti con un orrendo frastuono, facendo strage degli artiglieri della coperta e dei fucilieri. Le sue palle rimbalzavano sulle piastre metalliche del Re del Mare e le sue granate non riuscivano a demolire le torri blindate, dietro le quali, gli artiglieri di Mompracem, sotto la direzione dei quartier-mastri americani, sparavano al sicuro.
Sandokan aveva fatto ritirare sotto coperta i suoi fucilieri, avendo compresa l'inutilità di quegli uomini, necessari sui prahos, ma non su simili navi, e aveva dato il comando di muovere addosso all'incrociatore per dargli l'ultimo colpo.
Il Re del Mare, quasi ancora incolume, non ostante il furioso ed ininterrotto cannoneggiamento dell'avversario, si era slanciato innanzi descrivendo una immensa curva attorno all'incrociatore che si era fermato.
A quattrocento metri gli scaricò addosso una terribile bordata coi pezzi del ponte e quelli di babordo, demattandolo e rasandolo come un pontone.
Perfino le due ciminiere erano rovinate in coperta, divelte da due granate scoppiate alla loro base.
– È finito – disse Yanez. – Intimiamogli la resa.
– Se si arrenderanno – rispose Sandokan.
Lasciò che il vento diradasse il fumo e fece innalzare sulla cima dell'alberetto maestro la bandiera bianca. La risposta fu una bordata che fulminò metà dei timonieri del Re del Mare.
– Non ne avete abbastanza? – gridò Sandokan. – Calatelo a fondo! Fuoco! Fuoco senza tregua!
Il cannoneggiamento ricominciò con un crescendo spaventevole. Il Re del Mare continuava la sua rapida corsa circolare opprimendo il disgraziato incrociatore sotto un fuoco spaventevole.
La nave americana faceva meraviglie. Pareva un vulcano avvampante, pronto a tutto distruggere.
L'incrociatore non di meno opponeva una resistenza eroica, quantunque ormai fosse ridotto ad un ammasso di rovine. I due pezzi della coperta, smontati da quella grandine di granate, non rispondevano più.
Il ponte era pieno di morti e di feriti mescolati a pezzi di murate, a pennoni spaccati, a lembi di manovre cadute dalle alberature sotto gli ultimi uragani di mitraglia ordinati da Sandokan.
Getti di fuoco correvano da prora a poppa, illuminando sinistramente il mare, mentre dagli ombrinali di babordo e di tribordo sfuggivano getti di sangue.
La nave si sfasciava sotto i colpi furiosi, mortali del Re del Mare.
– Basta! – gridò ad un tratto Yanez, che dalla torre di comando assisteva a quella strage. – Cessate il fuoco! Le scialuppe in mare!
Sandokan che guardava freddamente, terribilmente, impassibile, si volse al portoghese, dicendogli:
– Che cosa comandi, fratello?
– Che il massacro cessi.
La Tigre della Malesia ebbe un momento di esitazione, poi rispose:
– Hai ragione: salviamo i superstiti. Quegli uomini o meglio il loro comandante è un eroe! Mettete in acqua le scialuppe!
SIR MORELAND
L'agonia dell'incrociatore, agonia terribile e spaventevole era cominciata. Il mostro fumante, esauriva vanamente le sue ultime forze tentando ancora, cogli ultimi tiri delle sue artiglierie, di colpire a morte il suo formidabile avversario che lo aveva vinto.
Quella splendida nave che rappresentava forse l'unità più forte della squadra del rajah di Sarawack, non era più che un ammasso di rovine, che le fiamme ormai a poco a poco divoravano, mentre l'acqua lo invadeva per trascinarlo nei profondi abissi del mare.
I suoi fianchi, squarciati dalle granate e dagli obici perforanti della poderosa nave americana, parevano un crivello; le sue murate ed i suoi alberi non vi erano più; le sue batterie non offrivano più alcun rifugio agli ultimi superstiti.
Vampe gigantesche irrompevano furiosamente attraverso i boccaporti spalancati e gli squarci della coperta, con cupi fragori, allungandosi smisuratamente e lanciando in aria nembi di scintille e nuvoloni di fumo, i quali formavano al di sopra della nave come un immenso ombrello.
L'incrociatore affondava lentamente, cappeggiando, nondimeno i suoi artiglieri non cessavano di sparare cogli ultimi pezzi rimasti ancora in batteria, mentre i suoi fucilieri mantenevano ancora, quantunque ridotti a meno della metà, un fuoco vivissimo colle carabine, balzando come tigri attraverso la coperta fiammeggiante ed incoraggiandosi con degli urrah selvaggi.
Non ostante il fuoco della nave affondante, fuoco d'altronde male diretto per l'agitazione dei tiratori, la scialuppa a vapore e le tre baleniere del Re del Mare erano state calate in acqua, per raccogliere gli ultimi superstiti nel momento in cui la nave sarebbe mancata sotto i loro piedi.
Yanez aveva assunto il comando della barcaccia che era stata equipaggiata con quattordici rematori, mancando il tempo di accendere il forno; Sambigliong comandava invece le altre.
– Affrettati, Yanez! – aveva gridato Sandokan.
Darma e Surama che erano salite in coperta, vedendo le vampe avvolgere la disgraziata nave, gridavano:
– Salvateli! Salvateli, signor Yanez! Affondano!
Le quattro scialuppe avevano preso rapidamente il largo, muovendo verso l'incrociatore. I pochi uomini che ancora montavano la nave, vedendo che i loro avversari muovevano in loro soccorso, avevano cessato il fuoco e cominciavano a gettarsi in acqua per sfuggire alle fiamme e per evitare il pericolo di saltare in aria.
La barcaccia fu la prima ad approdare l'incrociatore. Yanez, non curante del fumo e della pioggia di scintille, salì rapidamente la scala che erasi abbassata e si slanciò verso il ponte di comando insieme ad una mezza dozzina di malesi.
Cercava di salvare sir Moreland, innanzi a tutto, se le granate del Re del Mare lo avevano risparmiato.
Stavano aprendosi il passo fra i rottami e i cadaveri che ingombravano la coperta, quando avvenne una esplosione a prora che li scaraventò tutti in mare.
Il colpo fu così forte che Yanez, che era stato proiettato presso una delle baleniere, svenne. Fortunatamente i malesi l'avevano veduto piombare in acqua ed ebbero il tempo di ripescarlo quasi subito e di trarlo sulla barcaccia che si era accostata.
L'incrociatore, sventrato a prora, calava rapidamente; Sambigliong e gli uomini delle scialuppe che erano subito saliti a bordo, ridiscendevano precipitosamente, portando dei feriti che avevano sottratti con grandi pericoli ai turbini di fuoco.
La nave calava. Le sue murate ben presto scomparvero e le onde invasero bruscamente la coperta spazzandola dal cassero alla ruota di prora e soffocando d'un sol colpo le fiamme.
La barcaccia e le baleniere fuggivano a tutta forza di remi mentre intorno alla nave s'allargava un gorgo gigantesco.
La bandiera di Sarawack mostrò ancora per un momento ai raggi del sole, i suoi colori, poi s'inabissò.
Tutto era finito! L'incrociatore scendeva, fra i muggiti del vortice gigante, negli abissi del golfo.
Le quattro scialuppe, sfuggite a tempo all'attrazione del gorgo scavato dalla nave, superata una gigantesca muraglia liquida che si estendeva con mille fragori sul mare, tornavano frettolosamente verso il Re del Mare che fumava a cinquecento metri dal luogo del disastro.
La superficie del golfo era ingombra di rottami e di cadaveri.
Casse, barili, pezzi di fasciame e di tramezzate ondeggiavano in tutte le direzioni.
Sambigliong si era subito occupato del portoghese, mentre altri s'affaccendavano intorno ad un giovane ufficiale che era stato salvato nel momento in cui la nave stava per scomparire e che sembrava fosse stato gravemente ferito, avendo la giubba inzuppata di sangue.
Yanez, fortunatamente, non aveva riportata alcuna lesione nello scoppio. Più che altro era rimasto stordito dall'improvvisa volata e dal frastuono prodotto dall'esplosione.
Ed infatti alla prima sorsata di ginepro fattagli inghiottire dal dayako, tornò subito in sé ed aprì gli occhi.
– Come vi sentite, signor Yanez? – gli chiese Sambigliong, con apprensione.
– Sono tutto scombussolato e pesto, ma mi pare che nulla vi sia di rotto – rispose il portoghese, sforzandosi a sorridere.
– E la nave?
– Affondata.
– E sir Moreland?
– È qui, nella baleniera. L'abbiamo, salvato per miracolo.
Yanez si alzò senza aver bisogno dell'aiuto del dayako.
Il giovane comandante dell'incrociatore giaceva sul fondo della barcaccia, col petto denudato, il volto pallidissimo e chiazzato di sangue e gli occhi chiusi.
– Morto! – esclamò.
– No, rassicuratevi, ma la ferita che ha riportato al fianco deve essere grave.
– Chi l'ha colpito? – chiese Yanez con ansietà. – Tu, Sambigliong?
– Io! No, signor Yanez, è l'esplosione che lo ha ridotto in quello stato. Qualche frammento di granata gli ha aperto il fianco.
– Presto! A bordo!
– Ci siamo già, signor Yanez.
Le quattro scialuppe avevano abbordato il Re del Mare presso la scala, la quale era stata già abbassata.
Fu lasciato il posto alla barcaccia.
Due uomini presero delicatamente il comandante dell'incrociatore sempre svenuto e colle dovute precauzioni salirono la scala, seguiti da Yanez e da quattordici marinai dell'incrociatore, i soli superstiti strappati alle onde.
Sandokan, che aveva assistito impassibile alla distruzione della nave avversaria, li attendeva sulla cima della scala.
Vedendo il capitano ed i marinai del rajah, levò il turbante, dicendo con voce grave:
– Onore ai valorosi.
Poi strinse silenziosamente la mano a Yanez.
Darma, che si trovava a qualche passo insieme a Surama, pallidissima, profondamente commossa dall'orribile scena svoltasi sotto i suoi occhi, si era avanzata verso i marinai che trasportavano il disgraziato comandante.
– Egli è morto, è vero? – chiese con voce rotta.
– No – rispose Yanez. – Pare però che la ferita sia grave.
– Oh mio Dio! – esclamò la giovane.
– Silenzio – disse Sandokan. – Fate largo al valore sfortunato. Si porti il comandante nella mia cabina.
Con un gesto che non ammetteva replica, arrestò Darma e Surama, poi seguì i marinai nel quadro, insieme a Yanez ed a Tremal-Naik.
Il medico di bordo, un americano che, come i macchinisti ed i quartier-mastri cannonieri, aveva accettata l'offerta fattagli da Sandokan di rimanere a bordo fino alla fine della campagna, era subito accorso.
– Venite, signor Held – gli aveva detto Sandokan. – Il comandante dell'incrociatore pare assai aggravato.
– Farò il possibile per salvarlo, signore – aveva risposto l'americano.
– Conto su di voi.
Entrarono nella cabina, dove sir Moreland era già stato deposto sul ricco letto del pirata.
– Aspettate i miei ordini nel corridoio – disse Sandokan ai due marinai. – E che gl'infermieri si tengano pronti.
Il medico aveva denudato interamente sir Moreland. Non aveva che una sola ferita, quella al fianco, ma era orribile.
Il proiettile che lo aveva colpito, qualche frammento di granata di certo, aveva lacerate le carni per una lunghezza di venti centimetri, scavando una specie di solco.
Il sangue scorreva a fiotti dalla laceratura, minacciando di dissanguare rapidamente il ferito.
– Che cosa ne dite, signor Held? – chiese Yanez, fissandolo come se avesse voluto indovinargli il pensiero.
– La ferita è più dolorosa che grave – rispose il medico. – Ha perduto molto sangue, però questo inglese è robusto.
– Non potreste garantirmi la sua guarigione?
– La vita di quest'uomo non corre alcun pericolo, ve l'assicuro.
Sandokan stette un momento silenzioso, guardando lo smorto viso dell'inglese, poi disse come parlando fra sé:
– Meglio così: quest'uomo potrebbe un giorno esserci utile.
Stava per uscire, quando un profondo sospiro, seguito da un rauco gemito, sfuggì dalle labbra scolorite dell'inglese.
Il dottore aveva messe le mani sulla ferita per riunire le due labbra ed a quel contatto il comandante dell'incrociatore aveva trasalito, poi aperti gli occhi.
Girò all'intorno uno sguardo semispento, arrestandolo prima sul dottore, poi su Yanez che stavagli dall'altra parte del letto.
Le sue labbra si schiusero, poi mormorò con un filo di voce:
– Voi!...
– Non parlate, sir Moreland – disse il portoghese. – Il dottore ve lo proibisce.
Il comandante fece col capo un gesto negativo, poi raccogliendo tutte le sue forze, disse ancora e con voce più chiara quantunque spezzata:
– La... mia... spada... è rimasta... sulla... mia... nave.
– Non l'avrei accettata, signore – disse Sandokan. – Mi rincresce solo che sia affondata colla nave, perché non posso restituirvela. Voi siete un valoroso ed io vi stimo.
Il giovane con uno sforzo supremo alzò la destra porgendola al suo avversario, il quale gliela strinse delicatamente.
– I miei... uomini? – chiese ancora sir Moreland, mentre una rapida commozione gli alterava il viso.
– Ne abbiamo salvati... basta, non affaticatevi.
– Grazie... – mormorò il ferito.
Poi s'abbandonò richiudendo gli occhi: era nuovamente svenuto.
– A voi, dottore – disse Sandokan.
– Non dubitate, signore, lo curerò come fosse vostro figlio. A me gli infermieri!
Mentre gli uomini richiesti entravano con disinfettanti, rotoli di cotone fenicato e numerose bottigliette, Sandokan rifece lentamente le scale, con Yanez e Tremal-Naik, rimontando in coperta.
Darma che li aspettava sulla porta del quadro, s'appressò al portoghese.
– Signor Yanez – gli sussurrò, forzandosi di rendere la voce ferma.
Il portoghese la guardò per qualche istante senza rispondere, poi sorrise e le strinse silenziosamente la mano.
– Lo salveranno? – chiese Darma con angoscia.
– Lo spero – rispose Yanez. – T'interessa molto quel giovane, Darma?
– È un valoroso...
– Sì, e qualche cosa di più anche.
– Se guarirà, lo terrete prigioniero?
– Vedremo che cosa deciderà Sandokan; ma è probabile.
Darma raggiunse Surama che si era un po' scostata, mentre Yanez s'accostava a Sandokan che stava parlando animatamente con Tremal-Naik.
– Che cosa ti pare di quel giovane? – gli chiese.
– È quello che comandava il forte di Macrae?
– Sì – risposero ad una voce Tremal-Naik e Yanez.
– Quell'uomo ha del fegato – disse Sandokan. – È stata una vera fortuna per noi a catturarlo. Se il rajah avesse una mezza dozzina di quei comandanti ci darebbero troppo da fare. Quello non deve essere un inglese puro sangue. È troppo bruno.
– Mi ha detto che sua madre sola era inglese – disse Tremal-Naik.
– Faceva parte della flotta anglo-indiana prima?
– Sì, come luogotenente, così mi disse una sera.
– Che cosa ne faremo di lui? – chiese Yanez.
– Lo terremo come ostaggio – rispose Sandokan. – Un giorno potrebbe esserci utile. In quanto agli altri prigionieri li farai imbarcare su una scialuppa e li lascierai liberi di raggiungere la costa.
– Ed ora, dove volgerai le tue imprese? – chiese Tremal-Naik.
– Io e Yanez abbiamo già formato il nostro piano di guerra – rispose Sandokan. – Nostro primo, anzi principale disegno, è quello di non lasciarci sorprendere dalle squadre di Sarawack e da quelle inglesi. È certo che cercheranno di riunirsi per schiacciarci d'un colpo solo; se troviamo il modo di aver sempre carbone a nostra disposizione colla velocità di cui è dotato il Re del Mare potremo riderci dei rajah e anche del governatore di Labuan.
– È appunto perciò che vi consiglierei, innanzi a tutto e prima che abbia luogo la riunione delle due squadre, di tentare un colpo contro i depositi di carbone che si trovano alla foce del Sarawack, – disse Tremal-Naik.
– È quel che tenteremo – rispose Sandokan. – Andremo poi a distruggere quelli che gl'inglesi hanno sull'isoletta di Mangalum. Privi dei loro rifornimenti, noi avremo buon giuoco sugli uni e sugli altri e potremo gettarci sulle linee di navigazione e dare un colpo mortale ai commerci inglesi colla Cina e col Giappone. Approvate questa mia idea?
– Sì – risposero ad una voce Yanez e Tremal-Naik.
– Ho però un altro progetto – continuò Sandokan dopo un breve silenzio. – Di fare insorgere i dayaki di Sarawack. Tra di loro abbiamo dei vecchi amici, quelli che ci aiutarono a rovesciare James Brooke. Io vorrei mandare a loro un buon carico d'armi onde possano mettersi in campagna. Con noi in mare e quei terribili tagliatori di teste alle spalle, il rajah ed il suo alleato, il figlio di Suyodhana, non si troverebbero certo su un letto di rose.
– Supponi che il figlio del capo dei thugs si trovi col rajah? – chiese Tremal-Naik.
– Ne sono sicuro – rispose Sandokan.
– E anch'io – aggiunse Yanez.
– Avete dato un appuntamento alla Marianna? – chiese l'indiano.
– Ci aspetta al capo Tonjong-Datu con carico di carbone, di munizioni e di armi.
– Che vi sia di già?
– Lo suppongo.
– Allora andiamo a Sarawack, – concluse Tremal-Naik.
LA CACCIA AL RE DEL MARE
Un momento dopo, fatti imbarcare i superstiti dell'incrociatore in una scialuppa provvista di viveri sufficienti per poter raggiungere Redjang, senza che corressero il pericolo di provare le strette della fame, il Re del Mare si slanciava attraverso il golfo di Sarawack colla prora al sud.
Regnava una calma quasi completa, soffiando molto di rado le brezze in quelle regioni infuocate, regioni assai temute dai velieri, i quali sovente si trovano immobilizzati per delle lunghe settimane. Solamente di quando in quando un'ondata lunghissima, rumoreggiante, giungeva dall'est gonfiandosi gradatamente e dopo essere passata sotto l'incrociatore, scuotendolo bruscamente, si perdeva in direzione opposta.
Passato però quel cavallone, che proveniva forse dalle lontane coste delle isole della Sonda, l'oceano riprendeva la sua immobilità.
Nessuna nave si scorgeva al largo, né all'est, né all'ovest, né al nord, né al sud. Abbondavano invece gli uccelli dei tropici, instancabili volteggiatori che s'incontrano perfino a parecchie centinaia di miglia dalle coste. Erano nembi di sule e di prionfinus cinereus, specie di procellarie le quali, cosa davvero strana, portano quasi sempre, attaccati alle penne dell'addome, dei granchiolini di mare, dei piccolissimi cirripedi, costringendoli così a vivere, loro malgrado, in aria. Sembra però che non si trovino troppo a disagio in quei viaggi aerei, perché non pare che ne soffrano.
Sul mare poi si vedevano apparire, di quando in quando sospese fra due acque, ad un metro sotto la superficie, delle lunghe file di splendide meduse, in forma d'ombrelli trasparenti, le quali si lasciavano mollemente trasportare dal flusso. Oppure si vedevano guizzare dinanzi allo sperone della nave, rapidi come freccie, dei prontoporia, i più piccoli delfini della specie, armati d'un lunghissimo rostro e delle grosse dorate dalle splendide scaglie a tinte azzurre e giallo oro, nemiche accanite dei pesci volanti, dotate d'una velocità incredibile e che quando vengono prese, prima di morire perdono i loro brillanti colori diventando grigiastre.
Il Re del Mare filava rapido, sorpassando i dieci nodi, muovendo direttamente verso la costa di Sarawack per andare a distruggere i depositi di carbone della squadra del rajah.
Era davvero una splendida nave, dotata di straordinarie qualità marinaresche, non ostante le sue corazze, le sue torri e le sue artiglierie; una vera nave corsara assolutamente moderna, l'unica forse che avesse potuto intraprendere quella terribile crociera contro la potente flotta inglese, senza un porto entro cui trovare rifugio.
– Ebbene, Tremal-Naik? – chiese Sandokan, il quale era allora risalito in coperta dopo d'aver fatta una breve visita a sir Moreland. – Che cosa ne dici del nostro Re del Mare?
– Che è il migliore ed il più potente incrociatore che io abbia veduto: una vera meraviglia – rispose l'indiano con entusiasmo.
– Sì, sono dei bravi costruttori gli americani. Vent'anni or sono ricorrevano all'estero per formare le loro flotte ed ora nelle loro costruzioni vincono tutti. Solide e potenti, ecco come sono le loro navi d'oggidì. Con questa noi daremo ben da fare ai nostri avversari.
– E se l'Inghilterra ci lanciasse addosso le migliori navi della sua flotta? Hai pensato a questo, Sandokan?
– Le faremo correre, mio caro – rispose la Tigre della Malesia. – L'oceano è vasto, la nostra nave è la più rapida, e dei trasporti inglesi da assalire per privarli del loro carbone ne troveremo sempre. Non ho la pretesa di poter continuare indefinitamente questa guerra, ma prima di quel giorno noi avremo recati enormi danni ai nostri avversari, tali da fare loro rimpiangere il giorno in cui ci hanno cacciati dalla nostra isola.
Accese il suo splendido narghilè, prese sotto il braccio l'indiano e dopo d'aver passeggiato per qualche minuto fra la ruota del timone e le torri poppiere, disse:
– Sai che il capitano va migliorando?
– Sir Moreland? – chiese Tremal-Naik.
– Sì, malgrado l'orribile ferita, non ha che una leggiera febbre. Il signor Held è stupefatto e credo che abbia ragione. Che fibra meravigliosa ha quell'uomo!
– Ti ha riconosciuto?
– Sì, anche or ora.
– Deve esser rimasto stupefatto di vedersi in nostra mano. Non credeva certo di dover trovarsi così presto coi suoi antichi prigionieri. Dorme?
– Sì e anche tranquillamente.
– Non ci darà dei fastidi quell'uomo?
– Può darsi, ho dei progetti su di lui.
– Quali?
– Non so ancora nulla per ora – disse Sandokan. – Ci penserò a che cosa potrà giovarci. Cerchiamo innanzi tutto di farcelo amico. Ci deve bene un po' di riconoscenza per averlo strappato alla morte.
– Indovino il tuo pensiero – disse Tremal-Naik. – Tu speri di aver da lui qualche notizia sul figlio di Suyodhana.
– È vero – rispose Sandokan. – Combattere un nemico sconosciuto, che non si sa dove si trovi, né che cosa stia tramando, inquieta assai. Bah! Un giorno o l'altro si svelerà, si mostrerà, suppongo, e quel giorno la Tigre della Malesia divorerà anche il Tigrotto dell'India.
Il dottor Held era in quel momento comparso sulla porta del quadro. Quell'americano, che come abbiamo detto, aveva accettato le proposte fattegli da Sandokan, proposte che potevano costargli però la vita, era un bel giovane di ventisei o vent'otto anni, alto, piuttosto magro, dallo sguardo intelligentissimo e vivo, colla fronte spaziosa ed il viso come quello d'una fanciulla, adorno d'una barbetta bionda tagliata a punta.
– E dunque, signor Held? – gli chiese Sandokan muovendogli sollecitamente incontro.
– Ormai rispondo della sua guarigione – rispose il medico. – Fra quindici giorni quell'uomo starà perfettamente bene. Quegli anglo-indiani hanno la pelle ben dura.
La campana che annunciava il pranzo interruppe la loro conversazione.
– A tavola, o Yanez s'impazienterà – disse Sandokan.
Mentre scendevano nel salone del quadro, il Re del Mare continuava la sua corsa verso il sud-sud-ovest.
L'oceano era sempre deserto, percorrendo la nave una zona pochissimo frequentata dai velieri e dai piroscafi, i quali ordinariamente si tengono più al nord o più al sud, gli uni per evitare le calme e gli altri per evitare i banchi sottomarini che sono numerosi intorno alle coste del Borneo.
Di quando in quando una banda di volatili calavano sulle coffe degli alberi, prendendo possesso e lasciandosi avvicinare dai marinai senza dimostrare di spaventarsi.
Erano dei grossi uccellacci, specie di procellarie giganti, colle penne brune, chiamati dai marinai rompitori d'ossa e dagli scienziati quebranta huesos, formidabili pescatori, armati d'un rostro così acuto e così robusto che permette loro di affrontare i più grossi pesci, colpendoli mortalmente nel cranio.
Anche qualche splendido albatro veniva a volteggiare intorno alla nave, salutando i marinai con dei grugniti da porco e attraversando senza paura la tolda, non ostante le fucilate che sparavano i malesi.
Magra selvaggina però, perché se sembrano immensi, misurando le loro ali unite perfino tre metri e mezzo, è molto se i loro corpi pesano otto o dieci chilogrammi, senza contare poi che le loro carni sono coriacee ed impregnate d'un pessimo odore di pesce.
Comunque erano ammirabili nei loro voli, essendo dei volteggiatori straordinari. Certi momenti rimanevano quasi immobili al disopra dell'incrociatore, vibrando appena le loro gigantesche ali, poi partivano come fulmini e calavano in mare a pescare i piccoli cefalopodi, i loligo, dei quali si nutrono di preferenza.
Le prede d'altronde non mancavano a quegli avidissimi volatili, perché le acque dell'oceano si mostravano straordinariamente ricche di pesci, con molto piacere anche dei marinai, i quali o con reticelle o con fiocine, non ostante la rapidità dell'incrociatore, s'ingegnavano di prenderli onde variare la minuta di bordo.
Oltre a grosse bande di dorate, di piccoli delfini e di serpenti di mare, lunghi un metro, di forma cilindrica, colla pelle bruna nera e la coda gialla, si vedevano a galleggiare un numero sterminato di diodon, pesci assai strani, che abitano quasi esclusivamente le zone torride e che hanno l'abitudine di navigare col ventre in aria e di gonfiarsi fino a diventare completamente rotondi.
Salivano dagli abissi dell'oceano a centinaia e centinaia, mostrando le loro spine acute che coprono i loro corpi, facendoli rassomigliare ai ricci terrestri, a tinte però svariate, bianche, violacee o macchiate in nero, mentre in mezzo a loro sfilavano, coi tentacoli al vento onde approfittare del menomo soffio d'aria, lunghe file di nautilus.
Di quando in quando un improvviso terrore si manifestava fra tutti quegli abitanti dell'oceano tropicale. Le dorate scomparivano precipitosamente, i diodon si sgonfiavano rapidamente, lasciandosi colare a picco; i nautilus ripiegavano i loro tentacoli, rovesciavano la loro conchiglia navigante fino allora come una leggiera barchetta, e si sommergevano.
Un nemico terribile e avidissimo, si era bruscamente scagliato in mezzo alle bande colla formidabile bocca spalancata, irta di denti acuti come quelli delle tigri. Era un vorace charcharias, un pescecane di cinque o sei metri di lunghezza, che aveva sparso quell'improvviso terrore, un nemico pericoloso anche per gli uomini.
Con rapidità fulminea ingoiava i ritardatari, poi scompariva, sempre preceduto dal suo pilota, un grazioso pesciolino colla pelle azzurra porporina, a striscie nere, non più lungo di venticinque centimetri e che serve di guida al suo formidabile padrone e protettore.
Cessato però il pericolo, le dorate ricomparivano giuocherellando ed i diodon si rigonfiavano ballonzolando sulle onde e le splendide conchiglie dei nautilus dai margini di madreperla raddrizzavano gli otto tentacoli leggermente arrotondati all'estremità.
Verso il tramonto, quando Sandokan e Yanez scesero nella cabina dove trovavasi l'anglo-indiano, constatarono con piacere che il ferito si trovava in condizioni migliori che al mattino. La febbre era quasi cessata e la ferita, sapientemente cucita dall'abile americano, non dava più sangue.
Quando entrarono, sir Moreland stava parlando, con voce abbastanza chiara, col signor Held, chiedendo informazioni sulla potenza della nave corsara.
Vedendoli, l'anglo-indiano fece uno sforzo per alzarsi a sedere; Sandokan con un gesto glielo impedì.
– No, sir Moreland – disse. – Siete troppo debole e per ora dovete evitare qualsiasi sforzo. È vero, mio caro Held?
– La ferita potrebbe riaprirsi – rispose il dottore. – Vi ho proibito, sir, di fare qualsiasi movimento.
L'anglo-indiano porse la mano all'americano, a Yanez ed a Sandokan, dicendo loro:
– Grazie di avermi salvato, signori, quantunque avessi desiderato di affondare assieme alla mia nave ed ai miei disgraziati marinai.
– Vi è sempre tempo a morire per un marinaio – rispose Yanez, sorridendo. – La guerra non è ancora finita, anzi per noi è appena cominciata.
Una nube oscurò la fronte dell'anglo-indiano.
– Credevo che la vostra missione terminasse colla liberazione di quella fanciulla e di suo padre – disse.
– Non avrei acquistata una nave di tale potenza per una simile impresa – disse Sandokan. – I miei prahos sarebbero stati sufficienti.
– Sicché voi continuerete a corseggiare?
– Sì, e finché avrò un solo uomo ed un pezzo d'artiglieria servibile.
– Io vi ammiro, signori, ma credo che le vostre corse finiranno presto. L'Inghilterra ed il rajah non tarderanno a farvi inseguire dalle loro squadre. Come resisterete voi a simili attacchi? Il carbone vi verrà meno e sarete costretti ad arrendervi o a farvi colare a picco dopo una inutile resistenza.
– Lo vedremo...
Poi Sandokan, cambiando bruscamente tono, disse:
– Come state, sir Moreland?
– Relativamente bene; il dottore mi assicura che io potrò alzarmi fra una decina di giorni.
– Avrò molto piacere di vedervi passeggiare sul ponte della mia nave.
– Sicché contate di tenermi prigioniero – disse l'anglo-indiano, sorridendo.
– Anche se volessi rendervi la libertà in questo momento non potrei farlo, perché siamo ben lontani dalle coste.
– Risalite verso il nord?
– No, sir Moreland, andiamo invece verso il sud; desidero vedere la foce del Sarawack.
– Vi comprendo, signore. Tenterete un colpo di mano sui depositi di carbone del rajah.
– Non lo so ancora.
– Signor Sandokan, desidererei una spiegazione, se lo permettete.
– Parlate, sir Moreland – rispose la Tigre della Malesia. – Poi, se me lo permettete, vi farò anch'io qualche interrogazione.
– Desidererei sapere perché avete coinvolto nella guerra anche il rajah di Sarawack.
– Perché noi siamo convinti che egli sia il protettore dell'uomo misterioso che ha scatenato contro di noi gl'inglesi di Labuan e che in un solo mese ci ha recato tanti danni.
– Chi è costui?
Sandokan fissò sull'anglo-indiano uno sguardo acutissimo, come se avesse voluto leggergli fino in fondo al cuore, poi disse:
– È impossibile che voi, che appartenete alla marina del rajah, non lo abbiate conosciuto.
Qualche cosa, come un fremito, passò sul viso di sir Moreland, il quale rimase per qualche istante muto.
– No – disse poi, – non ho mai veduto l'uomo a cui voi alludete. Ho udito però narrare che un individuo misterioso, che pare possegga delle ricchezze favolose, ha visitato il rajah, mettendogli a sua disposizione navi e uomini per vendicare James Brooke.
– Un indiano, è vero?
– Non lo so – rispose sir Moreland. – Io non l'ho mai veduto.
– È quell'uomo che ha spinto gl'inglesi ed il rajah contro di noi?
– Così mi hanno narrato.
– Il figlio d'un famoso capo di thugs indiani?
– Non ve lo saprei dire.
– E vuole misurarsi colle Tigri di Mompracem?
– Ed è anche certo di vincervi.
– Cadrà come è caduto suo padre e come è caduta tutta la sua setta – disse Sandokan.
Un secondo fremito passò sul viso dell'anglo-indiano, mentre negli occhi nerissimi balenava come una fiamma. Stette un'altra volta qualche istante muto, come se qualche improvviso pensiero lo turbasse, poi disse:
– L'avvenire ve lo dirà.
Poi, cambiando bruscamente discorso, chiese:
– Sono sempre a bordo quell'indiano e sua figlia?
– Non ci lascieranno, perché la loro sorte è unita alla nostra – rispose Sandokan.
Sir Moreland si lasciò sfuggire un sospiro e s'abbandonò sul guanciale.
– Riposate tranquillo – gli disse Sandokan. – Non accadrà nulla questa notte.
Uscì insieme a Yanez e salì sul cassero. Surama e Darma stavano prendendo il fresco, chiacchierando con Tremal-Naik. Vedendo Yanez, Darma gli si appressò, interrogandolo collo sguardo.
– Tutto va bene – le sussurrò il portoghese col suo solito sorriso.
– Potrò visitarlo?
– Domani nessuno te lo impedirà, se...
La frase gli fu spezzata dal grido della vedetta istallata sulla coffa dell'albero di trinchetto:
– Fumo all'orizzonte! Guarda all'ovest!
Quel grido aveva fatto balzare in piedi Sandokan, che si era appena allora seduto presso Tremal-Naik e fatto accorrere in coperta tutto l'equipaggio.
Sul cielo ancora fiammeggiante, non essendosi il sole ancora completamente immerso, si vedeva una sottile colonna di fumo alzarsi nella limpida e tranquilla atmosfera.
– Che sia qualche nave da guerra in cerca di noi? – chiese Yanez. – Od un pacifico piroscafo in rotta per Sarawack?
– Sospetto più che sia una nave da guerra – disse Sandokan, che aveva puntato un cannocchiale recatogli da Sambigliong. – Ah! Toh! Sembra che si allontani verso l'ovest; il pennacchio di fumo si è piegato verso la nostra parte.
– Che ci abbia scorti? – chiese Tremal-Naik, che li aveva raggiunti.
– Come noi ci siamo accorti della sua presenza, è probabile che il suo comandante abbia veduto anche il nostro fumo.
– Mi viene un sospetto – disse Yanez.
– Quale?
– Che sia qualche esploratore.
– È possibile, Yanez – rispose Sandokan.
– Che cosa risolvi di fare?
– Seguirlo a distanza. Domani, ai primi albori, ci metteremo in caccia e tanto peggio per lui se appartiene alle squadre del rajah o di Labuan. Passeremo la notte in coperta.
Le tenebre che calavano rapidissime non permettevano più di poter scorgere quel pennacchio di fumo, ma il Re del Mare aveva messa la prora a ponente per seguirlo nella sua rotta.
Colle sue poderose macchine era certo di raggiungerlo prima dell'alba e di catturarlo o di affondarlo colle sue formidabili artiglierie.
La guardia franca, per precauzione, era stata tenuta in coperta, potendo darsi che durante la notte gravi avvenimenti accadessero.
– A dodici nodi! – aveva comandato Sandokan. – Lo seguiremo da presso.
Il comando era stato appena dato che il Re del Mare ripartiva colla prora a ponente.
La notte era splendida, una vera notte tropicale piena di fascino e d'incanto, come solo si possono vedere in quelle regioni delle calme quasi eterne.
Quantunque il sole fosse scomparso da parecchie ore, pareva che avesse lasciato dietro di sé una porzione della sua luce, perché nel firmamento non regnava oscurità completa. Un vago chiarore, scialbo, d'una trasparenza incredibile, regnava lassù e si proiettava sulle acque dell'oceano, permettendo agli uomini di quarto di spingere i loro sguardi a distanze infinite.
Le acque, tratto tratto, parevano incendiarsi. Dai profondi abissi del mare salivano a battaglioni le meduse, mentre gli splendidi anemoni schiudevano le loro brillanti corolle rosee, bianche, azzurre, gialle e violette, ondeggiando mollemente le loro frangie sfolgoranti.
In mezzo a quelle ondate di luce sottomarina, di quando in quando si vedevano scivolare dei mostri, i quali spargevano il terrore e la confusione fra quei molluschi.
Ora erano dei charcharias, pericolosi e sempre affamati squali, ora dei calamari giganti dal becco da pappagallo, gli occhi glauchi e fissi e i tentacoli coperti da ventose. Ora invece, una massa enorme appariva bruscamente a galla, lanciando in alto spruzzi fiammeggianti e ricadendo poi con un tonfo cupo.
Era una balenottera dal dorso neroverdastro, lunga una quindicina di metri, cetaceo ancora abbastanza comune nei mari intertropicali, non ostante la caccia accanita delle navi baleniere.
Sandokan e Yanez, quantunque la giornata fosse stata assai faticosa e nessun pericolo, almeno apparentemente, minacciasse la loro nave, non si erano coricati. Non era già per godersi quella splendida notte, né per ammirare i fulgori variopinti degli anemoni, spettacoli oramai troppo noti a loro, vecchi naviganti dei mari della Malesia.
Un segreto timore li tratteneva sul ponte. Camminavano con una certa agitazione, fermandosi sovente per fissare i loro sguardi verso ponente.
Quel fumo li preoccupava vivamente, temendo che quel legno fosse l'avanguardia di qualche flottiglia.
– Hai scorto qualche cosa? – chiese Yanez, verso la mezzanotte, vedendo Sandokan arrestarsi per la decima volta e puntare il cannocchiale verso ovest.
– Io giurerei d'aver veduto alcuni minuti or sono, un punto bianco, splendidissimo, brillare nella direzione ove è scomparso quel pennacchio di fumo – rispose la Tigre.
– Il fanale del trinchetto di quella nave oppure una stella?
– No, Yanez: né l'uno né l'altra.
Poi, dopo una breve pausa, riprese:
– Credi tu che la squadra di Labuan non ci cerchi? Non sarà certo rimasta inoperosa a Victoria, dopo la nostra dichiarazione di guerra.
– Colla velocità che possediamo, non ci sarà difficile lasciarla indietro.
– Ed il carbone ci mancherà presto – rispose Sandokan. – Le nostre carboniere sono ormai semivuote.
– Ci riforniremo a spese del rajah.
– Se potremo giungere alla foce del Sarawack.
– Che cosa temi?
Sandokan non rispose. Guardava attentamente sempre verso ponente, percorrendo tutta la linea dell'orizzonte.
Ad un tratto abbassò il cannocchiale.
– Un lampo – disse.
– Dove, Sandokan?
– È brillato nella direzione presa da quella nave. Mi parve un lampo di luce elettrica.
– Sì, signore – confermò l'americano Horward, che per un momento aveva lasciato la sala delle macchine. – L'ho scorto anch'io.
– Che quella nave corrisponda con qualche altra? – chiese Yanez.
– È quello che temo – rispose Sandokan. – Fortunatamente l'orizzonte è chiaro e vedremo subito il nemico. Signor Horward, date ordine in macchina che si preparino a portare la nostra velocità a quattordici nodi. Sono curioso di sapere chi potrà gareggiare con noi.
L'americano aveva appena trasmesso il comando, quando un nuovo lampo balenò nella direzione di prima. Pareva che una lampada elettrica di grande potenza, avesse proiettato un ampio fascio di luce sull'oceano.
Un momento dopo una sottilissima striscia di fumo s'alzò sull'orizzonte.
– Un razzo – disse Yanez. – Sono due navi che corrispondono e una deve essere quella che è fuggita al nostro avvicinarsi. Segnala di certo la nostra rotta.
– Signor Sandokan – disse l'americano. – Se non m'inganno vedo un punto nero scorrere sull'oceano. Sta attraversando un tratto d'acqua fosforescente.
– Un punto! Allora non può essere una nave.
– E che si muove con rapidità straordinaria, a quanto pare.
– Che sia qualche scialuppa a vapore?
Allungò nuovamente il cannocchiale, mantenendolo orizzontale per qualche minuto. Il punto nero, che ingrandiva rapidamente, aveva attraversata la zona fosforescente confondendosi colla tinta cupa delle acque, ma più oltre ve n'era una seconda formata da migliaia di nottiluche, di anemoni e di meduse.
– Sì, sembra una grossa scialuppa a vapore – disse Sandokan. – Non è che a duemila metri. La manderemo a far compagnia alle meduse. Mastro Steher!
I MISTERI DI SIR MORELAND
Un vecchio mastro cannoniere, dalla lunga barba brizzolata, colle spalle quadre, s'avanzò con quel dondolìo particolare ai vecchi lupi di mare.
– Il capitano che ci ha venduto questa nave mi ha detto che tu sei un famoso artigliere – disse Sandokan, mentre il mastro si levava di bocca il pezzo di sigaro che stava masticando e salutava con gravità.
– Gli occhi sono ancora buoni, comandante – rispose il vecchio.
– Saresti capace di mandare una palla a quel curioso che cerca di accostarci? Se lo tocchi o lo affondi avrai cento dollari di premio.
– Non vi chiedo, comandante, che di far fermare il Re del Mare per cinque minuti.
– Ti domando un colpo maestro.
– Mi ci proverò, comandante.
Il punto nero, diventato ormai una striscia visibilissima entrava allora nella seconda zona fosforescente.
– Lo vedi? – gli chiese Sandokan.
– Deve essere una di quelle brutte bestie inventate dai miei compatrioti, che portano una torpedine fissa su un'asta – disse il vecchio. – Sono pericolose se si accostano.
– Al tuo posto!
Yanez aveva già dato il comando di macchina indietro.
Il Re del Mare, trasportato dal proprio slancio, aveva continuato la sua corsa per duecento metri, non ostante che le eliche funzionassero furiosamente in senso contrario, poi si era arrestato, conservando una immobilità assoluta, essendo l'oceano perfettamente tranquillo.
Il mastro cannoniere si era collocato già dietro uno dei grossi pezzi da caccia.
Un silenzio profondo regnava sulla tolda della nave. Tutti aspettavano ansiosamente il colpo, tenendo gli sguardi fissi sulla scialuppa, la quale filava a tutto vapore in mezzo alla fosforescenza, cercando d'accostarsi nascostamente all'incrociatore.
Ad un tratto, il profondo silenzio fu rotto da un grido che usciva dalla torre:
– Pronto!
La scialuppa a vapore doveva trovarsi allora a circa millecinquecento metri dal Re del Mare. Il suo scafo nero spiccava nettamente sulla luminosa superficie delle acque.
Una detonazione echeggiò, mentre un lampo rompeva le tenebre. Per alcuni istanti si udì in aria un rauco sibilo che rapidamente si affievoliva. Il proiettile, di buon calibro, s'allontanava radendo le onde.
D'improvviso risuonò in distanza una detonazione. Una fiamma s'alzò dalla scialuppa torpediniera, seguita da un nembo di scintille. Quasi nello stesso momento la fosforescenza cessava bruscamente. Le nottiluche, le meduse e gli anemoni, spaventati forse da quel rombo, si erano prontamente inabissati nelle profondità misteriose del mare.
– Toccata! – gridò Sandokan.
Un grido di trionfo si era alzato a bordo dell'incrociatore. Il vecchio mastro artigliere si era avanzato verso Sandokan con volto ilare.
– Comandante – gli disse. – Ho guadagnato i miei cento dollari.
– No, duecento – corresse la Tigre della Malesia.
Ad un tratto fece alcuni passi innanzi, esclamando:
– Saccaroa! Lo sospettavo! Sia: vi farò correre!
Alcuni punti luminosi, appena distinguibili, erano comparsi sull'orizzonte un momento dopo l'immersione dei molluschi fosforescenti.
Non dovevano esser già stelle, per gli occhi di quei marinai invecchiati sugli oceani; dovevano essere fanali di navi, probabilmente di navi da guerra lanciate sulle traccie del Re del Mare.
– Che sia la squadra del rajah o quella di Labuan? – aveva chiesto Yanez.
– Mi pare che quelle navi vengano dal settentrione – rispose Sandokan.
– Scommetterei che quella inglese cerca di unirsi con quella di Sarawack. Qualcuno li avrà informati che noi battiamo questo mare e si sono messi in caccia.
– Ciò guasta i nostri progetti.
– È vero, Yanez, perché saremo costretti a fuggire verso il nord. Il Re del Mare è potente, ma non tale da affrontare una squadra.
– Che cosa intendi di fare?
– Rimandare a tempi migliori la distruzione dei depositi di carbone di Sarawack e rimontare fino al capo Tonjong-Datu, per incontrare la Marianna, poi gettarci sulle linee di navigazione, dopo esserci provvisti di combustibile a Mangalum. Quando la squadra verrà a cercarci nei paraggi di Labuan, torneremo a fare i conti col rajah o col figlio di Suyodhana.
– Sei nato grande ammiraglio – disse Yanez, ridendo.
– Mi approvi?
– Pienamente. E la Marianna?
– La manderemo ad attenderci alla foce del Sedang ed incaricheremo il suo equipaggio di armare i nostri vecchi amici, i dayaki.
– Filiamo allora presto, fratellino. Le navi si accostano.
– Signor Horward! – gridò Sandokan. – A tutto vapore!
– Andremo a tiraggio forzato, comandante – rispose l'americano.
Il Re del Mare aveva ripreso lo slancio. Tonnellate di carbone erano state rovesciate nei forni e le macchine funzionavano rabbiosamente, imprimendo allo scafo un tremito sonoro.
Tutti erano saliti in coperta, perfino Darma e Surama. Poteva darsi che da un momento all'altro, qualche nave distaccata dal grosso e mandata in esplorazione verso levante, si trovasse improvvisamente dinanzi all'incrociatore e tutti volevano essere pronti ad impegnare la lotta.
In quella direzione però non si vedeva brillare alcun fanale.
Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, ritti sul ponte di comando, guardavano attentamente i punti luminosi, i quali pareva che avessero cambiata posizione.
Certo i comandanti inglesi, vedendo il corsaro fuggire verso il nord-ovest avevano cambiata la rotta colla speranza di catturarlo.
La distanza però, invece di diminuire, aumentava di minuto in minuto, non potendo quelle navi, anche forzando i fuochi, gareggiare col velocissimo corsaro.
Dopo un'ora di corsa furiosa, i punti luminosi erano diventati quasi invisibili.
– Credo che sia tempo di riprendere la nostra rotta verso il nord-ovest – disse Sandokan a Yanez. – Gl'inglesi continueranno ad inseguirci verso il nord.
Fece spegnere tutti i fanali, poi il Re del Mare, dopo d'aver descritta una gran curva, si diresse nuovamente al nord-ovest.
La manovra doveva essere completamente riuscita, poiché per alcuni minuti si videro i fanali brillare nell'oscura linea dell'orizzonte, poi scomparire.
– Orsù – disse Yanez con tono soddisfatto. – Tutto va bene e possiamo andare a dormire qualche ora. Il riposo è stato ben guadagnato.
Quando l'alba sorse, il mare era completamente deserto. Non si vedevano che degli uccelli marini volteggiare fra i cavalloni, alzatisi colla brezza mattutina.
Il Re del Mare aveva ridotta la sua marcia a otto nodi, essendo il combustibile troppo prezioso per sprecarlo.
Sandokan, ai primi raggi del sole, era tornato in coperta un po' ansioso, quantunque non avesse alcun dubbio sulla buona riuscita della sua manovra notturna.
– Li abbiamo bene ingannati – disse a Yanez, che lo aveva raggiunto insieme a Darma. – Noi raggiungeremo il capo Taniong senza fare cattivi incontri. A proposito, cosa avrà pensato sir Moreland della cannonata che abbiamo sparato?
– Il dottor Held mi ha detto che si era molto inquietato, temendo che qualche nave fosse colata a fondo – rispose Yanez.
– Andiamo a trovarlo.
– Mi permettete di venire con voi? – chiese Darma.
– Non trovo alcun inconveniente – rispose Sandokan. – Sarà anzi lieto di rivedere la sua graziosa prigioniera. Vieni, fanciulla.
– Ciò farà piacere a lui e... anche a te – aggiunse Yanez, sottovoce accostandosi alla giovane.
Quando scesero nel quadro, sir Moreland era già sveglio e chiacchierava col medico.
Vedendo apparire Darma dietro a Sandokan ed a Yanez, una viva fiamma animò gli sguardi dell'anglo-indiano e per qualche istante non le staccò di dosso gli occhi.
– Voi, miss! – esclamò. – Quanto sono lieto di rivedervi!
– Come state, sir Moreland? – chiese la giovane, arrossendo.
– Oh! La ferita si va cicatrizzando rapidamente, è vero, dottore?
– Fra otto o dieci giorni sarà interamente chiusa – rispose l'americano. – Una guarigione veramente miracolosa.
– Avrei preferito non vedervi ferito, sir Moreland – disse Darma.
– Allora non mi avreste di certo trovato qui – rispose l'anglo-indiano. – Mi sarei lasciato affondare assieme alla mia nave, a fianco della bandiera della mia patria.
– Sono più lieta che vi abbiano strappato alla morte.
Il giovane capitano la guardò sorridendo, poi disse:
– Grazie miss, ma...
– Che cosa volete dire, sir Moreland?
– Che sarei stato più contento anch'io se avessero salvata anche la mia nave ed i miei marinai. Ah! Miss, non m'aspettavo di dover subire una così disastrosa sconfitta e da parte dei vostri protettori. Tuttavia, credetelo, non rimpiango la mia prigionia.
– Sir Moreland – disse Sandokan, – sapete che questa notte le navi inglesi ci hanno quasi sorpresi?
– La squadriglia di Labuan? – esclamò il ferito con emozione.
– Suppongo che fosse quella, ma siamo riusciti ad ingannarla ed a sottrarci facilmente al pericolo.
– Non illudetevi tuttavia di poter aver sempre una tale fortuna – disse l'anglo-indiano. – Un giorno, quando meno lo supporrete, vi troverete dinanzi ad un uomo che forse non vi accorderà quartiere.
– Volete alludere al figlio di Suyodhana? – chiese Sandokan.
– Non posso spiegarmi di più. È un segreto che io non posso tradire – rispose l'anglo-indiano.
– Non può essere che lui, – disse Yanez, – quantunque voi abbiate affermato di non saper nulla su quel nostro ostinato e misterioso avversario.
Sir Moreland pareva che non lo avesse nemmeno udito. Guardava Darma con un senso di profonda angoscia.
Sandokan, Yanez e la giovane s'intrattennero alcuni minuti ancora nella cabina, scambiando qualche parola col dottore, poi si accommiatarono.
Prima però che la giovane uscisse, sir Moreland le disse, guardandola con una certa tristezza:
– Spero, miss, di rivedervi presto e che non vorrete considerarmi sempre come un nemico.
Quando la giovane fu uscita, l'anglo-indiano rimase a lungo alzato, tenendo gli occhi fissi sulla porta della cabina e le braccia incrociate sul petto, in attitudine pensierosa, poi si riadagiò, dicendo al dottore, con un lungo sospiro:
– Che triste cosa è la guerra. Getta l'odio perfino fra due cuori che potevano battere insieme col medesimo affetto.
– Ed il vostro avrebbe battuto assai, è vero, sir Moreland? – disse l'americano sorridendo.
– Sì, dottore, ve lo confesso.
– Per miss Darma?
– Perché dovrei nascondetelo?
– Una bella e coraggiosa giovane, degna di suo padre e di voi.
– E che non sarà giammai mia – disse sir Moreland, con accento strano. – Il destino ha scavato fra noi, senza nostra colpa, un abisso che nessuno potrà mai colmare.
– Per quale motivo? – chiese Held, stupito dal tono che pareva avesse in sé dell'angoscia e dell'odio profondo. – Questi uomini sono nemici del rajah e degli inglesi e non già vostri.
Sir Moreland guardò l'americano senza rispondere. Il suo viso però in quel momento aveva assunto una espressione così terribile da colpire vivamente l'americano.
– Si direbbe che vi è un segreto nella vostra vita – disse il dottore.
– Maledico il destino, ecco tutto – rispose il giovane con voce sorda.
Poi, cambiando bruscamente tono, chiese:
– Dottore, dove ci conduce il comandante?
– Va al nord-ovest, per ora.
– A Sarawack forse?
– Può darsi, sir.
– Che voglia sbarcarmi?
– Vi rincrescerebbe?
– Forse sì.
– Per lasciare miss Darma?
– Per altri motivi più gravi – rispose l'anglo-indiano.
– Quali, se è lecito saperlo?
– Perché il rajah mi lancierà nuovamente contro di voi e forse spetterà a me compiere il doloroso dovere di darvi il colpo mortale e di sommergere la donna che amo – disse Moreland.
– Quel giorno può essere molto lontano.
– Io credo il contrario, perché la vostra nave non potrà tenere eternamente il mare, né rifornirsi sempre di viveri, di munizioni e di combustibile, senza avere un porto amico.
– L'oceano è immenso, sir
– Si, è vero, ma quando dieci o venti navi solcheranno da tutte le parti quest'oceano e chiuderanno, come in un cerchio di ferro, il vostro incrociatore, quale speranza vi rimarrà?
«Ammiro l'audacia di questi pirati della Malesia, come ammiro la loro nave, un capolavoro dell'ingegneria navale, tuttavia permettetemi di dubitare sul buon esito della vostra crociera.
«Che gravi danni possiate recare alla marineria inglese e creare molti fastidi al rajah, non lo nego, essendo il vostro Re del Mare il vascello più rapido che ora esista e forse il meglio armato, nondimeno non la durerete a lungo.»
– Questi formidabili corsari non hanno la pretesa di tenere in iscacco, per molti anni, le squadre inglesi, sir Moreland. Sanno perfettamente la sorte che li attende e non ignorano che un giorno i loro cadaveri andranno a dormire il sonno eterno nelle tenebrose vallate del mar della Sonda od in fondo a qualche spaventevole baratro.
– E anche miss Darma lo sa? – chiese l'anglo-indiano con un brivido.
– Lo suppongo, sir Moreland.
– Ah! Sbarcatela! Salvatela!
– Qui combattono suo padre ed i suoi protettori, ai quali deve la vita, a quanto mi si disse, e non li lascierà – rispose l'americano.
Sir Moreland si passò una mano sulla fronte, poi disse come parlando fra sé:
– Sarebbe meglio che domani le squadre riunite affondassero tutte, me compreso. Almeno sarebbe finita e non udrei più mai il grido del sangue che reclama vendetta!
NEL MAR DELLA SONDA
Sei giorni dopo, il Re del Mare, che aveva navigato sempre a velocità ridotta, per economizzare il prezioso combustibile, giungeva al capo Tonjong-Datu, quel vasto promontorio che chiude verso ponente il golfo, o meglio, mare di Sarawack.
La Marianna v'era di già, nascosta entro una piccola rada, riparata da altissime scogliere che la rendevano invisibile alle navi passanti al largo.
La comandava uno dei più vecchi pirati di Mompracem, che aveva preso parte a tutte le imprese della Tigre della Malesia e di Yanez, un uomo fidatissimo e d'un valore straordinario, sia come guerriero, sia come marinaio.
Secondo gli ordini ricevuti, aveva buon carico d'armi e di munizioni per rifornire il Re del Mare in caso che ne avesse avuto bisogno, ma in quanto a carbone, a malapena aveva potuto racimolarne una trentina di tonnellate, avendo gl'inglesi di Labuan, dopo la dichiarazione di guerra di Sandokan, accaparrato tutto quello che si trovava a Bruni, la capitale del Sultanato del Borneo.
Quella partita di combustibile poteva a malapena servire per un paio di giorni alla nave e, mantenendo una velocità ridottissima, nondimeno fu subito imbarcata e stivata nelle carboniere.
Temendo di essere sempre inseguito, Sandokan si affrettò a dare gli ultimi ordini al comandante della Marianna. Doveva recarsi senza indugio a Sedang, risalire il fiume fino alla città omonima, fingendosi una tranquilla nave mercantile battente bandiera olandese, abboccarsi coi capi dayaki che avevano preso parte alla deposizione di James Brooke, zio dell'attuale rajah, dispensare loro le armi e le munizioni e mettere a ferro ed a fuoco le frontiere dello stato, quindi attendere alla foce del fiume il ritorno del Re del Mare.
Qualche ora dopo, mentre la Marianna si preparava a mettersi alla vela, l'incrociatore lasciava Tonjong-Datu, risalendo a velocità moderata verso il nord-est, onde raggiungere Mangalum e provvedersi abbondantemente a quel deposito carbonifero destinato alle navi dirette nei mari della Cina.
Sette giorni dopo, avendo sempre tenuta una velocità moderatissima, per non trovarsi a corto di combustibile nel caso d'un incontro con qualche squadra nemica, il Re del Mare, che si era tenuto sempre assai lontano dalle coste, passava attraverso il banco di Vernon. Lo stesso giorno sir Moreland faceva la sua prima comparsa sul ponte, sorretto dal dottore.
Era ancora molto pallido e molto debole; però la sua ferita si era quasi interamente cicatrizzata, mercé la sua robustissima costituzione e le cure assidue del bravo americano.
Era una mattinata splendida e non troppo calda, avendo il Re del Mare abbandonate le ardenti calme del tropico da qualche giorno. Una fresca brezzolina soffiava dal sud, increspando l'immensa superficie del mar della Sonda e mormorando dolcemente fra le sartie metalliche dell'incrociatore. Numerosi volatili, per lo più dei petrelli, agilissimi uccelli marini, dal volo leggiero, turbinavano sopra la nave, assieme a delle phoebetrie fuliginose, le più piccole delle diomedee, dalle penne nerissime, inseguendo i pesci volanti che le voraci dorate scacciavano dal loro elemento, costringendoli, per salvarsi, a spiccare delle lunghe volate sopra le onde.
Vedendo apparire l'anglo-indiano, appoggiato al braccio dell'americano, Yanez che passeggiava sul ponte assieme a Surama si era affrettato a muovergli incontro.
– Finalmente eccovi ristabilito – gli disse. – Ne sono ben lieto, sir Moreland. Agli uomini di mare fa molto meglio l'aria libera del ponte che quella delle cabine.
– Sì, sto bene, signor Yanez, grazie le cure e le attenzioni di questo bravo dottore – rispose il capitano.
– Da questo momento consideratevi come nostro ospite e non più come prigioniero. Voi siete libero di fare quello che meglio vi piace e di andare dove vorrete. La nostra nave non avrà segreti per voi.
– E non temete che io possa abusare di questa vostra generosità?
– No, perché vi credo un gentiluomo.
– Pensate che un giorno noi ci troveremo ancora di fronte l'uno all'altro e terribili nemici.
– Ci combatteremo lealmente.
– Ah! Questo sì, signor Yanez – disse sir Moreland, con una certa asprezza.
Poi, dopo d'aver gettato un lungo sguardo sul mare e d'aver aspirato fragorosamente l'aria marina, disse:
– Voi avete lasciata la regione ardente. Questa è brezza del nord. Dove andiamo, se non vi spiace dirmelo?
– Molto lontano da Sarawack.
– Fuggite dunque i paraggi frequentati dalle navi del rajah?
– Per ora, sì, perché dobbiamo rinnovare le nostre provviste.
– Allora voi avete dei porti amici.
– No, a noi bastano quelli dei nemici per approvvigionarci – rispose il portoghese, sorridendo. – Sir Moreland, accomodatevi dove meglio credete e respirate un po' di questa brezza.
L'anglo-indiano s'inchinò ringraziando e salì sul cassero dove aveva veduto Darma seduta su una sedia a dondolo posta sotto la tenda tesa all'altezza delle grue.
La giovane fingeva di leggere un libro, ma invece sotto le lunghe palpebre, non aveva cessato di guardare il capitano.
– Miss Darma – disse sir Moreland, accostandosi alla giovane. – Mi permettete di sedermi presso di voi?
– Vi aspettavo – rispose la figlia di Tremal-Naik, arrossendo leggermente. – Starete meglio qui che nella vostra cabina, dove si soffoca.
Il dottor Held offrì al convalescente una sedia, poi accesa una sigaretta andò a raggiungere Yanez il quale si divertiva ad osservare, insieme a Surama, i salti dei poveri pesci volanti perseguitati dalle dorate ed in aria dagli uccelli marini.
L'anglo-indiano rimase alcuni istanti silenzioso, guardando la giovane, più bella che mai, nel suo lungo accappatoio di percallino azzurro guernito con pizzi, poi disse con un tono di voce nel quale si sentiva una strana vibrazione:
– Quale felicità trovarmi qui, dopo tanti giorni di prigionia e ancora presso di voi, mentre avevo avuto il timore di non più rivedervi dopo la vostra fuga da Redjang. Mi avete giuocato per bene, miss.
– Non avete serbato alcun rancore verso di me, sir Moreland, di avervi ingannato?
– Nessuno, miss: eravate nel vostro diritto di ricorrere a qualunque astuzia per ricuperare la libertà. Avrei però preferito tenervi mia prigioniera.
– Perché?
– Non lo so: mi sentivo felice presso di voi.
Il capitano sospirò a lungo, poi con voce triste disse:
– Eppure il destino m'imporrà di dimenticarvi.
Darma, udendo quelle parole, era diventata pallidissima, pure disse:
– Sì, sir Moreland, bisognerà piegarsi dinanzi alle avversità del destino.
– E tuttavia – riprese il capitano – non so che cosa farei per infrangere i decreti della sorte.
– Non dimenticate, sir, che fra noi sta la guerra e che questa ci dividerà per sempre. Che cosa direbbero mio padre, Yanez e Sandokan se sapessero che io ho accettato la mano di uno dei loro nemici? E che cosa direbbero i vostri, il cui odio verso di noi è ancor più profondo, più accanito, più spietato? Avete pensato a ciò, sir Moreland?
«Voi, uno dei più brillanti e dei più valorosi ufficiali della marina del rajah, a cui la vostra patria ha armato il braccio per sopprimerci senza misericordia, sposare la protetta dei pirati di Mompracem? Vedete bene che la cosa sarebbe impossibile: un sogno che non potrà mai diventare realtà, perché l'abisso che ci separa è troppo profondo.»
– Il nostro amore lo colmerebbe, perché l'amore non ha patria, se...
– Vorrei che così fosse – disse Darma con voce triste. – Sir Moreland, dimenticatemi. Un giorno voi sarete libero, scordatevi di me, riprendete il mare e obbedite alla voce del dovere che vi chiede il nostro sterminio.
«Dimenticate che su questa nave si trova una fanciulla che voi avete amata e che pur vi ha amato e fate tuonare, senza misericordia, le vostre artiglierie su di noi, colateci a fondo o fateci saltare in aria. La nostra sorte ormai è scritta a lettere di sangue sul gran libro del destino e tutti siamo pronti a subirla.»
– Io uccidere voi! – esclamò l'anglo-indiano. – Tutti gli altri sì, ma non voi.
Aveva pronunziato quelle parole «gli altri» con un tale accento d'odio, che Darma lo guardò con ispavento.
– Si direbbe che voi avete dei segreti rancori contro Yanez e Sandokan e anche contro mio padre.
Sir Moreland si era morso le labbra, come se fosse pentito di essersi lasciato sfuggire quelle parole, poi riprese prontamente:
– Un capitano non può perdonare a coloro che lo hanno vinto e che gli hanno affondata la nave. Io sono disonorato ed è necessario che mi prenda una rivincita un giorno o l'altro.
– E li annegherete tutti? – chiese Darma con ispavento.
– Sarebbe stato meglio che io fossi colato a fondo colla mia nave – disse il capitano, sfuggendo la domanda rivoltagli dalla giovane. – Quell'urlo terribile che mi perseguita non lo avrei più udito.
– Che cosa dite, sir Moreland?
– Nulla – rispose l'anglo-indiano con voce sorda. – Nulla, miss Darma. Fantasticavo.
Si era alzato, mettendosi a passeggiare con agitazione, come se più non sentisse i dolori che doveva produrgli la ferita non ancora interamente rimarginata.
Il dottor Held, che si trovava poco lontano, vedendolo così agitato, gli si era avvicinato.
– No, sir Moreland – gli disse. – Simili sforzi possono produrre gravi conseguenze ed io, per ora, ve li proibisco. La mia vigilanza su di voi non è ancora cessata.
– Che importa se la mia ferita si riaprisse? – disse l'anglo-indiano. – Se la mia vita dovesse fuggire da quello strappo, sarei più lieto. Almeno tutto sarebbe finito.
– Non rimpiangete di essere stato salvato, sir – disse il dottore, prendendolo sotto il braccio e riconducendolo verso il quadro. – Chi può dire che cosa vi riserba l'avvenire?
– Delle amarezze e null'altro – rispose il capitano.
– Eppure ieri mi sembravate lieto di essere ancora vivo.
L'anglo-indiano non rispose e si lasciò ricondurne nella cabina, essendosi levato un vento freschissimo.
Il Re del Mare intanto continuava la sua corsa verso il nord-est, mantenendo una velocità di sette nodi.
A mezzodì Yanez e Sandokan avevano fatto il punto ed avevano constatato che una distanza di centocinquanta miglia separava la loro nave da Mangalum, distanza che potevano superare in poco più di ventiquattro ore, senza forzare le macchine.
Entrambi avevano fretta di giungervi, perché il tempo accennava a guastarsi rapidamente, quantunque al mattino fosse apparso splendido.
Alcuni cirri biancastri, che salivano dal sud, erano già apparsi e s'avanzavano lentamente; era certo l'avanguardia di vapori ben più densi ed ai due pirati non piaceva di farsi sorprendere da qualche burrasca in quei paraggi cosparsi di banchi e di scogliere isolate.
Ed infatti il mar della Sonda, così aperto ai venti freddi del sud e dell'ovest, è uno dei peggiori, perché si formano in quei luoghi delle ondate così gigantesche, che non s'incontrano in altri, nemmeno nel Pacifico. E poi Mangalum non poteva offrire un sicuro asilo per una nave così grossa, non avendo che un minuscolo porto, accessibile solamente ai prahos.
Le apprensioni dei due vecchi lupi di mare dovevano avere una conferma molto presto.
Infatti, alla sera il sole era tramontato fra un fitto velo di vapori dalla tinta molto oscura e la brezza si era tramutata in un vento piuttosto forte e assai fresco.
La calma che regnava sul mare si era spezzata. Delle onde salivano di quando in quando dal sud e correvano, muggendo sordamente, contro l'incrociatore, sollevandolo bruscamente.
– Avremo mare forte domani – disse Yanez al dottor Held, che era risalito in coperta. – Il Re del Mare ballerà terribilmente se si scatena un uragano. Ho fatto già una crociera in questi paraggi e so quanto diventano terribili allorquando soffiano i venti del sud o dell'ovest.
– S'alzano delle onde mostruose, è vero, signor Yanez.
– Di quindici metri e talvolta perfino di diciotto e che lunghezze che hanno!
– Ma Mangalum non deve essere lontana.
– Sarebbe meglio evitarla, piuttosto che trovarsi presso di essa, mio caro signor Held. Mangalum non è che un grosso scoglio e le altre due isolette, che lo fiancheggiano, due punte rocciose.
– Un soggiorno poco invidiabile pei loro abitanti.
– Eppure non sembrano scontenti della loro terra, quantunque siano, si può dire, completamente isolati dal resto del mondo, non vedendo che molto di rado qualche nave. Ed infatti quel deposito di carbone non viene rinnovato che ogni due o tre anni.
– Si dice che sia la colonia più minuscola che esista nel nostro globo.
– È vero, dottore, perché la sua popolazione non ammonta nemmeno a cento persone. L'anno scorso non erano che in novantanove. È bensì vero che anni or sono aveva raggiunto i centoventi abitanti.
– E perché sono scemati?
– In causa d'una tremenda bufera la quale spinse le onde attraverso l'isola, atterrando molte case e spazzando via numerosi abitanti.
– E perché i superstiti non hanno abbandonata l'isola?
– Pare che amino assai il loro suolo ingrato e mal sicuro e poi credo che in nessun altro luogo potrebbero godere tanta libertà.
«Quantunque appartengano a razze diverse, essendovi inglesi, americani, malesi, bughisi, macassaresi e cinesi, vivono in perfetta armonia e sul piede d'una completa eguaglianza.
«Si può anzi dire che quegli isolani hanno risolto il famoso problema sociale e con soddisfazione generale, perché sono retti da una specie di comunismo.
«Il loro capo è il più vecchio abitante dell'isola, con poteri limitati. Lavorano in comune, si istruiscono a vicenda, e non conoscono il valore del denaro che per loro rappresenta una mera curiosità.
«Perfino le donne, che sono molto più numerose degli uomini, si sono adattate ai lavori mascolini, onde ovviare il pericolo che vi possano essere più persone bisognose di venire nutrite che non lavoratori costretti a nutrirle.»
– Un'isola meravigliosa! – esclamò il dottore.
– Sotto un certo aspetto è veramente ammirabile – disse Yanez.
– Sono molti anni che è popolata?
– Dal 1810, perché prima non vi erano che bande di uccelli marini.
«Un disertore inglese, certo Granvill, fu il primo ad approdare assieme ad un suo compatriota e ad un americano. Più prepotente degli altri due, con un editto si proclamava re dell'isola e dei due isolotti vicini.
«Pare però che ciò non gli portasse fortuna, perché quando nel 1818 il governo inglese inviava una nave a prenderne possesso, non viveva che l'americano.
«Era possessore di molto oro, moneta affatto inutile fra quelle rocce e che avrebbe potuto godere in patria. Pure invitato a tornarsene in America, oppose un rifiuto categorico.
«A poco a poco sbarcarono dei malesi e anche dei bughisi e degl'inglesi. Nel 1865 la popolazione aumentò d'un colpo avendo in quell'epoca, un corsaro americano, sbarcato quaranta prigionieri, presi durante la guerra di secessione.
«Quell'aumento di popolazione rese ben dura la vita agli isolani, essendosi dimenticato il corsaro di sbarcare dei viveri, nondimeno a poco a poco la colonia prosperò e continuò ad aumentare. Forse a quest'ora, il signor Griel, che è l'attuale governatore dell'isola, ha più d'un centinaio di sudditi.»
– Un piccolo re.
– Che ci tiene al suo regno, specialmente dopo la visita ricevuta da un ammiraglio inglese della squadra della Cina che lo ha investito del supremo potere, d'incarico della Regina d'Inghilterra.
– Figurarsi che onori avrà avuto quell'ammiraglio!
– No, signor Held, gli onori ha dovuto farli lui, offrendo alla colonia un banchetto pantagruelico, di cui i buongustai dell'isola serbano immortale ricordo, seguito da molti doni fra i quali una bandiera inglese che Griel conserva gelosamente.
– Vedrò con piacere quel piccolo regno. Speriamo di avere buona accoglienza – disse il dottore.
– Lo dubito – rispose Yanez, – perché quegli isolani ci terranno a non sprovvedersi di carbone che consumano essi in gran parte. Sapremo però calmarli avendo noi degli argomenti molto persuasivi. Chiamino pure in loro soccorso gl'inglesi e ci scaccino. Siamo in guerra e la faremo a tutti i sudditi inglesi, senza eccezioni.
L'ISOLA DI MANGALUM
Tutta la notte il Re del Mare fu vivamente battuto dalle onde, che salivano incessantemente dal sud, sconvolgendo tutto il mar della Sonda.
Il vento non aveva cessato di aumentare, però non era ancora così violento da rendere difficoltosa la navigazione dell'incrociatore, dotato di splendide qualità nautiche, non ostante il peso enorme delle sue grosse artiglierie e delle sue torri corazzate.
All'indomani il tempo era diventato più minaccioso. I cavalloni si seguivano con furia, colle creste spumeggianti, muggendo cupamente e frangendosi con fracasso contro lo sperone della nave.
Il vento, sferzando le loro cime, sollevava vere cortine d'acqua, le quali correvano attraverso l'oceano, danzando disordinatamente e abbattendosi contro l'alberatura e le torri del Re del Mare.
Enormi masse di vapori, gravide di pioggia, volteggiavano pel cielo, intercettando completamente la luce solare e proiettando sull'oceano delle ombre tetre.
Gli uccelli marini, da veri uccelli delle tempeste, si sollazzavano in bande fitte nei cavi o sulle creste delle onde, lasciandosi portare dal vento, salutando la tempesta con gridi assordanti.
Si vedevano i giganteschi albatri correre fra i cavalloni, poi alzarsi bruscamente, descrivendo fulminei giri; i rompitori d'ossa calare a stormi assieme alle sule fuligginose, mentre in aria volteggiavano le fregate.
Il Re del Mare teneva però splendidamente testa all'uragano, sormontando facilmente le onde che lo assalivano da prora e che urlavano e muggivano sui suoi fianchi. Sandokan e Yanez avevano dato ordine a Horward di attivare i fuochi, onde cercare di giungere a Mangalum prima che l'uragano si scatenasse, sapendo che l'approdo sarebbe diventato allora pericolosissimo.
Alla sera la burrasca si scatenava con furore estremo, mentre l'incrociatore non era ancora in vista del picco dell'isola.
La prudenza consigliava di prendere il largo, onde non esporre la nave al pericolo di venire sbattuta contro qualche roccia.
– Aspetteremo che si calmi prima d'avvicinarci a Mangalum – aveva detto Sandokan. – Abbiamo ancora combustibile per un paio di giorni.
Il Re del Mare aveva volta la prora a ponente, non essendovi in quella direzione né banchi, né scogliere. L'uragano lo assaliva allora con violenza inaudita, imprimendogli delle scosse spaventevoli.
Tutti erano in coperta, perfino Darma e sir Moreland.
Le onde, vere montagne mobili, si rovesciavano addosso all'incrociatore con muggiti assordanti, ostacolandogli la marcia e minacciando di trascinarlo ben lontano dalla sua rotta.
– Una burrasca terribile – disse sir Moreland a Darma, la quale si teneva riparata tra la torre poppiera e la murata del cofferdam. – La vostra nave avrà molto da fare a cavarsela.
– Che vi sia pericolo di affondare? – chiese la giovane, senza però manifestare alcuna apprensione nel tono della voce.
– No, almeno per ora, miss. Il Re del Mare è una nave a prova di scoglio e nessuna ondata potrà demolirla.
– Che onde gigantesche, però.
– Enormi, miss. Ed è qui, in questi paraggi che raggiungono delle altezze spaventevoli. Ritiratevi, non è il vostro posto qui, miss. Vi è del pericolo.
– Se l'affrontano gli altri, perché dovrei sfuggirlo io?
– Sono uomini di mare. Ritiratevi, miss, perché ora che l'incrociatore si prepara a virare di bordo, le onde spazzeranno la poppa e un cavallone potrebbe irrompere nella torre.
– Mi rincresce di non poter ammirare questa bufera in tutta la sua terribile rabbia. Ah! Quale spettacolo! Guardate, sir Moreland, che ondate! Si direbbe che stanno per chiudersi sopra di noi. Aspettate ancora un minuto.
– Badate, miss, le onde assalgono la poppa. Le vedete?
Il Re del Mare, che faticava immensamente a prendere il largo, trovandosi di frequente le sue eliche fuori dalle acque, pareva che fosse diventato un misero guscio di noce. Balzava sulle creste, sbandandosi in modo da temere che da un momento all'altro si squilibrasse, poi strapiombava negli abissi, dai quali pareva che non dovesse più mai uscire.
I colpi di mare si succedevano senza tregua, frangendosi contro le torri con mille muggiti e spazzando la tolda con grave pericolo pei marinai, che venivano sbattuti contro le murate e talvolta perfino sollevati.
Yanez e Sandokan pareva che se ne ridessero dei furori dell'uragano. Aggrappati alla balaustrata del ponte di comando, calmi, impassibili, impartivano gli ordini con voce tranquilla.
Avevano ormai troppa fiducia nella propria nave per dubitare della vittoria finale. D'altronde avevano prese tutte le misure per poter lottare vantaggiosamente coll'uragano.
Avevano raddoppiato il personale di macchina ed i timonieri, avevano fatto doppiare i cavi delle scialuppe, legare le artiglierie leggiere, assicurare le grosse e chiudere tutti gli sportelli ed i boccaporti, onde non una goccia d'acqua potesse entrare nella nave.
Tutta la notte il Re del Mare fece valorosamente fronte all'uragano, senza troppo allontanarsi dai paraggi di Mangalum ed essendosi verso il mezzodì dell'indomani calmata la furia del vento, riprese la sua rotta primitiva.
Il cielo però si manteneva ancora minaccioso e tutto faceva credere che quella bufera dovesse avere più tardi un seguito.
– Affrettiamoci ad approfittare di questo momento di calma relativa – disse Sandokan a Yanez ed a Tremal-Naik. – Le carboniere sono quasi vuote e sarebbe una grave imprudenza lasciarci cogliere da un altro uragano coi fuochi semispenti.
L'isola non doveva essere lontana, poiché il Re del Mare, pur tenendosi al largo per tema di venire spinto contro quella terra o verso le scogliere che la circondano, non si era molto scostato verso l'ovest.
Ed infatti verso le dieci del mattino, essendosi spezzate le masse di vapore che turbinavano in cielo, una montagna si delineò finalmente all'orizzonte.
– Mangalum? – chiese Tremal-Naik a Yanez che l'osservava col cannocchiale.
– Sì – rispose il portoghese. – Affretteremo la marcia e faremo arrabbiare quegl'isolani ed il loro minuscolo governatore.
Il Re del Mare aumentava la corsa, consumando le sue ultime tonnellate di carbone.
La montagna ingrandiva a vista d'occhio. Era una vetta coperta da una folta vegetazione assai verdeggiante e alla sua base si scorgeva in uno squarcio considerevole, il suo porticino.
– Fra due ore vi giungeremo – disse Yanez all'indiano.
Il portoghese non s'ingannava. Non era ancora mezzodì quando il Re del Mare si trovò di fronte alla piccola rada sulla cui spiaggia si scorgevano dei gruppetti di capanne e delle barche tirate in secco.
– Scandagliate! – aveva gridato Sandokan. – Forse avremo acqua sufficiente per entrare.
Sambigliong con parecchi marinai muniti di scandagli si era recato a prora per misurare la profondità delle acque, mentre il Re del Mare moderava rapidamente la sua velocità.
Vedendo apparire quella grossa nave, gli abitanti, per la maggior parte di razza bianca, si erano precipitati fuori dalle loro capanne e, credendo che fosse inglese, si erano affrettati ad inalberare sull'antenna dei segnali la preziosa bandiera regalata loro dall'ammiraglio della squadra del mar Giallo.
Erano una cinquantina fra uomini, donne e ragazzi, che sgambettavano allegramente fra i fuchi giganti, che coprivano le rive della minuscola baia, sperando forse di vedersi regalare un secondo banchetto gargantuesco, come l'aveva offerto l'ammiraglio britanno.
Sandokan, dopo d'aver raccomandato ai timonieri di tenere il Re del Mare al largo delle spiaggie, aveva dato ordine di calare in mare la scialuppa a vapore e le due baleniere più grosse, essendo i cavalloni sempre fortissimi.
– Vedo del carbone – aveva detto Sandokan.
– Ed io dei buoi che pascolano nei recinti – aveva risposto il portoghese.
– Questa corsa non sarà stata quindi inutile – aveva concluso la Tigre della Malesia. – Almeno qui non avremo da temere alcuna resistenza.
Trenta malesi, armati di fucili e di kampilang, erano già scesi nella scialuppa, dopo non poche fatiche, in causa delle frequenti ondate.
Essendosi il Re del Mare messo attraverso i cavalloni ed avendo gettato una buona quantità d'olio sotto e sopravvento, una certa calma erasi ottenuta.
Fra la nave e l'isola, l'acqua si era spianata, in modo da rendere facile l'approdo.
Ad un comando di Yanez, la scialuppa a vapore aveva preso a rimorchio le due baleniere, dirigendosi rapidamente verso la spiaggia, ove s'apriva un piccolo bacino ingombro di alghe che metteva in un secondo più ampio e assolutamente sgombro.
La traversata si era compiuta in meno di cinque minuti.
Yanez che aveva assunto il comando della spedizione, sbarcò pel primo fra la minuscola popolazione, domandando del governatore.
– Sono io, signore – rispose un vecchio che indossava un costume da tamburo maggiore dell'esercito inglese, sfoderato per la circostanza. – Sono ben felice di vedere un capitano di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra.
– La Regina d'Inghilterra non ha nulla a che fare con noi, signor governatore – rispose Yanez, mentre i suoi uomini sbarcavano e caricavano i fucili. – D'altronde io non sono un rappresentante dell'Impero Britannico.
– Che cosa dite, signore! – esclamò il vecchio scoprendosi il capo.
– Pare che manchiate di notizie fresche dal resto del mondo.
– Non approdano che rare navi qui, e gli ammiragli inglesi non si fanno più vedere.
– Allora ho il dispiacere d'informarvi che noi siamo in guerra coll'Inghilterra e che perciò dovete considerarci come vostri nemici.
– E venite a conquistare l'isola! – esclamò il governatore, impallidendo. – Chi siete voi? Degli olandesi forse?
– Noi siamo le Tigri di Mompracem.
– Ne ho udito vagamente parlare.
– Tanto meglio; d'altronde rassicuratevi. Noi non abbiamo l'intenzione di destituirvi e tanto meno d'impossessarci della vostra isola, signor Griel.
– E che cosa desiderate, dunque? – chiese il governatore con voce tremante.
– Gl'inglesi hanno qui un piccolo deposito di carbone, è vero?
– È vero, ma non appartiene a noi, bensì al governo della Gran Bretagna. Comprenderete quindi che io non posso toccarlo senza aver ricevuto l'ordine dell'Ammiragliato.
– Quell'ordine ve lo farò dare più tardi – rispose Yanez. – Per diritto di guerra quel carbone, che voi non potreste difendere, è nostro. Se poi vorrete evitare dei malanni, fra un'ora dovrete far portare qui anche dell'acqua dolce e dei viveri; passato il quale tempo i miei uomini procederanno alla distruzione delle vostre abitazioni e delle vostre piantagioni.
– Signore! – esclamò il povero governatore. – Io protesto contro questa violenza.
– Protesterete presso l'Ammiragliato che non ha pensato a mandare qui una squadra per difendervi – disse Yanez, con voce secca. – Orsù, attendo coll'orologio alla mano.
– È una pirateria!
– Chiamatela come volete, ciò non mi dà alcun fastidio. Che tutti si ritirino od i miei uomini faranno fuoco!
Quella minaccia, formulata in lingua inglese, ottenne un successo immediato.
La popolazione, che già guardava in cagnesco i corsari, temendo una scarica, si era prontamente dispersa, rifugiandosi nelle case.
Solamente il governatore, per non perdere della sua dignità, si era ritirato ultimo, dopo d'aver chiamato a consiglio tre o quattro vecchi coloni, certamente i personaggi più influenti e più rispettati dell'isola.
Yanez, senza attendere le decisioni del governatore, si era diretto verso il deposito di carbone situato all'estremità della baia, sotto una vasta tettoia.
Ve n'erano per lo meno seicento tonnellate, provvista ragguardevole, ma il cui trasporto a bordo richiedeva molto tempo.
Furono rimandate a bordo le scialuppe per condurre a terra altri ottanta uomini di rinforzo ed il carico cominciò non ostante il pessimo tempo, ed i furiosi acquazzoni che si succedevano di quarto in quarto d'ora.
Mentre i malesi ed i dayaki lavoravano febbrilmente, Yanez si era seduto sotto la tettoia coll'orologio in mano e la sigaretta fra le labbra, risoluto ad agire. Aveva radunato presso di sé una dozzina i fucilieri, i quali altro non aspettavano che un ordine per mettere a sacco le abitazioni degli isolani e distruggere le poche piantagioni.
Non era però ancora trascorsa l'ora, quando si videro alcuni coloni spingere verso la piccola baia una cinquantina di capre e altrettante pecore, animali di bell'aspetto e di buona razza, che dovevano somministrare all'equipaggio dell'incrociatore delle superbe bistecche.
Il governatore, accompagnato dai suoi consiglieri, li precedeva. Il povero uomo pareva molto afflitto, ma anche molto incollerito.
– Signore – disse, accostandosi a Yanez. – Cedo alla forza però farò le mie lagnanze all'Ammiragliato.
Il portoghese invece di rispondere trasse da un portafoglio una carta e gliela rimise.
– Che cos'è questo? – chiese il governatore, con sorpresa.
– Una tratta di cinquecento sterline in oro che potrete far incassare a Pontianak dove abbiamo i nostri banchieri. Questi animali appartengono ai vostri amministrati e ve li paghiamo; il carbone appartiene al governo inglese e ce lo prendiamo. Ora lasciateci tranquilli e non occupatevi altro di noi.
– Avrei preferito tenermi i miei animali, assai più utili del vostro denaro – rispose il governatore stizzito.
Avrebbe forse voluto aggiungere qualche altra parola; ma vedendo i marinai alzare i fucili, batté prudentemente in ritirata assieme ai suoi consiglieri.
Intanto altri uomini erano sbarcati ed altre scialuppe erano giunte, e mantenendosi il mare relativamente tranquillo fra la spiaggia ed il Re del Mare, facendo questo argine all'irrompere delle onde colla sua massa, il carico del combustibile cominciò con febbrile attività.
Tutti si affrettavano, perché al largo il mare infuriava, rompendosi con rabbia contro le scogliere ed il tempo non accennava a rischiararsi, e mentre l'imbarco di quella massa di combustibile doveva richiedere molte ore.
Durante tutta la giornata e buona parte della notte, monti di combustibile furono precipitati nelle carboniere.
L'indomani, Yanez, essendo stato surrogato da Tremal-Naik, ed essendo il mare un po' calmato, sebbene il tempo fosse sempre minaccioso, fece la proposta a sir Moreland di fare una gita ad uno dei due isolotti fiancheggianti Mangalum, per fare un massacro d'uccelli marini onde variare la minuta di bordo.
Trovandosi Surama indisposta in causa del mal di mare che la tormentava, fu offerto a Darma di accompagnarli, tanto più che la giovane era una valente cacciatrice.
A mezzodì, dopo il pranzo, l'anglo-indiano, il portoghese e la fanciulla, armati di fucili da caccia, s'imbarcavano sulla piccola baleniera, dirigendosi verso l'isolotto di ponente, uno scoglio enorme che lanciava la sua vetta a sette od ottocento piedi d'altezza e che da tre lati cadeva quasi a piombo.
Sui cornicioni si vedevano stormi di uccelli a nidificare. Erano per lo più albatri bianchi e neri, i quali, quantunque vivano insieme sugli isolotti deserti, mantengono una linea di divisione che si vede a prima vista, dato il colore delle loro penne. Non mancavano però molti altri uccelli marini, ben migliori dal lato commestibile.
Yanez che dirigeva la scialuppa, in meno di mezz'ora sbarcò l'anglo-indiano e Darma alla base dello scoglio dove si prolungava un tratto di spiaggia di alcune centinaia di metri.
Legata l'imbarcazione dietro una linea di roccie che la difendevano dagli assalti delle onde, i due cacciatori e Darma si arrampicarono sui fianchi della rupe, fucilando vigorosamente i grossi volatili che turbinavano sopra le loro teste in bande così fitte da oscurare talvolta i raggi del sole.
Albatri bianchi e neri, sule, rompitori d'ossa, gabbiani e rondini di mare cadevano in gran numero sulla spiaggia sottostante, non prendendosi nemmeno la briga di abbandonare i cornicioni sui quali nidificavano.
La caccia si protrasse fino verso il tramonto, con grande divertimento di sir Moreland, che era pure un tiratore valentissimo, poi, essendosi il mare fatto grosso ed essendosi il vento alzato violentissimo, pensarono a far ritorno.
Stavano per imbarcarsi, quando udirono la sirena dell'incrociatore fischiare replicatamente.
– Ci chiamano – disse Yanez. – Il carico è finito ed il Re del Mare si prepara a prendere il largo.
Ad un tratto corrugò la fronte, fissando le onde che si rovesciavano con estrema violenza contro lo scoglio.
– Che abbiamo commesso una grossa imprudenza a tardare tanto? – si chiese. – Che brutto mare!
– Affrettiamoci, signor Yanez – disse sir Moreland, guardando con inquietudine Darma. – Avremo da fare a tornare a bordo.
La sirena dell'incrociatore continuava a fischiare e si vedevano i marinai a fare dei larghi cenni.
– Pare che ci invitino a non prendere il largo – disse Yanez. – Che al di là delle scogliere il mare sia più cattivo di quello che crediamo? Bah! Tentiamo!
Afferrò i remi e spinse risolutamente la scialuppa fuori dal piccolo seno, ma appena ebbe oltrepassata la linea degli scogli, un'onda immensa, una vera montagna d'acqua si rovesciò su di loro e per poco non li subissò.
Quasi nel medesimo istante videro l'incrociatore, assalito da una seconda ondata, ancora più enorme, salita dal sud, e respinto bruscamente al largo dall'imboccatura della rada di Mangalum. Quel terribile colpo di mare doveva aver spezzate le catene delle àncore.
– Signor Yanez! – gridò Darma spaventata. –Il Re del Mare fugge!
Nuove montagne d'acqua si rovesciavano con estremo furore, fra le isole e l'incrociatore, mentre la notte calava quasi di colpo, tutto avvolgendo nel suo nero manto.
– Torniamo, signor Yanez – disse sir Moreland. – L'incrociatore viene respinto al largo e...
Non finì la frase. Un cavallone enorme si era precipitato sulla scialuppa, capovolgendola e gettando tutti in acqua.
Yanez, pronto come un lampo, aveva avuto appena il tempo di strappare il salvagente attaccato al banco di poppa e di afferrare per un braccio Darma.
Appena tornato a galla, dopo passato il cavallone, si vide di fronte l'anglo-indiano che s'aggrappava pure ad un salvagente, quello di prora.
– Aiutatemi, sir Moreland! – gridò.
Darma gli era sfuggita, ma la sottana di percallo azzurro che ella indossava era ricomparsa a poche braccia da loro, poi la lunga capigliatura disciolta dall'onda.
Il portoghese, valentissimo nuotatore, con due poderose bracciate era giunto in tempo per afferrare la veste.
– Sir, aiutatemi! – ripeté con voce soffocata.
Il capitano giungeva, dibattendosi disperatamente. Pareva che in quel supremo istante avesse ricuperate d'un colpo tutte le sue forze.
Mentre colla sinistra stringeva il salvagente, passò il braccio destro sotto il collo della giovane, alzandole la testa.
– Miss... aggrappatevi... siamo qui... col signor Yanez... vi salveremo.
Darma sentendosi afferrare e rialzare, aveva aperti gli occhi. Era pallida come un cencio lavato, e dai suoi sguardi traspariva un profondo terrore.
Vedendo il salvagente che l'anglo-indiano le spingeva contro, vi si era aggrappata con suprema energia.
– Voi... sir... – balbettò.
– Ed anch'io, Darma – disse Yanez. – Non lasciare! Ecco l'onda che ci investe.
– Una corda! – gridò il capitano. – Legate il salvagente.
– La mia cintura – rispose il portoghese. – A voi... prendete! Badate... l'onda...
L'anglo-indiano, con una rapidità meravigliosa aveva unito i due larghi anelli di sughero. Aveva fatto appena il nodo che un'onda gigantesca s'abbatteva addosso a loro.
Istintivamente i due uomini avevano stretta fra di loro la giovane, sorreggendola con un braccio.
Si sentirono travolgere, poi spingere in alto fra un turbine di spuma che li acciecava, quindi precipitare in un baratro spaventevole che pareva non avesse più fondo.
– Signor Yanez... Sir Moreland! – gridò la giovane. – Dove scendiamo noi?
– Coraggio, miss – rispose il capitano. – La terra non è lontana e le onde ci spingono. Ecco che rimontiamo un'altra onda.
– L'isolotto sta di fronte a noi, a meno di cinquecento metri – disse Yanez. – Sir Moreland, potrete resistere?
– Lo spero – rispose il capitano.
– E la vostra ferita?
– Non occupatevene... è ben fasciata, quasi chiusa... Ancora l'onda!
Un altro cavallone li prese per di sotto, li sollevò fino quasi a toccare le nubi, poi tornò a precipitarli con vertiginosa rapidità.
– Dio... che colpi – disse Darma.
– Non abbandonate il salvagente – disse il capitano. – La nostra salvezza sta in questi anelli di sughero.
– Ed il Re del Mare si vede ancora?
– Scomparso, trascinato via dall'uragano – rispose Yanez. – Non temere, Sandokan e Tremal-Naik non ci abbandoneranno. Ecco lo scoglio! Non verremo frantumati fra le roccie? Sir Moreland, non lasciatevi spingere.
Il capitano non rispose. Guardava verso l'enorme scoglio, la cui vetta era coperta di nubi tempestose e sui cui fianchi strisciavano le folgori.
D'improvviso mandò un grido di gioia.
– La... la... calma... l'olio! – esclamò. – Brahma ci protegge!
Era impazzito l'anglo-indiano? No, sir Moreland aveva ben veduto.
Le onde, dinanzi a loro, si spianavano, come per opera magica, dissolvendosi di colpo.
Durante l'imbarco del carbone, Sandokan aveva fatto spargere intorno alla nave alcuni barili d'olio onde ottenere un po' di calma e permettere alle scialuppe cariche di abbordarlo.
Quello strato oleoso, trascinato forse da qualche corrente, si era accumulato dinanzi al terribile scoglio, formando una zona brillante, lunga parecchi chilometri e larga alcune gomene.
Si conoscono già le miracolose proprietà che hanno le materie grasse di calmare le onde. Non avendo il vento alcuna presa su di esse, e non essendo penetrabili né all'aria, né all'acqua, dove esse vengono sparse, i marosi si dissolvono e tutt'al più formano delle lunghe ondate senza frangersi, affatto innocue.
Qualche barile, e anche meno, basta sovente a ottenere una specie di calma attorno alle navi, avendo l'olio la proprietà di espandersi a grandi distanze.
Quello sparso dall'equipaggio del Re del Mare, in quelle quattordici o quindici ore, era stato tanto da far regnare una certa tranquillità fra le tre isole.
– Sì, l'olio – aveva risposto Yanez. – Un'altra onda e noi giungeremo nella zona tranquilla.
Il nuovo cavallone sopraggiungeva muggendo e urlando. Era alto almeno quindici metri, tutto creste spumeggianti e lungo parecchie miglia.
Afferrò i tre naufraghi, li scosse sulle sue cime, poi li scaraventò innanzi, ma appena toccata la zona oleosa perdette improvvisamente il suo impeto e scivolò sotto lo strato, trasformandosi come per incanto in un'ondata lunga, priva d'ogni violenza.
– Siamo salvi! – gridò il portoghese. – Sir Moreland, uno sforzo ancora e giungeremo sull'isolotto.
L'anglo-indiano lo guardò senza aprire bocca. Era pallidissimo e un rauco respiro gli usciva dalle labbra contratte.
Forse la ferita appena rimarginata, si era riaperta in causa degli incessanti sforzi e della prolungata immersione e la sua energia si esauriva rapidamente.
– Sir – disse Darma, la quale se n'era accorta. – Voi state male.
– È nulla... la ferita... – rispose il capitano con voce rotta. – Bah! resisterò... presso... di voi... miss... La terra è... lì... no.
Le onde che si seguivano, li spingevano dolcemente verso lo scoglio, la cui massa imponente giganteggiava a meno d'una gomena.
Se l'oceano era tranquillo o quasi in quel luogo, sui margini dello strato oleoso, infuriava sempre tremendamente.
Onde mostruose si seguivano con scrosci orrendi, mentre sopra di loro il vento ruggiva tremendamente, gareggiando coi tuoni che rombavano fra le nubi.
I naufraghi, ormai quasi al sicuro dai furori della burrasca, s'inoltravano sempre fra lo strato oleoso, aprendosi il passo fra enormi cumuli di alghe. Le onde le avevano strappate in gran numero, spingendole poscia verso la scogliera ed accumulandole intorno alle sue ripide spiaggie.
– Sbrighiamoci, sir Moreland – disse Yanez, il quale nuotava con vigore, rimorchiando i due gavitelli. – Queste acque sature d'olio ridurranno le nostre vesti in pessime condizioni. Altro che i balenieri e i cacciatori di foche.
– Sì, affrettiamoci – rispose Darma. – Sir Moreland è stremato.
– Non lo nego – rispose l'anglo-indiano, il quale si reggeva con immense fatiche.
– Un altro, meno robusto e meno energico di voi, a quest'ora sarebbe colato a picco – disse Yanez. – Ah! Sento delle alghe sotto i miei piedi! Lasciamoci portare dall'onda.
La fortuna li aveva spinti verso la spiaggia dove avevano cacciato gli uccelli marini.
Pochi gruppi di erbe marine, di quelle chiamate dagli isolani beccalunga, si vedevano spuntare fra le fessure delle rupi; più sopra invece nulla, solamente la nuda roccia di colore nerastro, come se dei torrenti di pece fossero calati dalle altissime cime dello scoglio.
Spinti da un'ultima ondata, i tre naufraghi furono deposti, quasi dolcemente, sul greto.
Era tempo perché sir Moreland stava per abbandonarsi.
Yanez aiutò Darma a superare la spiaggia, poi l'anglo-indiano che era incapace di reggersi.
– I salvagente! – balbettò sir Moreland.
– Ah, sì! È vero – rispose Yanez. – Sono troppo preziosi per perderli.
Ridiscese la spiaggia e li tirò in secco, assicurandoli alla punta d'una roccia.
– Come vi sentite, sir Moreland? – chiese premurosamente Darma.
– Un po' debole, miss, ma tutto passerà. La ferita fortunatamente non è riaperta.
– Cerchiamo qualche riparo – disse Yanez. – Il Re del Mare, coll'uragano che ingrossa al largo, non potrà tornare molto presto.
– Che corra qualche pericolo, signor Yanez?
– Non credo, Darma. Resisterà meravigliosamente anche a questa seconda prova. Fortunatamente ha completato a tempo le sue provviste di combustibile.
– Sicché saremo costretti a passare la notte qui – disse Darma.
– Nessuno verrà a disturbarci: non vi saranno delle pantere nere su questa roccia. Rifugiamoci sotto questa sporgenza e aspettiamo l'alba.
Il portoghese prese una bracciata d'alghe e si diresse verso una rupe, la cui cima si sporgeva molto innanzi formando un riparo abbastanza sufficiente per tenere al coperto i tre naufraghi.
Sir Moreland e Darma l'avevano seguito, portando altre alghe per formarsi un giaciglio.
IL TRADIMENTO DEI COLONI
Durante tutta la notte l'uragano imperversò con furia straordinaria, accompagnato da acquazzoni diluviali, i quali scorrendo lungo i fianchi del gigantesco scoglio, precipitavan sulla spiaggia in forma di cascatelle, spruzzando abbondantemente i tre naufraghi.
Tuoni assordanti rombavano fra le tempestose nubi ed in alto si udiva il vento ruggire tremendamente sulla vetta dell'isolotto.
Il mare era spaventoso fra le tre isole. Montagne d'acqua si rovesciavano senza posa sulle spiaggie, mugghiando attorno alle scogliere, rimbalzando, accavallandosi. La spuma, sollevata dalle raffiche, giungeva fino sotto la rupe dove si erano rifugiati i tre naufraghi, spingendovela dentro con poco piacere di Darma.
– Che notte d'orrore – diceva la fanciulla, stringendosi addosso a Yanez. – Cosa sarà accaduto della nostra nave? Potrà il signor Sandokan tener testa all'uragano? Che cosa dite voi, sir Moreland, che siete pure un marinaio?
– La vostra nave non correrà pericoli – rispose l'anglo-indiano. – Sarà stata trascinata certo lontano. La Tigre della Malesia si sarà messo forzatamente alla cappa per fuggire dinanzi all'uragano. Questa è la regione delle tempeste.
– Sicché, quando potrò rivedere mio padre?
– Gli uragani sono violentissimi in queste regioni, tuttavia non durano molto – disse Yanez. – Gli è che la loro furia è tale che anche le navi a vapore sovente non possono resistere. D'altronde qui non si sta troppo male ed ho passato delle notti ben peggiori. Peccato che le mie sigarette siano diventate inservibili. Bah! Mi rifarò più tardi.
– Signor Yanez – disse l'anglo-indiano. – Che gli isolani ci abbiano veduti ad approdare?
– È probabile.
– Non avete pensato che potrebbero venire a farvi prigioniero per vendicarsi del carbone che avete loro preso?
– Per Giove! – esclamò il portoghese. – Mi mettete indosso delle inquietudini, sir Moreland. Dovreste anzi chiamarli nella vostra qualità di suddito inglese e farmi arrestare. Sareste nel vostro diritto, essendo noi vostri nemici.
L'anglo-indiano lo guardò senza rispondere, poi dopo qualche po' disse, quasi seccamente:
– Non lo farò, signor Yanez. Oggi devo a voi della riconoscenza, che mi pesa assai forse, ma che io non debbo per ora dimenticare.
– Un altro al vostro posto non si lascierebbe forse sfuggire una simile occasione.
– Che avrebbe uno scarso successo, perché il Re del Mare non tarderebbe a liberarvi od a vendicarvi.
– Su ciò non dubito – rispose il portoghese, ridendo. – Orsù, lasciamo questo discorso e cercate di riposarvi. Siete molto più stanchi di me e la notte sarà lunga.
Darma e l'anglo-indiano ne avevano proprio bisogno, ed infatti non ostante i muggiti del mare e gli scrosci formidabili dei tuoni, non tardarono ad abbandonarsi sullo strato d'alghe.
Yanez, più robusto e più abituato alle lunghe veglie, rimase di guardia.
Di quando in quando anzi si alzava e, noncurante dei rovesci d'acqua e dei nembi di spuma che le onde avventavano contro la roccia, si spingeva fino sulla spiaggia per guardare il mare.
Sperava certo di veder scintillare fra le tenebre i fanali del Re del Mare, speranza vana però, poiché nessun punto luminoso appariva fra quel caos di flutti muggenti.
L'orizzonte, quando i lampi non lo illuminavano, era sempre tenebroso, come se masse di catrame liquido calassero dalle nubi.
Verso l'alba parve che la bufera accennasse ad allontanarsi verso l'est, ossia nella direzione presa dall'incrociatore. Il vento era scemato, quantunque lo si udisse ruggire sempre sulla vetta del gigantesco scoglio. Anche le onde cominciavano un po' a spianarsi e non battevano più lo scoglio colla furia di prima.
Yanez, credendo che Darma e l'anglo-indiano dormissero ancora, lasciò il rifugio per cercare la colazione.
– Ci accontenteremo delle uova degli uccelli marini – si era detto. – Dopo tutto non sono così cattive come si crede.
Avendo scorto su una specie di piattaforma che si protendeva a quaranta metri d'altezza, numerosi uccellacci a nidificare, il portoghese cominciò a superare gli scaglioni e le piattaforme che da quella parte rendevano accessibile, almeno fino ad una certa altezza, il colossale scoglio.
Si era già innalzato d'una quindicina di metri, quando giunsero improvvisamente ai suoi orecchi delle grida.
Yanez, assai inquieto, si era vivamente voltato tenendosi stretto alla punta d'una roccia.
Una scialuppa dai fianchi larghissimi, entrava in quel momento nella minuscola rada, manovrata da una mezza dozzina d'isolani.
– Per Giove! – esclamò, lasciandosi scivolare rapidamente giù dalla roccia. – Ecco i nostri affari guastati! Che mi facciano pagare il carbone con qualche oncia di piombo nella testa?
Giunto al piano si precipitò verso il rifugio, gridando:
– In piedi, sir Moreland!
– È giunto il Re del Mare? – chiesero ad una voce il capitano e Darma.
– È giunto ben altro! – rispose Yanez. – Sono gl'isolani che stanno per approdare.
– Vi hanno veduto? – chiese sir Moreland.
– Lo temo, trovandomi poco fa sulle roccie.
– Dove sono? – chiese Darma.
– Stanno girando le scogliere e fra poco saranno qui.
– Che ci facciano prigionieri?
– È probabile – rispose l'anglo-indiano, mentre nei suoi sguardi brillava un lampo strano.
– Vado a spiarli – disse Yanez, gettandosi fra le dune di sabbia.
– Sir Moreland – disse Darma, quando furon soli, vedendolo pensieroso. – Che quegli isolani si vendichino contro il signor Yanez?
– Non ho alcun dubbio. Gli faranno pagare caro il carbone.
– Voi che indossate la divisa britannica, potete salvarlo.
– Io! – fece l'anglo-indiano, come stupito da quelle parole.
– Non vi opporrete al suo arresto?
Sir Moreland guardò Darma incrociando le braccia. La sua fronte si era annuvolata ed il suo viso aveva assunto una espressione dura, quasi selvaggia, mentre nei suoi occhi balenava una cupa fiamma.
– Non lo farete, sir Moreland? – ripeté la fanciulla. – Non dimenticate che quell'uomo vi ha strappato alla morte e che vi ha trattato non come nemico, bensì come ospite.
Il capitano continuava a tacere. Pareva che nel suo cuore si combattesse un'aspra battaglia, dalle diverse espressioni del suo volto.
– È un mio avversario – disse poi con voce sorda.
– Sir Moreland! Non fatemi perdere la stima che nutro per voi. Anch'io al signor Yanez devo la vita mia e quella di mio padre.
L'anglo-indiano aveva fatto un gesto come di collera, che subito represse.
– Sia – disse poi. – Così non gli dovrò più alcuna riconoscenza.
Poi uscì dal rifugio, in preda ad una viva agitazione, mormorando con accento tetro:
– Saprò un giorno ritrovarlo.
Gli uomini della scialuppa erano in quel momento sbarcati, dopo essersi armati di fucili. Erano tutti bianchi e fra di loro vi era uno dei consiglieri del governatore.
Un uomo che doveva già aver scorto Yanez, aveva superata la duna, dietro la quale cercava di nascondersi il portoghese, gridando con voce minacciosa:
– È inutile che ti nascondi, ladrone di mare! Mostrati!
Il portoghese non si era fatto ripetere l'invito e si era alzato, dicendo con voce beffarda:
– Buon giorno, signore, e grazie della vostra visita mattutina.
– Avete un bel fegato, ladrone – disse l'isolano. – Non siete voi uno di quelli che ci hanno portato via il carbone?
– Un ladrone! Del carbone! – esclamò il portoghese. – Che cosa volete dire? Io non vi capisco.
– Non facevate parte dell'equipaggio di quella nave di pirati?
– Quali pirati! Io sono un naufrago, che non ha mai derubato nessuno. Sono un galantuomo io.
– No, devi essere uno di quei ladroni!
Una voce che pareva piena d'indignazione, si levò in quel momento dietro le dune. Era sir Moreland che giungeva a passo di corsa.
– È a noi che date dei ladroni? – gridò. – Chi siete voi che osate offendere un capitano della flotta anglo-indiana e del rajah di Sarawack?
L'isolano, vedendo comparire quel nuovo personaggio che indossava la divisa di comandante, quantunque fosse ridotta in pessimo stato dopo il bagno fra le onde oleose, era rimasto muto.
– Che cosa volete voi? Perché minacciate? – chiese l'anglo-indiano affettando una superba collera.
– Un capitano inglese! – aveva esclamato finalmente l'isolano. – Come va questa faccenda?
Fece portavoce colle mani e volgendosi verso la spiaggia, si mise a gridare:
– Ohe! Camerati! Venite!
Altri cinque uomini, egualmente armati di vecchi fucili ad avancarica, avevano raggiunte le dune, prendendo un'attitudine minacciosa. Vedendo però sir Moreland, avevano subito abbassate le armi, levandosi i cappellacci di tela cerata.
– Capitano – riprese il capo. – Quando siete approdato?
– Ieri sera assieme a mia sorella ed a questo mio compagno. Siamo sfuggiti ad un tremendo naufragio – rispose sir Moreland.
– Vi condurremo a Mangalum e vi offriremo larga ospitalità. D'altronde non rimarrete a lungo fra noi.
– Deve approdare qualche nave?
– Un piccolo legno da guerra, che ci parve inglese, è stato segnalato sulle coste settentrionali dell'isola.
«L'uragano, però scoppiato subito dopo la partenza dei pirati, deve averlo respinto al largo.»
– Quando l'avete veduto?
– Ieri sera, un po' prima del tramonto. Sarebbe il vostro?
– No, perché il mio è affondato a quaranta miglia da qui, parecchie ore prima che giungesse l'altro.
– Davate la caccia al corsaro?
– Lo cercavo.
– Che disgrazia! Se foste giunto prima... Quei ladroni non avrebbero osato importunarci.
– Li riprenderemo più tardi.
– Ma... scusate capitano, voi dite che quest'uomo è vostro amico?
– È vero – disse sir Moreland. – Si è salvato insieme a me ed a mia sorella.
– Eppure somiglia ad uno di quei ladroni.
– Quest'uomo è un onesto negoziante di Labuan.
– Ah! – fece il capo della scialuppa.
Darma in quel frattempo era giunta. Gli isolani, vedendola, la salutarono cortesemente e l'aiutarono ad imbarcarsi. Yanez che era rimasto impassibile, si era accomodato a prora tentando di accendere, senza riuscirvi, una delle sue sigarette.
Era però una tranquillità fittizia, perché anzi era molto preoccupato dall'imminente arrivo di quella piccola nave da guerra annunciata da l'isolano.
– Gli affari s'imbrogliano – mormorava. – Quest'anglo-indiano si riprenderà senza dubbio la rivincita, conducendomi prigioniero su quella nave, se non mi accade di peggio. Questi isolani mi guardano con certi occhi! Dubito che abbiano bevuto la storiella di sir Moreland.
La scialuppa si era frattanto scostata dalla spiaggia. Quattro uomini avevano presi i remi, il quinto si era messo a prora accanto a Yanez ed il capo alla barra del timone.
Era quest'ultimo un bel vecchio molto barbuto e molto abbronzato, che ricordava a Yanez uno dei quattro consiglieri del governatore.
Forse non s'ingannava, perché l'isolano di quando in quando fissava i suoi occhi azzurri sul portoghese e con vera ostinazione. Nondimeno non aveva, almeno fino allora, manifestata apertamente alcuna diffidenza, nemmeno verso Darma, anzi le aveva offerto il posto d'onore a poppa e le aveva messa sulle spalle la sua casacca di tela cerata, onde difenderla dagli spruzzi delle onde.
Fuori del bacino, il mare era ancora agitato. Frequenti cavalloni sollevavano bruscamente la scialuppa, scrollandola brutalmente e precipitandola improvvisamente in profondi avvallamenti.
I rematori, però, tutti robustissimi e abituati a quelle lotte che durano quasi eterne intorno a quelle isole sempre battute dai cavalloni e dai venti impetuosi del sud, lottavano vigorosamente, senza sgomentarsi per l'impeto dei marosi.
Giunti al largo, fuori dalle scogliere, issarono una piccola vela triangolare e la scialuppa, meglio equilibrata, si mise a filare con velocità notevole verso Mangalum già non troppo lontana.
Durante il viaggio, gl'isolani non avevano pronunciata una sola parola. Di frequente però il capo guardava di sottecchi i tre pretesi naufraghi, fermando sempre lo sguardo su Yanez.
La traversata fu compiuta felicemente, quantunque presso Mangalum le onde si mostrassero più violente che altrove, e dopo il mezzodì la scialuppa approdava all'estremità della piccola baia.
– Scendete – disse il capo, aiutando Darma. – Vi troverete meglio qui che sulle roccie dell'isolotto.
Aveva pronunciato quelle parole con un accento quasi beffardo e che non era sfuggito a Yanez.
– Questo vecchio volpone deve avermi riconosciuto – mormorò il portoghese. – Se non torna presto il Re del Mare l'avventura non finirà certo bene per me. Sir Moreland si è messo in un bell'imbarazzo.
Anche l'anglo-indiano doveva essersi accorto di aver giuocato una pessima carta, poiché appariva molto preoccupato.
Gl'isolani tirarono sulla spiaggia la scialuppa onde non venisse guastata dalla risacca, la quale si faceva sentire violentissima anche dentro il bacino, si gettarono sulle spalle i fucili e raggiunsero sollecitamente i naufraghi, circondandoli.
– Dove ci conducete? – chiese sir Moreland, il quale diventava sempre più inquieto.
– A casa mia – rispose il capo.
Nessun isolano era uscito dalle abitazioni scaglionate lungo il declivio. Probabilmente non si erano accorti del ritorno della scialuppa od avevano preferito starsene nelle loro capanne, ricominciando a piovere.
Il capo attraversò il piazzale e condusse i naufraghi in una casetta di bella apparenza, costruita parte in legno e parte in pietra, sul cui tetto a punta sventolava uno straccio rosso, l'avanzo di qualche bandiera inglese.
Aprì la porta ed invitò l'inglese, Yanez e Darma ad entrare, poi, mentre i suoi uomini armavano precipitosamente i fucili, volgendosi verso un vecchio che stava fumando in un angolo, presso la finestra, gli chiese, indicandogli Yanez:
– Signor governatore, conoscete quest'uomo? Guardatelo bene e ditemi se non è uno di quelli che ci rubarono la provvista di carbone affidataci dal governo inglese.
– Ah! Briccone! – esclamò il portoghese, furioso.
Il vecchio si era prontamente alzato guardando Yanez, il quale già colla sua invettiva si era tradito.
– Sì, è lui che ci ha imposto la consegna del carbone! – gridò il governatore.
– Ora non ci sfuggirai, mio caro, e ti faremo appiccare dai marinai inglesi e sull'albero più alto della loro nave. Pirata!
– Io pirata! – esclamò Yanez alzando il pugno.
Sir Moreland fu pronto ad intervenire.
– Nessuna violenza quando si trova qui un capitano di Sua Maestà la Regina d'Inghilterra.
Il vecchio che pareva non si fosse nemmeno accorto, fino allora, della presenza dell'anglo-indiano, lo guardò con stupore.
– Chi siete voi? – gli chiese.
– Guardate l'abito che indosso ed i gradi che brillano ancora sulle mie maniche.
– È approdata la vostra nave?
– La mia è stata affondata dopo un terribile combattimento, al largo di Mangalum, dalle artiglierie del corsaro.
– Non appartenete a quella che ci è stata segnalata ieri sera?
– No, perché sono stato raccolto sulle scogliere dell'isolotto.
– Insieme a quest'uomo? – chiese il governatore, il cui stupore aumentava.
– Sì, insieme a lui ed a questa miss, salvata da noi durante l'uragano.
– E voi, capitano inglese, eravate insieme ai corsari! Là! Là! Voi siete un ben abile commediante, ma io non sono così sciocco da credere alle vostre chiacchiere.
– Ci aveva prima narrato d'essere naufragato – disse uno degli isolani.
– Vi affermo, sul mio onore, che io sono James Moreland, capitano della marina anglo-indiana, ed ora ai servigi del rajah di Sarawack – disse il giovane comandante.
– Datemi le prove e allora vi crederò.
– Non posso darvene alcuna per ora essendo la mia nave andata a picco.
– E quest'uomo? Come si trova con voi, mentre due giorni or sono era con quei pirati?
– Si è salvato con me in una scialuppa, durante l'abbordaggio, mentre la nave corsara veniva trascinata al largo dall'uragano e la mia affondava.
– Sareste invece voi il capo di quei pirati nella pelle d'un inglese?
– Vecchio! – urlò Yanez. – Finiscila di chiamarci pirati. Questo è un capitano anglo-indiano.
– Siete dei pirati.
– Che cosa ti ho preso io?
– Il carbone.
– Era del governo e non tuo.
– E gli animali.
– Che vi sono stati pagati – ribatté Yanez che perdeva la sua solita flemma. – Avete ancora in tasca la tratta su Pontianak, ne sono sicuro, mentre avremmo potuto portarveli via tutti, senza pagare una sola sterlina.
– E voi credete perciò che io vi lasci andare? – disse il governatore con un sorriso ironico. – La nave inglese non tarderà ad approdare e vedremo come ve la caverete con quel comandante. Io spero di vedervi ballare con un buon canapo al collo, l'ultima danza della morte.
– Ed io vi dico che farete, per lo meno a me, le vostre scuse – disse sir Moreland, il quale cominciava egli pure ad irritarsi. – Vi avverto intanto che se voi torcete un capello a questa miss o a quest'uomo, farò bombardare il vostro villaggio dai cannoni inglesi, parola di James Moreland.
– Bene, bene – disse il governatore, sempre ridendo. – Soltanto rimarrete nostri prigionieri per diritto di guerra. Ah! Signori pirati, pagherete il carbone che il governo inglese ha affidato a noi e nuovamente le bestie. Non si prende a gabbo un uomo par mio.
– Sia, lo vedremo – disse sir Moreland. – Intanto segnalate alla nave da guerra, se è ancora in vista dell'isola, che avete delle comunicazioni importanti da fare.
– Pare che abbiate molta fretta di farvi appiccare – rispose il governatore. – Farò il possibile per accontentarvi.
Si volse verso i suoi sudditi che avevano assistito al colloquio appoggiati ai loro moschetti, dicendo loro:
– Ve li affido e badate che non vi fuggano. Ci sarà un premio da guadagnare oltre la riconoscenza del governo inglese. Nel magazzino e chiudete bene.
– Andiamo – disse il capo, spingendo ruvidamente Yanez verso la porta. – La commedia è finita per ora.
L'anglo-indiano, il portoghese e Darma si lasciarono condurre via, senza tentare alcuna resistenza che sarebbe stata d'altronde inutile e pericolosa con quegli uomini ruvidi e brutali, e attraversata nuovamente la piazza, vennero introdotti in una massiccia costruzione di pietra che doveva servire di magazzino alla piccola colonia.
Era uno stanzone lungo una cinquantina di metri quasi vuoto in quel momento, perché non si vedevano che dei mucchi di pesce secco e dei barili contenenti forse dell'olio o della grassa, col tetto sostenuto da pilastri di pietra tenera estratta dalle colline dell'isola.
– Avete fame? – chiese il capo.
– Non mi spiacerebbe mangiare un boccone prima di venire appiccato – disse Yanez, beffardamente.
– A più tardi. Vi avverto intanto che al primo tentativo di fuga faremo fuoco contro di voi.
Ciò detto rinchiusero la porta, sprangandola al di fuori.
Sir Moreland, Yanez e Darma, meno spaventati di quanto si potrebbe supporre, si guardarono l'un l'altro, quasi sorridendo.
– Che ne dite di quest'avventura, sir Moreland? – chiese finalmente la giovane.
– Che se la nave inglese incrocia veramente nelle acque dell'isola finirà presto – rispose il capitano.
– Per voi, ma non per noi.
– E perché miss?
– Quando i vostri apprenderanno che noi siamo corsari non ci appiccheranno?
– O per lo meno ci condurranno a Labuan per essere giudicati – disse Yanez. – Ciò farebbe certo piacere a quel governatore che ha dei vecchi rancori contro di me.
– Cercherò di evitare che ciò possa succedere – rispose il capitano. – Sarebbe pericoloso, specialmente pel signor de Gomera.
– Vi metteremo in un grave imbarazzo, sir Moreland – disse Darma.
– Non lo credo, miss. E poi chi mi dice che il comandante di quella nave non sia un mio amico? In tal caso c'intenderemo facilmente. Il signor de Gomera si è comportato verso di me come un gentiluomo ed io non sarò da meno verso di lui.
– Vi siete dimenticato l'avventura notturna a Redjang?
– Astuzie di guerra, miss, e non ho serbato rancore né a voi né ai vostri protettori.
– Siete troppo buono, sir Moreland.
– Non sono né migliore, né peggiore degli altri. Ah!
Un colpo di cannone era improvvisamente rimbombato al di fuori, facendo tremare le pareti del magazzino.
– Una nave da guerra! – esclamò l'anglo-indiano.
– È il Re del Mare o quella che attendono gl'isolani? – si chiese Yanez.
– Lo sapremo presto.
Entrambi si erano slanciati verso la porta, percuotendola a calci e gridando:
– Aprite! Vogliamo vedere gl'inglesi a sbarcare!
– Silenzio! – tuonò una voce minacciosa. – Se sforzate la porta faccio fuoco!
IL RITORNO DEL RE DEL MARE
Assordanti clamori e vari colpi di moschetto avevano risposto al rimbombo del pezzo d'artiglieria. Non erano però grida di guerra, anzi di gioia, segno evidente che non si trattava del Re del Mare, bensì della nave inglese attesa.
Yanez e sir Moreland, tranquillizzati dalla minaccia della sentinella, avevano cercato di arrampicarsi fino al tetto dove si vedeva uno spiraglio; però avevano dovuto rinunciare in causa dell'altezza della parete.
– Bah! – disse l'anglo-indiano. – Sarà un'attesa di pochi minuti.
– Che sia una nave appartenente alla flottiglia di Labuan? – chiese Yanez.
– Lo suppongo. Pare che i miei compatrioti siano sbarcati; non udite questi urrah?
– Sì, la popolazione li saluta.
– Fra poco la commedia si tramuterà in farsa, con gran stupore di quello stupido governatore che si è ostinato a non credermi un capitano autentico.
«Le grida si avvicinano, i miei compatrioti vengono a liberarci.»
– Gl'isolani supporranno invece che vengano per appenderci – disse Darma.
– Sono capaci di aver preparate le corde – disse Yanez, scherzando.
Un rumore di voci si era udito presso la porta. Un momento dopo le traverse cadevano al suolo e uno sprazzo di luce invadeva il magazzino.
Il governatore era comparso sulla soglia, assieme ad un uomo giovane ancora, con lunga barba bionda e gli occhi azzurri e che indossava la divisa di tenente di marina.
Dietro di loro si vedeva un drappello di marinai armati da guerra, baionette inastate, circondati da numerosi isolani.
– Ecco i pirati! – aveva gridato il vecchio, indicando i prigionieri. – Meritano dieci braccia di corda e bene insaponata. Arrestateli!
Con suo immenso stupore il tenente, invece di far avanzare i suoi marinai, si era precipitato verso sir Moreland colle braccia aperte, gridando:
– Comandante! Possibile! Voi vivo ancora! Sogno io?
– No, mio caro Leyland! – esclamò sir Moreland. – Sono precisamente io, in carne e ossa. Abbracciatemi, amico mio!
Mentre il tenente ed il capitano si precipitavano l'uno contro l'altro, il governatore, completamente scombussolato da quell'inatteso colpo di scena, si grattava furiosamente la testa, ripetendo:
– Ma se è un alleato dei pirati! Guardatelo, guardatelo bene, signor tenente! Inganna anche voi!
Il tenente, senza badare alle proteste del vecchio, né alle imprecazioni e alle grida di stupore degli isolani, aveva chiesto:
– Come mai vi trovate qui, capitano, mentre vi si credeva affondato assieme alla vostra nave? Qui, a così tanta distanza da Sarawack?
– Non ve lo avevano detto i marinai lasciati liberi dal corsaro?
– Sì, ma nessuno aveva prestato fede alle loro parole.
– Signor Leyland, che cosa siete venuto a cercare qui?
– Il corsaro.
– Siete giunto troppo tardi e poi non vi consiglierei di misurarvi con quella nave! Ci vuole ben altro che un incrociatore! Volete un consiglio da vero amico? Prendete subito il largo ed evitate d'incontrarvi col Re del Mare delle Tigri di Mompracem. Andiamo a bordo e vi racconterò poi tutto, ma lasciate prima che vi presenti due amici: miss Darma Praat e suo fratello.
Il governatore, vedendo il tenente porgere la mano al portoghese, scoppiò come una bomba.
– Vi mistificano! – urlò. – Ecco il pirata che ci ha derubati! Appiccatelo!
– Silenzio, vecchia cornacchia – disse sir Moreland. – Sono affari che non vi riguardano, giacché il carbone non era di vostra proprietà.
– E le nostre bestie?
– Fate incassare la tratta a Pontianak – disse Yanez, ironicamente.
– Che storia è questa, capitano? – chiese il tenente.
– A più tardi maggiori spiegazioni – rispose sir Moreland. – Fate proteggere questa miss e suo fratello dai vostri marinai.
– Appiccateli! – urlava il governatore, inferocito. – Sono tutti pirati!
– Silenzio! – tuonò il tenente, impazientito. – Se questi signori, come voi affermate, sono dei pirati, il consiglio di guerra li giudicherà. Marinai, formate il quadrato ed a bordo subito.
– Signor tenente! – gridò il vecchio.
– Basta, ho capito, saranno giudicati. Avanti, in linea serrata.
I marinai, una trentina in tutto, splendidamente equipaggiati, chiusero le loro file attorno a sir Moreland, a Yanez ed alla giovane e scesero verso la spiaggia, seguiti dal governatore e dalla popolazione la quale commentava, poco favorevolmente, la condotta del tenente, credendo in buona fede che volesse proteggere dei volgari pirati.
Nel piccolo bacino vi erano tre scialuppe e fuori, un bellissimo incrociatore di piccole dimensioni, tutto dipinto in nero, che navigava fra i due promontori, tenendosi sotto vapore.
Il capitano, il tenente, Yanez e Darma s'imbarcarono sulla più grossa scialuppa assieme ai dieci marinai, mentre gli altri prendevano posto nelle altre due.
Con pochi colpi di remo le scialuppe attraversarono la distanza, abbordando la scala di tribordo che era rimasta abbassata.
– Capitano – disse il tenente, quando sir Moreland giunse in coperta, salutato dagli urrah strepitosi dell'equipaggio. – La mia nave è tutta a vostra disposizione.
– Non chiedo che una cabina per me ed una per ciascuno dei miei compagni. Giudicherete voi, comandante della nave, se potrete trattarli come prigionieri di guerra, dopo però che mi avrete ascoltato. Miss Darma, signor de Gomera, attendetemi.
Mentre la nave riprendeva il largo, il capitano ed il tenente scesero nel quadro dove ebbero un lungo colloquio. Quando risalirono, sir Moreland era sorridente e pareva molto lieto.
– Miss, signor de Gomera – disse accostandosi a loro. – Voi non verrete ricondotti a Labuan, perché la nave deve recarsi a Sarawack senza indugio.
– Dove verremo consegnati al rajah – disse Yanez.
– È tutto quello che noi possiamo fare, quantunque io avessi desiderato ben altro, – disse il capitano con un sospiro.
– E che cosa, sir Moreland? – chiese Darma.
L'anglo-indiano scosse il capo senza rispondere, poi offrendo il braccio alla giovane e conducendola verso poppa, le disse con certa agitazione:
– Vorrei strapparvi una promessa, miss.
– Quale, sir Moreland? – chiese Darma.
– Di non imbarcarvi più sul Re del Mare.
– Se sono prigioniera?
– Il rajah vi rimetterà subito in libertà.
– È impossibile, sir: colà vi è mio padre ed egli non lascierà il Re del Mare. La sua sorte è unita a quella degli ultimi pirati di Mompracem.
– Pensate che io un giorno mi troverò nuovamente dinanzi alla nave di Sandokan e che forse toccherà a me colarla a fondo e dare anche a voi la morte, io che darei invece tutto il mio sangue per voi. Che cosa rispondete, miss Darma?
– Lasciate tutto al destino, sir Moreland – rispose la giovane.
– Eppure mi amate.
Darma lo guardò, senza rispondere; i suoi occhi erano umidi.
– Ditemelo, Darma.
– Sì – mormorò ella, con una voce così lieve che parve un soffio.
– Mi giurate di non dimenticarmi?
– Ve lo giuro.
– Ho fede nel nostro destino, Darma.
– Ed io temo invece che sarà fatale ad entrambi. Il nostro affetto è nato sotto una cattiva stella, sir Moreland, lo sento – disse la giovane con voce triste.
– Non parlate così, miss Darma.
– Che volete, sir Moreland, vedo buio nel nostro avvenire. Mi pare che una catastrofe non lontana minacci noi due. Questa guerra sarà fatale anche a noi.
– Voi potrete evitare questo pericolo, Darma. Esso sta nascosto negli abissi dell'Atlantico.
– Ed in quale modo?
– Abbandonando il Re del Mare al suo destino, ve lo dissi già.
– No, sir Moreland. Finché sventolerà la bandiera delle Tigri di Mompracem, Darma, la protetta di Sandokan e di Yanez, non lascierà la nave.
– E non sapete dunque che essi sono destinati a perire tutti? Le migliori e le più possenti navi della marina inglese fra poco piomberanno su questi mari e spazzeranno via il corsaro. Fuggirà, vincerà forse altre battaglie, eppure presto o tardi dovrà soccombere sotto le nostre artiglierie.
– Ve lo dissi ancora: noi sapremo morire da valorosi, al grido di: Viva Mompracem!
– Bella e coraggiosa, come una vera eroina! – esclamò sir Moreland, guardan-ola con ammirazione. – Ed il fiotto di sangue sarà fatale a tutti!...
Yanez si era in quel momento accostato con precipitazione.
– Sir Moreland! – esclamò. – Una nave a vapore corre su di noi. È stata già segnalata dal comandante.
– Che sia il Re del Mare? – esclamò Darma.
– Si sospetta che sia una nave da guerra. Guardate: i marinai si preparano al combattimento.
La fronte di sir Moreland si era oscurata, mentre un rapido pallore si era diffuso sul suo viso.
– Il Re del Mare – mormorò con voce sorda. – Esso viene a spezzare la mia felicità.
Il tenente lo aveva raggiunto, tenendo in mano un cannocchiale.
– Sir James – disse. – Una nave e molto grossa, se non mi inganno, punta su di noi.
– Che sia una delle nostre? – chiese il capitano.
– No, perché viene dal nord-est, mentre la nostra squadriglia si è diretta verso Sarawack colla speranza di trovare il corsaro in quella direzione.
Un punto nero, che ingrandiva rapidamente, sormontato da due nere colonne di fumo, era apparso sull'orizzonte e pareva che si dirigesse verso il gruppo di Mangalum, muovendo a grande velocità.
Sir Moreland aveva puntato il cannocchiale e guardava con estrema attenzione. Ad un tratto l'istrumento gli sfuggì dalle mani:
– Il Re del Mare! – esclamò con voce rauca, mentre gettava su Darma uno sguardo ripieno di tristezza.
– Sandokan! – esclamò Yanez. – Nemmeno questa volta mi appiccheranno!
– È il corsaro? – chiese il tenente.
– Sì – rispose sir Moreland.
– Daremo battaglia e l'affonderemo – disse il tenente.
– Volete farvi colare a picco? Fra pochi minuti nave e uomini saranno in fondo al mar della Sonda. Ci vuole ben altro, che un incrociatore di terza classe per affrontare quella nave, la più moderna, la più rapida e la più formidabile di quante ve ne siano.
– Eppure non mi lascierò catturare senza combattimento – rispose il tenente.
– Non lo vorrei nemmeno io, amico; credo però che noi lo eviteremo. Le conseguenze sarebbero per noi disastrose.
– In quale modo?
– Fate calare in acqua una scialuppa e lasciate che io vada prima a parlamentare colla Tigre della Malesia. Voi perderete i due prigionieri, io perderò molto di più, ve lo giuro, ma voi salverete la vostra nave ed il vostro equipaggio.
– Vi obbedisco, sir James.
Mentre i marinai calavano una baleniera, il Re del Mare che avanzava con una velocità di dodici nodi all'ora, piombava sull'incrociatore.
Le sue possenti artiglierie delle torri di prora erano già state puntate e si preparavano a coprire di fuoco e d'acciaio il minuscolo nemico ed a colarlo a fondo alla prima bordata.
Il lungo nastro rosso, segno di combattimento, era salito sventolando sull'albero di prora, mentre la bandiera rossa di Mompracem, adorna d'una testa di tigre, veniva innalzata su quello di poppa.
Sandokan, vedendo l'incrociatore inglese arrestarsi, issare bandiera e calare in mare una scialuppa, aveva ordinato macchina indietro, fermandosi a milleduecento metri dall'avversario.
– Pare che l'inglese non si senta abbastanza forte per misurarsi con noi – aveva detto a Tremal-Naik che lo aveva raggiunto nella torretta. – Che voglia arrendersi? Non saprei cosa farne di quella nave.
– Le prenderemo le artiglierie e le munizioni, oltre il carbone – rispose l'indiano. – Potranno servire ai nostri amici dayaki di Sarawack.
– Sì, eppure mi spiacerebbe perdere altro tempo – disse la Tigre della Malesia. – Dobbiamo cercare Yanez e Darma.
– Speri di trovarli ancora sullo scoglio? – chiese Tremal-Naik con angoscia.
– Non ne dubito. Io li ho veduti approdare, prima che le tenebre coprissero quell'isolotto. Oh! Un capitano nella baleniera! Che venga a offrirci la sua spada? Avrei preferito un combattimento, giacché sento una smania furiosa di tutto distruggere.
– Tigre della Malesia – disse in quel momento Sambigliong, il quale aveva puntato un cannocchiale sulla scialuppa. – È mai possibile! Che io m'inganni o che sia realmente lui! Guardate! Guardate!
– Che cosa hai veduto?
– È lui, vi dico, è lui!
– Chi lui?
– Sir Moreland!
– Moreland! – esclamò Sandokan, prima impallidendo e poi arrossendo, mentre un lampo di speranza gli balenava negli sguardi. – Moreland a bordo di quel legno! Allora Yanez... Darma... Come possono trovarsi su quella nave? È impossibile, ti sei ingannato, Sambigliong.
– No, guardate, ci ha scorti e ci saluta agitando il berretto.
Sandokan si era slanciato fuori della torretta.
Un grido di gioia gli sfuggì.
– Sì, è lui, sir Moreland!...
La baleniera, sotto la spinta di dodici remi, s'avanzava rapidissima.
L'anglo-indiano, in piedi a poppa, salutava ora col berretto, senza abbandonare la barra del timone.
– Abbassate la scala! – gridò Sandokan.
L'ordine era appena stato eseguito che la baleniera abbordava. Sir Moreland salì rapidamente a bordo, dicendogli con una certa freddezza:
– Sono lieto di rivedervi, signore, e di potervi dare una notizia che gradirete assai.
– Yanez... Darma?... – gridarono ad una voce Sandokan e Tremal-Naik.
– Sono a bordo di quella nave.
– Perché non li avete condotti qui? – chiese Sandokan aggrottando la fronte.
L'anglo-indiano, che era diventato estremamente serio e che parlava con voce quasi imperiosa, rispose:
– Vengo per intavolare delle trattative, signore.
– Che cosa volete dire?
– Che il comandante vi consegnerà il signor Yanez e miss Darma a condizione che voi lasciate tranquilla quella nave, che come ben vedete non sarebbe in grado di misurarsi colla vostra.
Sandokan ebbe un istante di esitazione, poi rispose:
– Sia pure, sir Moreland. Saprò ritrovarla più tardi.
– Fate abbassare la bandiera di combattimento. Il comandante comprenderà che voi avete accettato la sua proposta e vi manderà subito i prigionieri.
Sandokan fece un segno a Sambigliong e pochi istanti dopo il nastro rosso veniva fatto scendere in coperta. Quasi nel medesimo istante una seconda scialuppa si staccava dal fianco del piccolo incrociatore: vi erano sopra Darma e Yanez.
– Sir Moreland – disse Sandokan, – dove vi ha raccolti quella nave?
– A Mangalum – rispose l'anglo-indiano, senza levare gli occhi dalla scialuppa che s'accostava rapidissima.
– Vi eravate salvati sullo scoglio?
– Sì – rispose asciuttamente il capitano, che pareva avesse perduta la sua abituale cordialità e che fosse in preda a delle profonde preoccupazioni.
La seconda scialuppa era giunta. Yanez e Darma avevano salito precipitosamente la scala, cadendo l'uno nelle braccia di Sandokan e la seconda in quelle di suo padre.
Sir Moreland, pallidissimo, guardava con occhio triste quella scena. Quando si furono separati, si volse verso Sandokan, chiedendogli:
– Ed ora mi tratterrete ancora prigioniero?
La Tigre della Malesia stava per rispondere, quando Yanez lo prevenne.
– No, sir Moreland, voi siete libero. Tornate a bordo dell'incrociatore.
Sandokan non aveva nascosto un gesto di stupore. Probabilmente non era quella la risposta che intendeva dare all'anglo-indiano, nondimeno non replicò.
– Signori – disse allora l'anglo-indiano con voce grave, fissando bene in viso Sandokan e Yanez. – Spero di rivedervi presto, ma allora saremo terribili nemici.
– Vi aspettiamo – rispose freddamente Sandokan.
S'accostò a Darma e le tese la mano, dicendole con accento triste:
– Che Brahma, Siva e Visnù vi proteggano, miss.
La fanciulla, che appariva profondamente commossa, strinse la mano senza parlare. Pareva che avesse un nodo alla gola.
L'anglo-indiano finse di non vedere le mani che Yanez, Sandokan e Tremal-Naik gli porgevano, salutò militarmente e scese rapidamente la scala senza volgersi indietro.
Quando però la scialuppa che lo conduceva verso il piccolo incrociatore passò dinanzi la prora del Re del Mare alzò la testa e vedendo Darma e Surama sul castello, le salutò col fazzoletto.
– Yanez – disse Sandokan, traendo da parte il portoghese. – Perché lo hai lasciato andare? Egli poteva diventare un ostaggio prezioso.
– Ed un pericolo per Darma – rispose Yanez. – Essi si amano.
– Me n'ero accorto. È un bel giovane e valoroso, ha sangue anglo-indiano nelle vene al pari di Darma... chissà? Dopo la campagna.
Stette un momento come immerso in un profondo pensiero, poi riprese:
– Cominciamo le ostilità: gettiamoci sulle vie di navigazione e cerchiamo, finché le squadre ci cercano nelle acque di Sarawack, di fare il maggior male possibile ai nostri avversari.
LA CROCIERA DEL RE DEL MARE
Quarantotto ore dopo, il Re del Mare, che aveva presa la direzione di ponente per aspettare al varco le navi provenienti dall'India e dalle grandi isole di Giava e di Sumatra, dirette nei mari della Cina e del Giappone, a centocinquanta miglia dal gruppo di Banguran avvistava un pennacchio di fumo.
– Nave a vapore! – aveva segnalato Kammamuri, che era di guardia sulle coffe del trinchetto.
Sandokan, che stava pranzando coi suoi amici e coll'ingegnere di macchina, si era affrettato a salire sul ponte, dopo d'aver lanciato il comando.
– Ravvivate i fuochi! Ai pezzi gli artiglieri delle torrette!
L'intiero equipaggio era pure salito in coperta, non esclusa la guardia franca, nessuno potendo prevedere con quale nave il Re del Mare stava per incontrarsi.
Trovandosi l'incrociatore ancora a così breve distanza dalle coste del Borneo, poteva darsi il caso che si trovasse improvvisamente di fronte a qualche nave da guerra in rotta per Labuan o per Sarawack.
La Tigre della Malesia, armato d'un potente cannocchiale, scrutava attentamente il mare. Pel momento non si vedeva che una colonna di fumo spiccare sul luminoso orizzonte, ma la nave non doveva tardare a comparire, ora che il Re del Mare le muoveva incontro con una velocità di dodici nodi e sei decimi.
– Ebbene, Sandokan? – chiese Tremal-Naik che lo aveva raggiunto.
– Un po' di pazienza, mio caro – rispose il formidabile pirata.
– E se quella nave non fosse inglese?
– Si saluta e la si lascia andare non volendo noi metterci in guerra col mondo intero.
– La vedi?
– Comincio a discernerla e mi pare che sia un piroscafo mercantile, giacché non vedo il lungo nastro rosso delle navi da guerra.
«La sua alberatura già spunta sull'orizzonte.
«Basterà un colpo in bianco per fermarla. Fa' preparare da Sambigliong quattro scialuppe con qualche mitragliera e armare sessanta uomini.»
– L'abborderemo? – chiese Kammamuri.
– Sì, se sarà inglese, come mi sembra. La nostra crociera comincia bene, più di quanto speravo e non sono che pochi giorni che abbiamo cominciate le ostilità.
La distanza spariva rapidamente, continuando il Re del Mare ad aumentare la sua velocità, onde tenersi pronto ad impedire la fuga al piroscafo che pareva essere un buon camminatore.
Gli uomini in vedetta sulla piattaforma avevano già riconosciuta la bandiera spiegata sull'asta di poppa ed un immenso grido aveva salutata quella notizia.
– Non mi ero ingannato – disse Sandokan. – Quella è inglese.
Ispezionò rapidamente le scialuppe, che erano già state calate fino ai sabordi ed i sessanta uomini che dovevano occuparle, quasi tutti malesi; poi fece dirigere l'incrociatore sul piroscafo, in modo da tagliargli la via.
Quella nave che doveva provenire probabilmente dai porti dell'India, era un grosso piroscafo di duemila e forse più tonnellate, a due alberi e due ciminiere.
Sulla tolda si vedevano numerose persone affollate alle murate, attratte dalla presenza di quel legno da guerra che correva velocemente incontro a loro.
A mille metri, Sandokan fece spiegare all'albero di mezzana la sua bandiera, poi sparare un colpo in bianco, che significava:
– Fermatevi!
Una subitanea confusione si era manifestata a bordo del piroscafo a quella inaspettata intimazione. Si vedevano marinai e passeggiai precipitarsi verso la prora, fra assordanti clamori che giungevano distintamente fino sul legno corsaro.
Certo la vista di quella bandiera, già conosciuta nei mari della Malesia, doveva aver prodotto una profonda impressione fra tutti tanto più che il Re del Mare aveva continuata la sua corsa come se avesse voluto speronare la povera nave.
Per alcuni minuti fu visto il piroscafo virare ora a babordo ed ora a tribordo, come se fosse irresoluto sulla via da prendere e sul da farsi, ma una palla lanciata da uno dei pezzi da caccia e che passò sul suo ponte con rombo minaccioso, lo decise a fermarsi.
– Macchina indietro! – aveva comandato Sandokan. – In acqua le scialuppe e gli uomini da sbarco a posto. A te il comando, Yanez.
Il portoghese cinse la sciabola che Sambigliong gli aveva portata, si sospese al fianco le pistole e scese nella scialuppa più grossa assieme a Tremal-Naik.
Il piroscafo si era fermato a ottocento metri, reputando inutile ogni resistenza contro quel formidabile incrociatore che avrebbe potuto colarlo a fondo con poche scariche.
Clamori assordanti si alzavano fra i passeggieri affollati sulla tolda, credendo forse che fosse suonata la loro ultima ora. Le quattro scialuppe, montate da sessanta uomini armati di carabine e di kampilang, avevano preso rapidamente il largo, dirigendosi verso il piroscafo, mentre gli artiglieri del Re del Mare puntavano due pezzi delle torri di babordo, pronti a scatenare un uragano di fuoco e di ferro al menomo indizio di resistenza da parte degl'inglesi.
Giunte le scialuppe a trenta passi, Yanez diede imperiosamente l'ordine ai marinai inglesi di abbassare la scala, minacciando in caso contrario di far fuoco.
A bordo vi fu un po' di esitazione e di confusione. Alcuni marinai erano comparsi sulle murate armati di fucili, come se avessero avuto l'intenzione di opporre resistenza, poi le grida furiose dei passeggeri, i quali non volevano esporsi al pericolo di venire colati a fondo dalle formidabili artiglierie del corsaro, li avevano subito costretti a ritirarsi e la scala era stata calata d'un colpo solo.
Yanez, seguito da Tremal-Naik, da Kammamuri e da dodici uomini, si slanciò sulla piattaforma sguainando la sciabola.
Il comandante del piroscafo lo aspettava, circondato dai suoi ufficiali, mentre i passeggieri, una cinquantina di persone per lo meno, si affollavano dietro, muti e terrorizzati.
Era un bell'uomo, di statura superiore alla media, dal volto energico ed abbronzato dal sole dei tropici, con capelli bruni e barba arricciata, un bel tipo di marinaio insomma.
Vedendo comparire Yanez, colla sciabola sguainata, impallidì, poi corrugò la fronte.
– A quale onore devo la vostra visita? – chiese con voce fremente.
– Avete veduto i colori della nostra bandiera? – chiese invece il portoghese, salutando ironicamente.
– So che i pirati di Mompracem avevano un vessillo rosso con una testa di tigre, un tempo.
– Allora permettetemi di avvisarvi che quei pirati hanno dichiarata la guerra alla vostra nazione ed al rajah di Sarawack.
– Mi avevano assicurato che non corseggiavano più.
– Ed era vero, signor mio. Il vostro governo ha provocato le Tigri di Mompracem e quelle hanno riprese le armi.
– In conclusione, che cosa volete voi?
– Accordarvi venti minuti per imbarcarvi sulle scialuppe e colare a fondo la vostra nave.
– È una pirateria questa!
– Chiamatela come meglio vi piace, ciò non m'interessa – rispose Yanez. – O obbedire o affondare: scegliete!
– Accordatemi qualche minuto onde interroghi i miei ufficiali.
– Ve ne ho concessi venti, dopo noi ci ritireremo e l'incrociatore aprirà il fuoco, ci siate o non ci siate a bordo. Sbrigatevi, perché abbiamo fretta.
Il capitano, che si frenava a stento, chiamò a consiglio i suoi ufficiali, poi dette l'ordine di mettere in mare le scialuppe e di farvi scendere innanzi a tutto i passeggieri.
– Cedo alla forza, non potendo resistervi – disse poi a Yanez. – Appena però noi avremo approdato a Natuna od a Banguran informerò telegraficamente il governatore di Singapore.
– Nessuno ve lo impedirà – rispose Yanez. – Vi faccio intanto osservare che sono trascorsi dieci minuti e che permetto ai passeggieri e al vostro equipaggio di portare con loro ciò che posseggono.
– E la cassa di bordo?
– Non sappiamo che cosa farne: se vi dispiace di perderla, prendetevela.
I marinai nel frattempo avevano messo in acqua tutte le lance, dopo d'averle fornite di viveri per parecchi giorni, di remi e di vele.
Ad un ordine del loro capitano, l'imbarco cominciò, facendo prima scendere le donne, poi i passeggieri. Ultimi furono gli ufficiali che portavano le carte di bordo e la cassa.
– L'Inghilterra vendicherà questo atto di pirateria – disse il capitano del piroscafo che appariva vivamente commosso.
Yanez salutò senza rispondere.
Quando la nave fu sgombrata, i malesi delle scialuppe salirono a bordo, mentre la scialuppa a vapore del Re del Mare s'accostava rapidamente. Le carboniere furono aperte e lo scarico del combustibile, molto scarso però, dovendo il piroscafo far scalo e rinnovare le provviste a Saigon, cominciò alacremente.
Due ore dopo i malesi lasciavano la nave. Le scialuppe montate dall'equipaggio inglese erano ancora in vista.
– Due cannonate alla linea d'acqua – aveva comandato Sandokan.
Poco dopo due granate sfondavano le lamiere di babordo del piroscafo, aprendo due squarci immensi, attraverso i quali si precipitò tosto il liquido elemento.
Quattro minuti dopo il piroscafo scompariva negli abissi del mar della Sonda, con un frastuono orrendo, essendo le sue macchine scoppiate, ed il Re del Mare riprendeva la crociera, allontanandosi verso il sud-ovest.
L'indomani un veliero inglese, subiva l'egual sorte, dopo d'averlo privato d'una parte del suo carico consistente in pesce secco destinato ai porti d'Hainau, e parecchie altre navi, a vela ed a vapore, andarono a tenergli compagnia nei profondi baratri.
L'incrociatore batteva indisturbato le linee di navigazione, corseggiando dalle coste del Borneo fino in vista delle isole Anaba, tagliando la via alle navi provenienti dallo stretto di Malacca e dirette nei mari della Cina e del Giappone.
Già oltre trenta navi erano state colate a fondo a colpi di cannone od incendiate, causando danni enormi alle compagnie di navigazione, quando un giorno un praho bornese che era stato accostato, informò quei formidabili distruttori che una squadra composta di parecchie navi da guerra era stata veduta nelle acque di Natuna.
Doveva certo essere quella di Singapore, inviata a cannoneggiare la nave corsara. Lo stesso giorno Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere Horward tennero consiglio e deliberarono di interrompere la crociera e di muovere senza indugio su Sarawack, a cercare la Marianna che doveva attenderli alla foce del Sedang.
Forse i dayaki, i loro antichi alleati, avevano cominciato ad invadere il Sultanato; era quindi quello il momento buono di assalire il rajah dal lato del mare e fargli pagare cara la sua cooperazione nella conquista di Mompracem.
Il Re del Mare quindi, che aveva le carboniere piene e anche parte della stiva ingombra di combustibile, fece rotta verso il sud-est, desiderando Sandokan fare prima una punta verso la sua isola, per accertarsi se gl'inglesi la tenevano ancora.
Aveva dato ordine di procedere colla massima velocità, sicché l'incrociatore divorava miglia e miglia. Per quarantotto ore navigò verso le coste bornesi, senza far cattivi incontri, quantunque tutti fossero persuasi che una grossa squadra battesse quei mari per sorprenderli.
Verso il tramonto del secondo giorno, il Re del Mare giungeva in vista di Mompracem, l'antico rifugio delle Tigri della Malesia.
Fu con una profonda commozione che Sandokan e Yanez rividero la loro isola, da dove per tanti anni avevano fatto tremare, coi loro prahos, il possente leopardo inglese.
Quando raggiunsero il capo orientale, entro cui aprivasi la piccola rada, la notte era già scesa da qualche ora, ma una luna splendida permetteva di discernere l'alta rupe su cui un giorno sventolava orgogliosa la temuta bandiera della Tigre della Malesia.
La casa che aveva servito d'asilo ai due capi della pirateria, non si vedeva più.
In suo luogo era stato eretto un fortino, probabilmente poderosamente armato per impedire alle ultime Tigri erranti sul mare di riconquistare il loro covo.
Anche in fondo alla rada si scorgevano confusamente delle opere di difesa, dei bastioni e delle cinte altissime.
Sandokan, appoggiato al coronamento di poppa, collo sguardo torbido e la fronte abbuiata, guardava la sua rupe senza parlare; dall'espressione del suo viso si capiva però facilmente che il suo cuore doveva in quel momento sanguinare.
Yanez che gli stava presso, gli mise una mano sulla spalla, dicendogli:
– Un giorno noi la riconquisteremo, è vero, Sandokan?
– Sì – rispose il pirata, tendendo minacciosamente il pugno verso l'isola. – Sì, quel giorno li caccieremo tutti in mare senza misericordia.
Volse lo sguardo verso il mare che scintillava superbamente sotto i raggi della luna.
– Mi riprende una voglia furiosa di tutto distruggere – disse poi. – Rivedo sangue dinanzi ai miei occhi.
Quasi nel medesimo istante, si udirono verso prora delle grida:
– Là! Là! Guardate!
Sandokan e Yanez si erano precipitati verso la murata di babordo, vedendo gli uomini di guardia slanciarsi attraverso la tolda:
– Dei fanali! – aveva esclamato il portoghese.
– Il sangue che cercavo! – gridò Sandokan, nel cui cuore pareva che d'un tratto si fossero risvegliati gli antichi istinti di ferocia.
Verso levante, in direzione delle isole Romades, le cui cime si delineavano di già, sei punti luminosi, verdi e rossi, quasi a fior d'acqua e due bianchi in alto, apparivano distintamente.
– Sono due navi a vapore – disse Yanez. – E scommetterei che vengono da Labuan.
– Tanto peggio per loro – disse Sandokan, tendendo i pugni verso quei punti luminosi. – Pagheranno per Mompracem! Da' ordine di alimentare i fuochi.
– Che cosa vuoi fare, Sandokan? – chiese il portoghese, impressionato dal lampo sinistro che brillava negli occhi del formidabile uomo.
– Colarli con tutti quelli che li montano.
– Sandokan, non dimenticare che noi siamo corsari e non più pirati. E poi non sappiamo ancora se quelle sono navi da guerra o mercantili e se battano bandiera inglese.
Invece di rispondere, la Tigre della Malesia comandò di spegnere i fanali, di far suonare il «tutti in coperta» e dirigere l'incrociatore verso le due navi.
Alle undici di sera il Re del Mare virava di bordo a soli cinquecento metri dai due piroscafi, i quali, ignari del tremendo pericolo che li minacciava, navigavano a breve distanza l'uno dall'altro, a piccolo vapore.
– Sembrano due trasporti – disse Yanez. – Ascolta, Sandokan.
Dai frapponti illuminati, s'alzavano rulli di tamburi, squilli di trombe e dei canti. Pareva che dei soldati si divertissero, approfittando della splendida serata e della tranquillità del mare. Il vento che soffiava da settentrione portava quei clamori fino sul ponte del Re del Mare.
– Sono soldati inglesi di Labuan che tornano in patria – disse Yanez. – Odi, Sandokan? Noi abbiamo udito ancora queste canzoni negli accampamenti inglesi dell'India, durante l'assedio di Delhi.
– Sì, sono soldati – rispose la Tigre della Malesia con strano accento. – Ridono e salutano la patria lontana e la morte invece sta per piombare su di loro.
– Non parlare cosi, amico.
– E non pensi tu, Yanez, che quegli uomini m'hanno cacciato dall'isola, dopo d'aver fatto strage dei miei prodi?
Si era rizzato in tutta la sua altezza, col viso animato da una collera terribile, gli occhi fiammeggianti. L'antico pirata, la formidabile Tigre della Malesia che per tanti anni aveva bagnato di sangue quei mari, si risvegliava.
– Sì, ridete, cantate, intrecciate danze: sono danze funebri! Domani, ai primi albori, le vostre risa vi si geleranno sulle labbra. Troppo presto avete dimenticato il mio piccolo popolo, soppresso e sgozzato sulle spiaggie della mia isola. Il vendicatore è qui e vi spia!
Il Re del Mare, virato di bordo, si era messo a seguire silenziosamente le due navi, tenendosi ad una distanza d'un miglio.
Ormai non potevano più sfuggire, non potendo gareggiare con un camminatore di quella forza.
Avrebbero potuto bensì poggiare verso le Romades, che erano allora vicinissime e tentare di gettarsi verso la costa, ma anche in tale caso non sarebbero riuscite a salvarsi.
Sandokan, curvo sulla murata, non staccava gli sguardi da loro. Pareva calmo, eppure terribili pensieri di vendetta, di stragi, di sangue, dovevano tormentare il suo cervello.
– Chi m'impedirebbe – disse ad un tratto – di piombare come un avvoltoio su di esse e mandarle fracassate a fondo, a colpi di sperone? E non sarei nel mio diritto? Il mare custodisce bene i segreti che gli si affidano e più nessuno saprebbe nulla!
– Non lo farai, per umanità, Sandokan – disse Yanez.
– Umanità! Parola vuota di senso in guerra. Forse che gl'inglesi se ne sono ricordati, quando decretavano a sangue freddo la conquista della nostra isola e l'esterminio del nostro piccolo popolo? Che cosa rimangono oggi delle Tigri di Mompracem? Di quelle Tigri che resero a questi inglesi un così grande servigio, liberandoli dalla infame setta dei thugs? Per riconoscenza quegli avidi cenciaioli degli oceani ci hanno carpito a tradimento la nostra isola, assalendoci di notte, dieci volte superiori, come se noi fossimo belve feroci, e tu, Yanez, parli d'umanità! Credi tu che se domani una squadra inglese piombasse su di noi o sui nostri prahos, ci risparmierebbe? No, ci colerebbe a fondo e ci manderebbe a dormire il sonno eterno negli abissi del mare della Malesia.
– Noi potremmo difenderci, Sandokan, disputare la vittoria, mentre quelle due navi nulla potrebbero opporre alle nostre formidabili artiglierie ed al nostro sperone.
– È vero, signor Yanez – disse una voce dietro di loro.
Sandokan si era voltato impetuosamente e si trovò dinanzi a Darma.
– Tu l'approvi, perché...
Non compì la frase, che doveva alludere all'amore della giovane coll'anglo-indiano.
– Che provino a difendersi anche essi, Darma – disse poi, cambiando tono.
– Non lo potrebbero, signor Sandokan – ribatté la giovane. – Forse vi sono su quelle due navi cinque o seicento poveri giovani che sospirano il momento di rivedere la loro patria e di abbracciare i loro vecchi genitori. Non fate piangere tante madri, voi che siete sempre stato così generoso.
– Anche i miei uomini, le vecchie Tigri di Mompracem hanno pianto la notte che venivano cacciati dalla loro isola – disse Sandokan, con ira repressa. – Piangano dunque le loro donne dell'Inghilterra.
Sandokan si era staccato dalla murata volgendosi verso le due torri di poppa dalle cui feritoie uscivano le estremità dei due grossi pezzi da caccia, minaccianti l'orizzonte. Stava per aprire la bocca e far scatenare quei due mostri di bronzo, quando Darma posò la sua mano sulla bocca del formidabile pirata:
– Che cosa state per comandare, mio generoso protettore? – chiese l'anglo-indiana.
– Il segnale della strage. Io voglio mutare quei canti giocondi in un immenso urlo d'angoscia e di morte. Il mare apra i suoi baratri ed inghiotta i conquistatori della mia isola.
– Non lo farete, signor Sandokan – rispose Darma, con voce ferma. – Pensate che un giorno potreste venire assalito da forze superiori e vinto. Chi di noi risparmierebbero i vincitori?
– Mentre tu non devi dimenticarti, Sandokan – aggiunse Yanez con voce grave, – che noi a bordo abbiamo due fanciulle, Surama, la prima donna che io abbia amata e questa fanciulla che per salvarla noi abbiamo intrapresa una guerra contro ai thugs e compiuti mille prodigi. Nemmeno esse sfuggirebbero alla rabbia dei vincitori. Vorresti tu, con questo atto inumano, renderle nostre complici?
La Tigre della Malesia aveva incrociate le braccia, guardando ora Darma ed ora Surama, che s'avanzava lentamente in quel momento, scendendo dal ponte di comando. Il lampo terribile che poco prima gli balenava negli occhi, a poco a poco si spegneva.
Ad un tratto tese la mano a Yanez, senza parlare, scosse due o tre volte il capo, poi si mise a passeggiare, fermandosi di quando in quando a guardare le navi che continuavano la loro rotta, passando al largo delle Romades.
Il Re del Mare le seguiva sempre, mantenendo la distanza.
La notte trascorse senza che Sandokan avesse preso un momento di riposo.
Aveva continuato a passeggiare in coperta, fra le torri, senza mai aprire bocca.
Quando però i primi albori cominciarono a diffondersi pel cielo, fece accelerare la marcia dell'incrociatore, comandando agli artiglieri di prendere i loro posti di combattimento. Con una rapida manovra si portò a poche gomene dalle due navi e fece issare la sua bandiera, appoggiandola con un colpo in bianco.
Urla acutissime si erano alzate dai due trasporti, i cui ponti si eran gremiti di soldati, pallidi di terrore.
– Mettetevi in panna e arrendetevi a discrezione o vi affondo – aveva fatto segnalare Sandokan.
Nel medesimo tempo aveva fatto puntare le artiglierie sulle due navi, pronto a far eseguire alla lettera la minaccia.
NELLE ACQUE DI SARAWACK
I due trasporti, che si vedevano nell'impossibilità di opporre qualsiasi resistenza, non possedendo che delle artiglierie leggiere, affatto innocue pei poderosi fianchi del corsaro, avevano subito obbedito, abbassando le bandiere.
Sulle loro coperte regnava una confusione indescrivibile. I soldati, tre o quattrocento, credendo che l'incrociatore si preparasse ad affondarli, correvano all'impazzata pei ponti, affollandosi intorno alle scialuppe.
– Vi accordo due ore per sgombrare le navi – aveva segnalato ancora il Re del Mare. – Dopo questo tempo aprirò il fuoco. Obbedite!...
Le isole Romades non erano lontane che due chilometri, mostrando le loro coste assolutamente deserte, con pochi alberi e fiancheggiate da numerosi banchi di sabbia e da scogliere.
I comandanti delle due navi, dopo un breve consiglio, avevano risposto:
– Cediamo alla forza, per risparmiare un inutile massacro.
Subito tutte le scialuppe disponibili erano state messe in acqua, cariche di soldati fino quasi al punto di affondare, perché tutti vi si affollavano, per tema che il corsaro aprisse il fuoco.
Vedendo che alcuni portavano dei fucili, Sandokan, sempre inesorabile, aveva segnalato di gettarli in acqua o di ritornarli a bordo, minacciando, in caso contrario, di spazzar via le imbarcazioni.
Mentre si effettuava lo sbarco, fra grida, imprecazioni, minaccie e dispute, il Re del Mare girava lentamente intorno alle due navi, colle artiglierie sempre puntate.
– Che cosa ne farai, dopo, di quei trasporti? – aveva chiesto Yanez.
– Li affonderemo – aveva risposto freddamente Sandokan. – Il mare è pronto a ricevere anche questi.
– Che peccato non poterli rimorchiare in qualche porto!
– E dove? Non vi è alcun rifugio amico per le ultime Tigri di Mompracem. Si direbbe che tutti gli stati del Borneo, dopo d'averci ammirati, hanno paura del leopardo inglese – disse Sandokan con profonda amarezza.
– Non importa, ne faremo a meno e affideremo le prede al mare. Questo almeno non le rende più.
– Quanti tesori perduti inutilmente! – disse Darma.
– Così è la guerra – rispose Sandokan asciuttamente. – Yanez, ordina di mettere in acqua le scialuppe e di aprire i depositi del carbone. Il Re del Mare avrà una buona provvista di combustibile.
I soldati, le cui imbarcazioni avevano fatti già parecchi viaggi, si erano quasi tutti accampati sulla spiaggia più prossima, pronti a rifugiarsi nei boschi in caso di pericolo.
Yanez fece imbarcare cinquanta uomini, bene armati e comandati da due quartier-mastri, li mandò a occupare i due trasporti, prima che anche gli equipaggi li abbandonassero, onde evitare un tradimento.
Polvere a bordo ve ne doveva essere ed i comandanti inglesi potevano, prima di andarsene, collocare delle miccie accese nella santabarbara e mandare all'aria i due trasporti ed insieme a loro i depositi di carbone che tanto premevano alle Tigri di Mompracem.
Partito l'ultimo inglese, un altro drappello di malesi al comando di Kammamuri si recò a bordo delle due navi, per procedere allo scarico del combustibile e delle munizioni da guerra.
I soldati, dalla spiaggia, guardavano con ansietà le manovre dei pirati, stupiti di non vederli prendere a rimorchio i due legni, come avevano dapprima sospettato.
Tutto il giorno gli uomini di Sandokan lavorarono febbrilmente vuotando i pozzi ben forniti di combustibile.
Verso sera novecento tonnellate di carbone giacevano nei depositi del Re del Mare.
I malesi ed i dayaki cadevano pel sonno e per la fatica eccessiva, ormai i pozzi dei due trasporti erano quasi vuoti.
– Ed ora – disse Sandokan, – prendi, mare, le prede che ti offro. Quando anche noi coleremo a fondo, sii clemente.
Prima di abbandonare le due navi, i malesi avevano accese delle miccie presso i barili di polvere lasciati nelle santebarbare.
Sandokan, Yanez e Tremal-Naik si erano appoggiati alla murata poppiera, guardando tranquillamente i due trasporti. Dinanzi, sul bastingaggio, avevano collocato un cronometro.
– Tre minuti – disse ad un tratto Sandokan volgendosi verso i suoi compagni. – Ecco la fine!
Un momento dopo una formidabile esplosione rimbombava sul mare, seguita a breve distanza da un'altra non meno assordante.
Le due navi, squarciate dallo scoppio, affondavano rapidamente fra le urla furiose dei soldati e degli equipaggi, che si trovavano sulle coste dell'isola.
– Ecco la guerra – disse Sandokan, con un sorriso sarcastico. – L'hanno voluta? Paghino!... E questo non è che un principio del dramma!
Quindi, volgendosi verso Yanez, aggiunse:
– Andiamo a Sarawack ora: quel golfo sarà il campo delle nostre future imprese e le prede laggiù saranno più abbondanti che qui. Lo vedrai.
Il Re del Mare abbandonava rapidamente i paraggi delle Romades, prendendo la corsa verso il sud.
Colle carboniere piene, ed un sopraccarico di combustibile nella stiva, poteva sfidare alla corsa tutte le navi che gli alleati dovevano aver radunate nelle acque di Sarawack.
Il poderoso incrociatore che divorava miglia su miglia, due giorni dopo avvistava già il capo Tonjong-Datu, passando dinanzi alla medesima rada dove erasi rifugiata la Marianna. Nulla avendo incontrato in quei paraggi, riprese senza indugio la corsa verso il sud-est, per raggiungere la foce del Sedang.
Sandokan voleva innanzi a tutto accertarsi se l'equipaggio della sua piccola nave era riuscito nella missione affidatagli, ossia di armare e di sollevare i suoi vecchi alleati, i dayaki dell'interno, che lo avevano così vigorosamente aiutato contro James Brooke, il famoso «Sterminatore dei pirati».
Quarantotto ore dopo, il Re del Mare, che non aveva rallentata la sua velocità, avvistava il monte Matany, un picco colossale che si erge presso la costa di ponente dell'ampia baia di Sarawack e che lancia la sua vetta verdeggiante a duemila novecento e settanta piedi, e l'indomani navigava dinanzi alla foce del fiume che bagna la capitale del rajah.
Era il momento di aprire per bene gli occhi, poiché da un istante all'altro delle navi inglesi o del rajah di Sarawack potevano mostrarsi.
Certo la comparsa del corsaro doveva essere stata segnalata alle autorità di Sarawack ed i migliori incrociatori dovevano aver preso il largo, onde proteggere da un improvviso assalto le navi che lasciavano il fiume, dirette a Labuan od a Singapore, che potevano venire facilmente catturate o affondate dagli audaci pirati di Mompracem.
Perciò una rigorosa sorveglianza era stata ordinata a bordo dell'incrociatore.
Giorno e notte dei gabbieri si tenevano costantemente sulle piattaforme superiori, muniti di cannocchiali di lunga portata, pronti a dare l'allarme nel caso che qualche colonna di fumo apparisse all'orizzonte.
Sandokan e Yanez, per maggior precauzione, avevano anche comandato che dopo il calar del sole più nessun lume si accendesse a bordo, nemmeno nelle cabine che avevano le finestre sui bordi esterni, e nemmeno i fanali regolamentari. Volevano passare dinanzi alla foce del Sarawack inosservati, per non farsi inseguire sulle coste orientali e compiere le loro operazioni senza venire disturbati.
Sentivano per istinto che li cercavano e che navi inglesi e del rajah dovevano scorrazzare quei paraggi. Chissà, forse avevano indovinato le loro intenzioni o peggio ancora, qualcuno poteva averli informati dei loro progetti.
Ed infatti, contrariamente alle loro abitudini, i due ex pirati apparivano assai preoccupati. Si vedevano passeggiare per delle ore intere sul ponte, colla fronte increspata, poi arrestarsi per interrogare, con una certa ansietà, l'orizzonte.
Specialmente di notte abbandonavano di rado la coperta, accontentandosi di riposare solo poche ore dopo il levar del sole.
– Sandokan – disse Tremal-Naik, quando già il Re del Mare aveva oltrepassata la seconda bocca del Sarawack di qualche dozzina di miglia. – Mi sembri molto inquieto.
– Sì – rispose la Tigre della Malesia. – Non te lo nascondo, mio caro amico.
– Temi qualche incontro?
– Io sono certo di essere seguito o preceduto, e un marinaio difficilmente s'inganna. Si direbbe che io senta odor di fumo e di fumo di carbon fossile.
– E da chi? Da squadre inglesi o da quelle del rajah?
– Di quelle del rajah non mi occupo troppo, perché l'unica nave che poteva misurarsi colla mia, ora giace sventrata in fondo al mare.
– Quella di sir Moreland?
– Sì, Tremal-Naik. Le altre che possiede il rajah sono vecchi incrociatori di ordine secondario, che non valgono assolutamente nulla come navi da battaglia. È la squadra di Labuan che mi preoccupa.
– Sarà forte?
– Molto forte no, numerosa di certo. Potrebbe prenderci nel mezzo e crearci molti fastidi, quantunque io ritenga il nostro incrociatore così poderoso d'aver ragione di essa. I migliori, l'Inghilterra se li tiene in Europa.
– Sono ben lontani da noi – disse Tremal-Naik.
– E chi mi assicura che non ne mandi alcuni a darci la caccia? Mi hanno detto che ve ne sono dei poderosi anche nell'India. Quando si apprenderà quali danni noi abbiamo recato alle loro linee di navigazione, gl'inglesi non esiteranno a lanciare su questi mari il meglio della loro squadra indiana.
– E allora? – chiese Tremal-Naik.
– Faremo quello che potremo – rispose Sandokan. – Se il carbone non ci mancherà la faremo correre e molto.
– È sempre il carbone il nostro punto nero.
– Dici il nostro lato debole, Tremal-Naik, perché a noi tutti i porti sono chiusi. Fortunatamente la marina inglese è la più numerosa del mondo e piroscafi ne troveremo sempre, dovessimo andarli a cercare perfino nei mari della Cina. Ah! Cala la nebbia! È una fortuna per noi, che stiamo per passare dinanzi alle coste del Sultanato.
– Quanto distiamo dal Sedang?
– Forse duecento miglia. Queste sono le acque più pericolose. Se questa notte non facciamo alcun incontro, domani troveremo la Marianna. Apriamo gli occhi, Tremal-Naik, ed aumentiamo la nostra velocità. Tanto peggio a chi tocca, se taglieremo qualche legno.
Pareva che la fortuna proteggesse le ultime Tigri di Mompracem, perché poco dopo il tramonto del sole una folta nebbia era cominciata a scendere sul golfo, in dense ondate.
Il Re del Mare aveva quindi maggiori probabilità di sfuggire alla caccia delle navi alleate, ammesso che si fossero realmente messe in moto per sorprenderlo.
Nondimeno Sandokan e Yanez avevano dati gli ordini per tenersi tutti pronti.
Qualche nemico poteva comparire, impegnare subito la lotta e colle sue cannonate attirare l'attenzione della squadra.
L'incrociatore, che aveva aumentata la sua velocità portandola a tredici miglia, muoveva rapido attraverso il nebbione che sempre più si addensava.
Sandokan, Yanez, Tremal-Naik e l'ingegnere americano erano tutti sul cassero, presso i timonieri, cercando, ma invano, di distinguere qualche cosa attraverso le ondate caliginose che il vento, di quando in quando, scompaginava.
Gli artiglieri erano dietro i loro mostruosi pezzi o accanto alle piccole artiglierie; i malesi ed i dayaki dietro le murate.
Tutti tacevano ed ascoltavano attentamente. Non si udivano che i rauchi muggiti del vapore ed il gorgoglìo prodotto dalle eliche e dallo sperone fendente le acque.
La seconda foce del Sarawack doveva essere stata oltrepassata di una cinquantina di miglia, quando tutto d'un tratto si udì echeggiare una sirena.
– Una nave esplora il mare e segnala la sua presenza ad altre – disse Yanez a Sandokan. – Sarà mercantile o da guerra?
– Suppongo che sia qualche avviso del rajah – rispose la Tigre della Malesia.
– Ci aspettavano?
– Fa' puntare verso levante.
– Vorrei però prima conoscere con quale avversario abbiamo da fare.
– Con questa nebbia non sarà cosa facile, Sandokan – disse Tremal-Naik.
– Quando potremo giungere alla foce del Sedang?
– Fra cinque o sei ore. Vedi nulla, Yanez?
– Null'altro che nebbia – rispose il portoghese.
– Non devieremo: tanto peggio per chi si caccierà sotto il nostro sperone.
Poi, accostandosi al tubo che comunicava colla sala della macchina, gridò con voce poderosa:
– Signor Horward! Avanti a tutto vapore, a tiraggio forzato!
Il Re del Mare continuava la sua corsa, aumentandola rapidamente.
Da tredici nodi era salita a quattordici all'ora, e non bastava ancora. L'ingegnere americano aveva comandato il tiraggio forzato per raggiungere possibilmente i quindici.
Era ben vero che il carbone se ne andava rapidamente, però ne avevano in quantità sufficiente per tenere il mare alcune settimane senza bisogno di provvedersi.
Erano già trascorse due ore, quando tutto d'un tratto la nebbia s'illuminò come se un gran fascio di luce l'attraversasse.
Luce lunare non doveva essere, perché assai più intensa e brillante e poi non ne aveva l'immobilità. Veniva dall'est e scorreva dal sud al nord, facendo scintillare vivamente le acque.
– Un fanale elettrico! – esclamò Yanez, trasalendo. – Ci si cerca.
– Sì, ci cercano – disse Tremal-Naik. – Che siano in molti?
Sandokan non aveva aperto bocca; la sua fronte però si era bruscamente aggrottata.
Trascorsero alcuni minuti ancora.
– Macchine indietro! – tuonò ad un tratto la Tigre della Malesia.
Il Re del Mare trasportato dal proprio slancio, s'avanzò per due o trecento metri, poi s'arrestò lasciandosi cullare dall'onda larga del golfo.
Una nave e forse non sola, si trovava dinanzi all'incrociatore ed esplorava il mare, proiettando dovunque fasci di luce.
– Che la squadra di Sarawack si sia accorta della nostra presenza? – chiese Tremal-Naik.
– Dobbiamo essere stati segnalati da qualche veliero, forse da qualche praho che è sfuggito alla nostra sorveglianza – disse Sandokan.
– Che cosa farai, Sandokan?
– Aspetteremo, per ora, poi passeremo, dovessi fracassare dieci navi a colpi di sperone. Il Re del Mare ha la prora a prova di scoglio e le macchine d'una solidità tale che non si sconquasseranno per l'urto.
Il fascio di luce continuava a scorrere lentamente dal nord al sud, tentando di forare la nebbia, fortunatamente sempre foltissima.
D'improvviso, un secondo ne apparve dal lato opposto, ossia verso la poppa dell'incrociatore, poi altri due al nord e uno al sud.
Una sorda imprecazione sfuggì dalle labbra del portoghese, il quale stava a guardia dei timonieri.
– Ci hanno ben circondati! Alla malora quegli squali! Fra poco qui farà caldo!
La Tigre della Malesia aveva seguito attentamente la direzione di quei diversi fasci di luce. La sua nave che occupava il centro, non poteva essere stata ancora scorta, però non poteva slanciarsi innanzi né retrocedere senza farsi scoprire.
Con un gesto chiamò Yanez e l'ingegnere americano.
– Si tratta di forzare il passo – disse. – Dinanzi, presumibilmente, non abbiamo che una sola nave. Il nostro carico è stato bene stivato?
– Assaliremo collo sperone? – chiese l'americano.
– Ne ho l'intenzione, signor Horward. Fate raddoppiare il personale delle macchine.
– Bene, comandante – rispose lo yankee. – I miei compatrioti non agirebbero diversamente in simile frangente.
– Sono tutti ai pezzi gli artiglieri?
– Sì – rispose Yanez.
– Avanti a tutto vapore! Passeremo a qualunque costo.
I fasci di luce elettrica continuavano ad incrociarsi in tutti i sensi e a poco a poco diventavano più luminosi.
Probabilmente i comandanti di quelle navi dovevano aver scorta l'ombra immensa del Re del Mare e si preparavano ad assalire, dirigendosi verso uno stesso punto.
Il momento stava per diventare terribile; tuttavia malesi, dayaki ed americani conservavano anche in quel supremo momento, una calma ammirabile.
– Tutti nelle batterie! – gridò Sandokan, entrando nella torretta di comando con Yanez e con Tremal-Naik.
Il Re del Mare balzò avanti. La sua velocità aumentava di momento in momento ed il fumo usciva turbinando dalle due ciminiere abbattendosi sui ponti in causa della nebbia.
Un fremito sonoro lo scuoteva tutto, mentre gli alberi delle eliche raddoppiavano i giri ed il vapore muggiva nelle caldaie.
L'incrociatore attraversò come un gigantesco proiettile la zona luminosa, ma appena rientrato nella nebbia oscura, altri fasci di luce lo raggiunsero, diventando rapidamente più luminosi.
Le navi nemiche si erano messe in caccia e cercavano di rinchiuderlo in un cerchio di ferro e di fuoco.
Sandokan non si sgomentava e lasciava che la sua nave corresse sempre verso l'est.
Alcune cannonate rimbombarono al largo e si udì in aria il rauco sibilo dei proiettili.
– Pronti pel fuoco di bordata!... – gridò Yanez. – Per Giove!... E le fanciulle?
– Sono al sicuro nel quadro – rispose Tremal-Naik.
– Manda qualcuno ad avvertirle che non si spaventino se succede un urto – disse Sandokan.
Delle ombre gigantesche si muovevano fra la nebbia che i riflettori elettrici rendevano sempre più luminosa.
La squadra nemica stava per piombare sull'incrociatore delle Tigri di Mompracem per tentare di sbarrargli il passo.
Ad un certo momento una massa nera comparve bruscamente dinanzi la prora, sulla dritta del Re del Mare, a meno di quattro gomene di distanza. Era impossibile arrestare lo slancio dell'incrociatore.
– Speronate! – gridò Sandokan con voce tuonante.
Il Re del Mare si precipitava sul legno nemico come un ariete.
Un rombo assordante, spaventevole, seguito da urla d'angoscia echeggiò fra la nebbia perdendosi lontan lontano sul mare.
Lo sperone dell'incrociatore era entrato tutto dentro la nave avversaria, producendole uno squarcio immenso...
Il Re del Mare s'arrestò un momento inclinandosi a prora, mentre degli scoppi accadevano sulla nave investita e colpita a morte da quella terribile speronata.
Le caldaie scoppiavano.
– Macchina indietro! – gridò l'ingegnere americano.
Si udirono a prora dei sordi scricchiolii, poi il Re del Mare con una brusca scossa liberò il suo sperone indietreggiando e virando a babordo. La nave sventrata calava a fondo a vista d'occhio, fra i clamori assordanti del suo equipaggio.
Il Re del Mare aveva ripresa la corsa, passando a poppa della nave sommergentesi, gettandosi nuovamente tra mezzo alla nebbia.
Altre ombre pure apparivano a babordo ed a tribordo. Le navi della squadra, approfittando di quel momento di sosta, avevano raggiunto il Re del Mare e gli proiettavano sul ponte fasci di luce.
– Fuoco accelerato! – comandò Yanez.
L'incrociatore s'infiamma come un vulcano in eruzione, con un rimbombo orrendo. I giganteschi pezzi delle torri hanno fatto fuoco quasi simultaneamente, facendo tremare la nave dalla chiglia alla punta degli alberi, scagliando sulle navi nemiche i loro grossi proiettili, poi i pezzi di medio calibro delle batterie hanno seguito l'esempio, tempestando i nemici.
Gl'inseguitori non parvero spaventarsi, quantunque quella tremenda scarica delle più grosse artiglierie moderne dovesse aver prodotto danni gravi e forse, per qualche piccolo e maldifeso legno, irrimediabili.
Da tutte le parti i lampi spesseggiano. I proiettili delle granate che si spaccano sulla solida blindatura della nave corsara, scoppiano sui ponti lanciando dovunque scheggie di metallo.
Colpiscono il tribordo ed il babordo, piombano a poppa ed a prora, scivolando sui ponti e rimbalzano sulle cime delle torri.
Il Re del Mare nondimeno non s'arresta, anzi risponde con una furia spaventevole, mandando palle a destra, a sinistra e dietro la poppa.
Una piccola nave, che fila con una velocità vertiginosa, emerge bruscamente fra la nebbia e con una pazza temerità corre addosso all'incrociatore.
È una grossa scialuppa a vapore che porta a prora una lunga asta, l'antica torpediniera Horward. L'ingegnere americano, che conosce quell'arme micidiale, manda un grido:
– Badate, cercano torpedinarci!
Sandokan e Yanez erano balzati fuori dalla torretta di comando. La scialuppa, che era illuminata dalle lampade elettriche delle altre navi, muoveva veloce verso il Re del Mare, cercando di raggiungerlo. Un uomo, il comandante, stava a prora, dietro l'asta.
– Sir Moreland! – gridarono ad una voce.
Era infatti l'anglo-indiano che cercava, con una pazza temerità, di torpedinare l'incrociatore.
– Arrestate quella scialuppa! – aveva gridato Sandokan.
– No, nessuno faccia fuoco! – urlò invece Yanez.
– Che cosa fai, fratellino? – chiese la Tigre della Malesia, stupita.
– Non uccidiamolo: Darma piangerebbe troppo. Lascia fare a me.
A tribordo vi erano parecchi pezzi di medio calibro. Yanez si appressò al più vicino che era stato già puntato sulla scialuppa, corresse rapidamente la mira, poi diede uno strappo al cordone tirafuoco.
La scialuppa non si trovava allora che a trecento metri, non riuscendo a guadagnare via sull'incrociatore.
Il proiettile la colpì con matematica precisione a poppa, asportandole ad un tempo il timone e l'elica e fermandola, per modo di dire, in piena volata.
– Buon viaggio, sir Moreland! – gli gridò il valente artigliere, con voce ironica.
L'anglo-indiano aveva fatto un gesto di minaccia, poi il vento portò fino agli orecchi delle Tigri di Mompracem queste parole:
– Fra poco incontrerete il figlio di Suyodhana!... V'aspetta nel golfo!...
L'incrociatore aveva allora oltrepassata la zona luminosa e si rituffava nella nebbia.
Scaricò un'ultima volta i suoi pezzi da caccia in direzione delle navi nemiche, che non potevano gareggiare colle sue macchine e sparve verso l'est, mentre i malesi ed i dayaki urlavano a squarciagola:
– Viva la Tigre della Malesia!...
IL DISASTRO DELLA MARIANNA
Ancora una volta, la formidabile nave delle Tigri di Mompracem, costruita da quegli impareggiabili ingegneri americani, aveva giustificato il suo titolo d'invincibile ed a prova di scoglio.
Non ostante l'urto tremendo sopportato da quel terribile colpo di sperone, le sue macchine e la sua prora avevano meravigliosamente resistito ed il suo blindaggio aveva sopportato, senza sfasciarsi, quel grandinar furioso di tante artiglierie.
Usciva dalla battaglia quasi incolume, poiché, salvo poche ammaccature di nessuna importanza, i suoi robusti fianchi potevano subire ben altre prove.
Tutto il danno si era limitato a quattro morti, quattro artiglieri mutilati dallo scoppio di una granata.
Il Re del Mare non aveva rallentata la sua marcia. Sandokan e Yanez, sapendosi ormai inseguiti e supponendo, non a torto, che gli alleati avessero indovinato lo scopo di quella crociera, volevano giungere alla foce del Sedang con un vantaggio di almeno ventiquattro ore, per proteggere la Marianna e possibilmente abboccarsi coi capi dayaki.
Essi erano certi di trovare la loro piccola nave nascosta fra le scogliere, in attesa del loro arrivo.
– Se il diavolo non ci mette la coda – disse Yanez a Tremal-Naik. – Quando la squadra degli alleati ci raggiungerà tutto sarà finito.
– Che non cessi di darci la caccia? – chiese l'indiano.
– Cercheranno di chiuderci fra il Sedang ed il Redjang per costringerci a gettarci verso la costa – rispose il portoghese. – Spero tuttavia che non giungeranno in tempo.
– Purché laggiù non incontriamo il figlio di Suyodhana. Hai udito quello che ci ha gridato sir Moreland?
– Sia pure, ma suppongo che quell'uomo non avrà certo una flotta sotto i suoi ordini.
– E se l'avesse armata? I thugs dovevano possedere dei tesori immensi che solo il figlio di Suyodhana avrà raccolti dopo la dispersione della setta.
– Sì, immensi, padrone – disse Kammamuri che si era in quel momento accostato. – Durante la mia prigionia nel sotterraneo di Rajmangal io ho veduto una caverna piena di barili colmi d'oro.
– Purché non siano rimasti sott'acqua – disse Yanez.
– Mi fu poi detto che possedeva ricchezze incalcolabili depositate presso le principali banche dell'India.
– Tu mi guasti la mia fumata, mio caro Kammamuri – disse Yanez. – Che il figlio della Tigre dell'India sia riuscito ad armare parecchie navi? Bah! – esclamò poi, alzando le spalle. – La nostra nave può ben tener testa a parecchie e daremo una lezione anche a quel signore. Veramente sarebbe ora che si mostrasse e ci facesse vedere se somiglia a suo padre.
– Che peccato che sir Moreland non ci abbia fornito qualche spiegazione sul nostro nemico – disse Tremal-Naik.
– Hum! – fece Yanez. – Io ho il sospetto che quell'anglo-indiano sia più ai servigi del figlio di Suyodhana che a quelli del rajah di Sarawack.
– Ragione di più per non risparmiarlo, signor Yanez – disse Kammamuri. – Dovevate lasciar tuonare tutte le artiglierie contro la scialuppa a vapore, invece di danneggiargliela solamente.
– Che cosa vuoi, mi rincresceva lasciar massacrare quel giovane valoroso, – rispose Yanez.
– Così piacevole e cortese – aggiunse Tremal-Naik. – Con noi si è mostrato un vero gentiluomo, quand'io e Darma eravamo suoi prigionieri, specialmente verso mia figlia.
– Fino dal primo istante?
– Veramente no – rispose l'indiano. – Nei primi giorni appariva estremamente freddo, anzi mi guardava sovente con un brutto sguardo che mi dava non poche preoccupazioni, poi a poco a poco cambiò.
– Ah! – fece Yanez sorridendo. Riaccese la sigaretta che gli si era spenta e s'avviò verso il cassero dove si erano in quel momento mostrate Surama e Darma.
– Non avrete già avuto paura, mie buone fanciulle – disse guardando specialmente la figlia dell'indiano con una certa malizia.
– Grazie, signor Yanez – gli sussurrò Darma, prendendogli la destra e stringendogliela fortemente.
– Che cosa sai tu?...
– Ho sentito tutto.
– Ti sarebbe assai spiaciuto se fosse stato ucciso, è vero, Darma?
– Sì – sospirò la fanciulla. – Amor fatale!...
– Bah, finita la guerra vedremo di scovarlo quel coraggioso giovane. Chissà!... Tutto potrebbe finire bene e fare di voi due felici, poiché me ne sono accorto che anche sir Moreland ti ama ardentemente.
– Eppure, sahib bianco – disse Surama – mi hanno detto che aveva tentato di far saltare la nostra nave.
– Danneggiarla gravemente forse e approfittare della confusione per rapirci Darma – disse Yanez. – Oh, non l'avrebbe certo lasciata annegare. Toh!... La nebbia si alza e vedo laggiù a diffondersi un poco di luce. È l'alba che sorge; vedremo se le navi degli alleati ci sono ancora alle spalle.
Infatti la nebbia, che aveva così opportunamente protette le Tigri di Mompracem, cominciava ad alzarsi, cacciata via dalla brezza mattutina. Quando tutti quei vapori scomparvero verso il nord, il mare apparve deserto.
La squadra degli alleati, che non poteva competere colle poderose macchine del Re del Mare, doveva essere rimasta molto indietro e fors'anche ritornata verso la foce del Sarawack.
Anche verso il nord l'orizzonte appariva sgombro, essendosi tenuto l'incrociatore molto lontano dalle coste bornesi, per non farsi scorgere da qualche nave costiera.
Non si vedevano altro che degli uccelli marini, assai numerosi in quei paraggi e che volteggiavano con una leggerezza ed una velocità veramente ammirabili.
Il Re del Mare continuò la sua corsa velocissima tutto il giorno volendo Sandokan non solo conservare il suo vantaggio, ma aumentarlo, onde avere il tempo necessario per trovare la Marianna.
Prima del tramonto l'incrociatore navigava già nelle acque che bagnano la costa del Sedang.
– Possiamo considerarci, almeno per ora, fuori di pericolo – disse Yanez a Horward il quale, assieme a Darma, contemplava il tramonto del sole.
– Sì, però fra giorni, anzi forse fra quarantotto ore, saremo costretti a ricominciare la musica – rispose l'americano.
– Le navi degli alleati non ci lascieranno tranquilli.
– Ah!... che superbo tramonto!... – esclamò in quel momento Darma.
– Quelli che si ammirano in questi mari sono infatti i più splendidi – disse Yanez. – Hanno delle tinte che non si vedono in altri luoghi. Se state attenti vedrete il famoso raggio verde.
– Un raggio verde! – esclamarono l'americano e Darma.
– È splendido, mia piccola Darma: è un fenomeno meraviglioso che si può ammirare solamente nei mari della Malesia e nell'Oceano Indiano. Il cielo è purissimo, quindi anche tu lo vedrai. Aspetta solamente che l'orlo superiore del sole stia per scomparire.
– Possibile che da tutto quel fulgore infuocato possa sprigionarsi un raggio d'un tal colore! – esclamò.
– Sono certo di non ingannarmi: state attenti.
Il sole tramontava in un oceano di luce, le cui tinte a poco a poco variavano certo in causa dello stato più o meno igrometrico dell'atmosfera e della distanza dell'astro dallo zenith.
Mentre stava, per modo di dire, per affondare nell'oceano, pel cielo si diffondeva una luce rosso-giallognola la quale prendeva rapidamente una tinta quasi violacea che si perdeva insensibilmente in un fondo azzurro-grigiastro. Il margine superiore del disco stava per sparire, quando apparve improvvisamente un raggio assolutamente verde, d'una bellezza tale da strappare all'americano ed a Darma un grido d'ammirazione.
Si proiettò per qualche istante sulle acque, poi scomparve di colpo, mentre l'ultimo lembo dell'astro diurno si celava dietro l'orizzonte.
– Splendido! – aveva esclamato Horward.
– Superbo! – aveva detto Darma. – Non avevo mai veduto un raggio d'un tal colore!...
– Perché non hai percorso che di rado questi mari – rispose Yanez.
– E non si può vederlo in altri luoghi? – chiese Kammamuri che si era unito a loro.
– È difficilissimo, perché occorrono eccezionali condizioni di limpidezza ed una grande purezza d'orizzonte e solamente in queste regioni si possono avere con maggior frequenza tali condizioni. Ecco la campana che ci chiama a cena. Approfittiamone finché nessun pericolo ci minaccia – disse Yanez, offrendo il braccio alla giovane anglo-indiana.
Due ore dopo il tramonto, il Re del Mare, che non aveva diminuita la sua velocità, si trovava di fronte alla foce del Sedang, ad una distanza di qualche mezza dozzina di miglia.
– Che la Marianna sia nascosta entro il fiume? – chiese Kammamuri a Yanez che esplorava la costa con un cannocchiale.
– Il suo comandante non sarà stato così sciocco. Deve essersi celato in mezzo alle scogliere di levante, che formano parecchi canali. Avanzeremo lentamente in quella direzione.
La nave, che aveva moderata la sua velocità, fece una punta fino a breve distanza dalle foci del fiume, poi si diresse verso l'est, dove si scorgevano lunghe file di scogliere.
Già si trovava a poca distanza dalle prime roccie che emergevano come minuscoli isolotti, quando si udirono rombare in lontananza alcune deboli detonazioni.
Sandokan, prontamente avvertito da Kammamuri, si era affrettato a salire in coperta assieme a Tremal-Naik ed a Horward.
Esaminato attentamente l'orizzonte in tutte le direzioni, nessuna nave, né a vela, né a vapore, apparve in vista. Eppure quegli spari, tre, se gli uomini di guardia non si erano ingannati, erano stati uditi da tutti. Una viva inquietudine si era dipinta sul viso di Sandokan.
– Che qualche nave abbia sorpresa la mia vecchia Marianna e l'abbia cannoneggiata? – si chiese. – Da quale parte venivano quegli spari?
– Da occidente – disse Yanez, che era di guardia.
– Non hai veduto prima, in quella direzione, alcuna colonna di fumo?
– Niente; l'orizzonte era purissimo.
– Quelle detonazioni erano deboli?
– Debolissime.
– Quelle cannonate devono quindi essere state sparate ad una grande distanza – disse Horward.
– Sì, considerato che il vento soffia appunto dall'est.
– Sandokan – disse Tremal-Naik, la cui fronte si era oscurata. – Cerchiamo subito la Marianna.
– È quello che faremo – rispose la Tigre della Malesia. – Se non la troveremo dietro a quelle scogliere, torneremo verso il Sedang.
«Manda Kammamuri con dei gabbieri sulle coffe e con dei buoni cannocchiali onde esplorino attentamente l'orizzonte.»
Il Re del Mare aveva continuata la sua corsa verso l'est, seguendo la costa ad una distanza di un paio di miglia, per non urtare contro qualche banco di sabbia; tuttavia nessuna nave appariva in vista.
Una profonda ansietà aveva invaso l'equipaggio e sopratutto Sandokan e Yanez. L'assenza del loro praho, che doveva trovarsi in quei paraggi già da parecchi giorni e forse da qualche settimana, inquietava assai tutti, temendo che fosse stato scoperto da qualche nave nemica ed affondato.
Sambigliong era furioso più di tutti, e girava e rigirava fra le torricelle dei grossi cannoni, promettendosi di fracassare l'audace che aveva osato di abbordare la vecchia Marianna.
La corsa del Re del Mare durò un'ora, senza che i gabbieri avessero potuto scoprire in alcuna direzione il veliero, poi ad un comando di Sandokan l'incrociatore virò di bordo, accostandosi ad una barriera d'altissime scogliere che formavano un braccio di mare fra esse e la costa.
Ormai tutti erano convinti che una disgrazia fosse toccata alla povera nave.
– Attivate i fuochi! – aveva comandato Sandokan. – Se giungiamo in tempo, faremo pagar caro agl'inglesi questo colpo di mano!...
– Che ci raggiunga la squadra degli alleati?... – chiese Tremal-Naik a Yanez.
– Dobbiamo avere un vantaggio d'una dozzina d'ore almeno – rispose il portoghese. – Giungerà troppo tardi.
La nave filava come una rondine marina, a tiraggio forzato. Tonnellate di carbone venivano precipitate nei forni, sprigionando un calore così intenso che macchinisti e fuochisti penavano a sopportare.
La notte, chiarissima, essendo sorta la luna poco dopo le undici, permetteva di discernere sull'argentea superficie del golfo qualsiasi punto nero, i gabbieri però, ad ogni domanda che veniva loro indirizzata rispondevano sempre negativamente.
Nulla, sempre nulla!... Nessun punto nero sull'orizzonte!...
– Che quei colpi di cannone abbiano segnata l'agonia della Marianna? – si chiedevano tutti, con crescente ansietà.
Alla mezzanotte le coste orientali di Sedang cominciarono a delinearsi, nerissime per la massa imponente delle loro foreste secolari.
Ad un tratto, quando il Re del Mare aveva già imboccato il canale che s'apriva dietro le scogliere, una voce risuonò sulla piattaforma del trinchetto.
– Fumo dinanzi a noi!...
Yanez aveva puntato un cannocchiale nella direzione indicata.
Un grosso punto nero, che emetteva una fitta colonna di fumo, filava fra la costa e le scogliere, fuggendo verso levante.
– Una nave a vapore! – gridò il portoghese. – Duemila metri!... Buon tiro per dei valenti artiglieri!
– Fermiamola!... Cento rupie a chi la tocca!...
Non aveva ancora terminata la frase che il vecchio quartier-mastro americano, che aveva già guadagnati i duecento dollari, era dietro al suo pezzo, sotto la torretta proviera di babordo.
Vedeva perfettamente la nave che cercava di fuggire. La luna la illuminava in pieno.
La distanza era ragguardevole, però il vecchio cannoniere aveva fiducia nei suoi occhi e nel suo pezzo.
– Ora li accomodo io! – disse. – Le cento rupie balleranno nelle mie tasche in attesa di comperare una montagna di tabacco ed un barile di ginepro.
Attese che la nave passasse attraverso la prora dell'incrociatore e fece fuoco rapidamente.
Aveva colpito nel segno, causando all'avversario qualche grave danno o l'aveva mancato? Gli fu impossibile saperlo, perché quasi nell'istesso momento la nave scompariva dietro un ostacolo, che la distanza non aveva permesso prima di distinguere, un isolotto o qualche scogliera.
Il Re del Mare si era messo in caccia, rallentando però la corsa, perché da un momento all'altro poteva trovarsi dinanzi a uno dei tanti numerosi banchi sabbiosi che si estendono dinanzi alle foci del Sedang.
Giunto ad un chilometro dalle spiaggie, Sandokan aveva dato il comando di scandagliare.
Non conosceva che imperfettamente quei paraggi e non osava avanzarsi alla cieca, per paura di arenare l'incrociatore.
La nave però, contro la quale l'incrociatore aveva fatto fuoco, pareva che fosse scomparsa. Certo aveva approfittato delle scogliere che si vedevano numerose verso il nord, per cacciarsi in qualche canale e dileguarsi o cercare un rifugio entro qualche piccola baia.
Il Re del Mare, nella sua seconda corsa, doveva essere rimontato molto verso il levante del Sedang, quindi Yanez e Sandokan presero il partito d'abbandonare il fuggiasco, che doveva essere troppo debole per osare di contrastargli il passo, e di tornare verso ponente per cercare la Marianna.
Era sorto in loro il dubbio che il praho, per potersi sottrarre all'inseguimento, avesse cercato pure qualche nascondiglio o si fosse gettato alla costa.
Marciava da un quarto d'ora, a velocità ridotta, continuando a perlustrare, quando presso un gruppo di scogliere apparve una massa nerastra fornita d'un'alberatura altissima, dove si vedevano delle vele ancora spiegate.
– Nave alla costa! – gridarono in quel momento le vedette delle coffe.
– Deve essere la nostra Marianna! – gridò Yanez. – Finalmente!...
Il Re del Mare aveva subito virato di bordo, avanzandosi lentamente verso quelle scogliere.
Tutti si erano precipitati verso prora per meglio osservare quella nave, la cui immobilità però dava luogo a non poche inquietudini, tanto più che pareva si trovasse addossata alle roccie.
Un fanale elettrico era stato subito volto verso di essa, illuminandola come in pieno giorno, eppure, cosa strana, pareva che nessuna persona si trovasse in coperta.
– Accendete tre razzi – comandò Yanez. – Se a bordo vi sono degli uomini risponderanno di certo.
– Che sia proprio la Marianna? – chiese Tremal-Naik, il quale condivideva le apprensioni dei due comandanti.
– Non te lo posso ancora dire – rispose il portoghese. – Quantunque le vele siano d'un grosso praho o per lo meno d'un giong.
– Mi nasce un dubbio.
– Che quella nave, per sfuggire alle cannonate dell'inglese si sia gettata addosso a quelle scogliere, arenandosi? È così, Tremal-Naik?
– Sì.
– E temo che tu abbia indovinato.
– E l'equipaggio? Non si vede nessuno?
– E nessuno risponde – disse Sandokan che si era accostato, mentre tre razzi lanciati da Kammamuri e da Sambigliong si spegnevano dopo di aver sparso in aria un nembo di scintille multicolori.
– Allora gli inglesi hanno fatto prigioniero l'equipaggio – disse Tremal-Naik.
– E noi andremo a liberarli, dovessi inseguire quella nave fino entro il Sedang. Fa' calare in acqua una scialuppa e andiamo a vedere se si tratta veramente della Marianna.
L'incrociatore aveva rallentata la marcia, sempre per tema di trovarsi improvvisamente dinanzi a dei bassifondi. Gli scandagli avevano già dati solamente dodici metri e pareva che il fondo si elevasse rapidamente.
La gran barca a vapore fu calata e Sandokan, Yanez e Tremal-Naik, con venti malesi armati, vi entrarono, dirigendosi verso la scogliera.
Il Re del Mare aveva virato di bordo tornando un po' al largo essendo l'ondata piuttosto forte.
La scogliera non distava che cinque o seicento metri. Era una lunga fila di roccie, di colore molto oscuro, tagliate a mo' di sega, coi fianchi sventrati e corrosi dall'eterna azione delle onde.
La nave si era arenata verso la punta settentrionale e nell'urto, che doveva essere stato violentissimo, si era piegata su un fianco, appoggiandosi colle bancazze ad una roccia elevata quanto l'alberatura.
Temendo una sorpresa, Sandokan comandò a dieci uomini di armare i fucili, poi spinse la scialuppa contro una caletta formata da una cintura di scogli, dove l'acqua era tranquilla.
Lasciati sei marinai a guardia dell'imbarcazione, cogli altri raggiunse la nave.
– La Marianna! – gridò ad un tratto, con accento di dolore.
Il disgraziato veliero, od in causa d'una falsa manovra, o spintovi appositamente, si era sventrato sulle punte delle scogliere in così malo modo, da ritenerlo per sempre perduto.
Le roccie assai aguzze, gli avevano fracassata la carena, causandole uno squarcio così enorme, che le onde entravano liberamente nella stiva, rumoreggiando continuamente.
– In che stato è ridotto quel povero legno! – esclamò Yanez, che pareva non meno commosso della Tigre della Malesia. – Che l'abbiano costretto a gettarsi su queste scogliere? Ed il suo equipaggio?
– Vi è una scala di corda a babordo – disse Tremal-Naik. – Saliamo.
– Preparate le armi – comandò Sandokan. – Vi possono essere degl'inglesi a bordo.
– Pronti! – disse Yanez.
Salì pel primo, quindi Sandokan, poi gli altri, tenendo in mano i fucili e le pistole.
Un silenzio di morte regnava sulla nave, ma che disordine sulla tolda!... Si vedevano casse e barili sventrati per ogni dove, fucili e spingarde rovesciate, poi a prora un buco enorme che pareva fosse stato prodotto da qualche granata.
Il boccaporto maestro era aperto e giù, nella profondità della stiva, si udiva l'acqua muggire cupamente.
– Non vi è nessuno qui – disse Yanez.
– Che cosa sarà successo dei miei uomini? – si chiese con ansietà Sandokan. – E del carico che aveva la nave? Mi pare che la stiva sia stata vuotata.
In quell'istante sulla cima dello scoglio, contro cui s'appoggiava la Marianna, si udì una voce gridare:
– Il capitano!...
Sandokan e Yanez avevano alzata vivamente la testa, mentre i malesi, per precauzione, armavano rapidamente le carabine.
Un uomo dalla pelle oscura e seminudo, scendeva rapidamente la roccia, tenendo in mano un parang, la cui larga lama scintillava vivamente ai raggi della luna.
In pochi istanti raggiunse la murata di babordo e balzò in coperta, dicendo:
– Vi aspettavo, capitano.
– Tu, Sakkadana! – esclamarono ad una voce Yanez e Tremal-Naik, riconoscendo in lui il pilota della Marianna.
– Che cosa è successo qui? – chiese Sandokan.
– Siamo stati sorpresi ieri sera da una nave a vapore, che ci ha costretti a gettarci su queste scogliere, avendoci prodotto due squarci sotto la linea di galleggiamento. È fuggita vedendo giungere il vostro incrociatore.
– Ha saccheggiato la Marianna il suo equipaggio?
– Sì, Tigre della Malesia. Ha portato via armi e munizioni.
– Ed i tuoi compagni dove sono?...
– Hanno guadagnato il Sedang.
– E tu sei rimasto?
– Non vi era più posto nella scialuppa, essendo stata l'altra spaccata da una palla di cannone.
– Non vi siete abboccati coi capi dayaki?
– Sì – rispose il pilota. – Otto giorni or sono, ma nulla abbiamo potuto concludere. Il rajah, sospettando di loro, ne ha fatto imprigionare per precauzione una buona parte ed altri li ha esiliati lontani dalle frontiere.
– Maledizione! – esclamò Yanez. – Ecco una notizia che non m'aspettavo. Addio speranze!...
– Forse abbiamo tardato troppo – disse Sandokan. – Il rajah ci ha prevenuti.
– Che cosa faremo ora, Sandokan?
– Non ci rimane che lottare sul mare – rispose la Tigre della Malesia. – Ritorneremo verso il nord, giacché il grosso degli alleati si trova nelle acque di Sarawack e riprenderemo la guerra contro le navi mercantili, arrecando alle linee di navigazione il maggior danno possibile. Se sarà necessario ci spingeremo fino sui mari della Cina. A bordo, amici!... Non perdiamo tempo.
Stavano per ridiscendere nella scialuppa, quando udirono un colpo di cannone rimbombare a bordo del Re del Mare.
Sandokan aveva trasalito.
– Che segnali la flotta degli alleati? – si chiese.
– Lo suppongo – rispose Yanez. – Vedo che si muove e che punta la prora verso di noi.
– Guardate! – gridò Tremal-Naik.
Verso l'ovest una luce vivissima illuminava l'orizzonte che poco prima era ancora tenebroso.
La flotta degli alleati, composta d'una mezza dozzina di navi, muoveva velocemente per impedire all'incrociatore di prendere il largo.
– Presto, a bordo! – gridò la Tigre della Malesia.
Si lasciarono scivolare l'un dietro l'altro giù per la fune e la scialuppa mosse velocemente verso il Re del Mare, che dal canto suo le muoveva incontro.
Le navi nemiche, quantunque fossero ancora lontane, avevano aperto il fuoco e le cannonate si succedevano alle cannonate e qualche proiettile s'inabissava a poche dozzine di metri dalla imbarcazione. Fra qualche minuto quelle masse metalliche dovevano giungere a destinazione.
Il Re del Mare era però ormai a poche gomene. Manovrò in modo da coprire la scialuppa dai tiri delle artiglierie avversarie, opponendo ai proiettili i suoi poderosi fianchi, poi la scala fu abbassata d'un colpo solo.
L'ingegnere Horward, Darma e Surama con Kammamuri erano usciti dalla torretta di poppa, gridando:
– Presto!... Presto!... Salite!...
Alcuni marinai avevano già calati i paranchi per issare la scialuppa.
Yanez, Sandokan, Tremal-Naik ed i loro compagni si slanciarono sulla scala, dopo d'aver assicurati i ganci.
– Finalmente! – esclamò l'americano. – Credevo che non arrivaste in tempo.
– A posto gli artiglieri! – gridò Sandokan. – Doppi timonieri alla ruota!...
– Avremo da fare per sbarazzarci della squadra; però siamo forti e veloci – disse Yanez.
IL «DEMONIO DELLA GUERRA»
Il Re del Mare, imbarcata rapidamente la scialuppa, aveva subito virato di bordo lanciandosi verso il nord, onde non impegnarsi fra le scogliere che si prolungavano verso occidente.
La squadra degli alleati accorreva a tutto vapore, sperando di tagliargli il passo e forzava le macchine per giungere in tempo.
Nessuna però di quelle navi, tutte di tipo antiquato, logorate nelle stazioni d'oltre mare, poteva competere col velocissimo incrociatore, il quale marciava già a tiraggio forzato, né poteva competere colle sue formidabili artiglierie, che erano le più moderne di quell'epoca.
I proiettili cadevano fitti sul ponte dell'incrociatore e battevano anche furiosamente i suoi fianchi e le granate scoppiavano in buon numero sulle torrette con un fracasso assordante ed alzando lunghe fiammate, senza però riuscire a spaccare le lastre metalliche.
La nave delle Tigri di Mompracem rispondeva con pari energia. I suoi grossi pezzi da caccia tuonavano senza posa, danneggiando gravemente gli avversari, troppo deboli per misurarsi con lui.
Yanez, colla eterna sigaretta in bocca, e Sandokan assistevano tranquillamente a quell'orribile spettacolo, senza che un muscolo del loro viso trasalisse. Solamente quando qualche proiettile colpiva in pieno le navi avversarie, manifestavano la loro compiacenza con una fumata più vigorosa il primo e con una semplice mossa del capo il secondo.
A bordo il rimbombo era assordante, spaventevole.
Getti di fuoco scattavano dalle feritoie delle torricelle e dai sabordi delle batterie e nembi di fumo avvolgevano i fianchi della poderosa nave.
Il Re del Mare fuggiva rapidissimo, sottraendosi al minaccioso accerchiamento della squadra, lasciandosi dietro turbini di fumo e di scintille. Passò come un proiettile fra due navi che cercavano di stringerlo, scaricando addosso a loro due tremende bordate e proteggendosi con due pezzi di poppa.
La squadra degli alleati, impotente a dargli una caccia vigorosa per deficienza di velocità, rimaneva indietro, non ostante marciasse pure a tiraggio forzato.
Le sue palle non giungevano più sul ponte dell'incrociatore.
Già le Tigri di Mompracem si credevano oramai salve, quando dietro un'altra scogliera videro uscire a tutto vapore quattro superbi incrociatori, grossi quanto il Re del Mare.
– Saccaroa! – esclamò Sandokan. – Da dove sono sorte quelle navi, Yanez?...
Fa' mettere la prora al nord!
I quattro incrociatori s'erano slanciati sulla via del Re del Mare, ma disgraziatamente eran comparsi troppo tardi per prendere parte attiva al combattimento.
– Un momento prima e non so come ce la saremmo cavata – disse Yanez, che li osservava attraverso la feritoia di comando.
– Ma ora, signor Yanez, ci rimarranno sempre a poppa – disse l'ingegnere americano che li osservava attentamente. – Forse per armamento potranno competere con noi; non certo per forza di macchine. Guardate: guadagniamo visibilmente via e fra sei ore non li vedremo più.
– E di chi saranno quelle belle navi? – chiese Tremal-Naik.
– Non vedo alcuna bandiera ondeggiare sulle loro alberature.
– Suppongo che siano inglesi – rispose Yanez. – Apparterranno forse alla squadra anglo-indiana. Prima, a Labuan, non si vedevano navi così moderne.
– E pare che non ci vogliano lasciare così facilmente – disse Sandokan, che era rientrato in quel momento nella torre. – Fortunatamente siamo fuori di portata ormai dalle loro artiglierie. Aspetteremo la notte per fare falsa rotta e piegare verso occidente. Risaliremo dalle coste di Labuan.
– Che credano che noi cerchiamo di tentare un colpo di testa su quell'isola? – chiese Yanez.
– O su Mompracem – rispose Sandokan. – Peccato di dover consumare tanto carbone per mantenere una simile velocità.
– Ne abbiamo ancora abbastanza da farli correre e poi ci riforniremo più tardi a spese dei piroscafi mercantili.
Il Re del Mare continuava intanto la sua corsa rapidissima a tiraggio forzato. La squadra degli alleati, che aveva tentato di circondarlo presso la scogliera, era ormai quasi fuori di vista, mentre i quattro incrociatori, pur perdendo via, continuavano vigorosamente la caccia.
Dovevano possedere nondimeno anche essi delle macchine poderose, poiché, quando l'alba sorse, il Re del Mare non era riuscito a guadagnare che un miglio e divorando immense quantità di carbone. Avendo però quattro miglia di vantaggio fino da prima, si teneva benissimo fuori di portata delle artiglierie che in quell'epoca non potevano tirare a simile distanza.
A mezzodì la caccia non era cessata, ma un altro miglio era stato raggiunto.
Yanez, che non aveva lasciato un solo istante la coperta, stava per scendere nella sala da pranzo, quando fu avvicinato da Darma.
La fanciulla appariva imbarazzata e molto triste.
– Signor Yanez – disse fermandolo. – L'avete veduto?...
– Chi? – chiese il portoghese, quantunque avesse compreso che cosa desiderava sapere.
– Sir Moreland.
– No, Darma. Non l'ho scorto su nessun ponte di comando della squadra degli alleati.
La fanciulla era diventata pallida.
– Che sia morto? – chiese poi.
– Lui?... E perché?... Non si è misurato con noi e quando io gli ho danneggiata la sua scialuppa a vapore era vivo quanto me.
– Che sia su una di quelle quattro navi?
– Non l'ho veduto nemmeno su quelle, Darma. Ho osservato attentamente i ponti col cannocchiale, senza scorgerlo.
– Eppure il mio cuore mi dice che egli deve essere su uno di quegli incrociatori.
Yanez sorrise senza rispondere, e offertole il braccio, la condusse nella sala da pranzo.
Alla sera i quattro incrociatori erano ancora in vista, ad una distanza di dodici miglia. I loro camini vomitavano torrenti di fumo tuttavia perdevano continuamente strada.
A mezzanotte, il Re del Mare, che non aveva accesi i suoi fanali, virava bruscamente di bordo dirigendosi verso ponente, in direzione del capo Tonjong-Datu per gettarsi nel mar della Sonda.
Il bisogno di rifornirsi di carbone s'imponeva e, privi come erano di porti amici, senza più l'aiuto della Marianna, non avevano altra speranza che di prenderne alle navi inglesi, le quali non dovevano certamente avere interrotto i loro viaggi.
Sandokan, dopo essersi assicurato che gl'incrociatori non erano più visibili, aveva ordinato di ridurre la velocità dell'incrociatore onde economizzare il combustibile, non sapendo quando avrebbe potuto rinnovare le sue provviste di già nuovamente molto scarse.
Avvistato due giorni dopo il capo Tonjong-Datu, il Re del Mare aveva proseguita la corsa verso il nord-ovest, sperando di sorprendere in quella direzione qualche nave proveniente da Singapore o dai porti di Giava o di Sumatra, tuttavia nei primi giorni che si seguirono nessun fumo fu segnalato all'orizzonte.
Certo, la voce che un corsaro batteva quei paraggi si era sparsa su tutte le isole della Sonda ed i piroscafi inglesi non avevano osato abbandonare i loro ancoraggi ed attendevano che la squadra di Labuan lo catturasse o lo affondasse.
Sandokan e Yanez, quantunque molto preoccupati, dipendendo dall'abbondanza del carbone la loro salvezza, non erano però uomini da disperarsi.
Potevano ancora percorrere, a velocità ridotta, tre o quattrocento miglia e spingersi quindi fino nei mari della Cina meridionale e, se lo avessero desiderato, tentare ancora qualche buon colpo.
Non avevano però, almeno pel momento, alcun desiderio di allontanarsi troppo dalle coste del Borneo. Forse anche la flotta inglese dell'Estremo Oriente doveva già essersi messa in moto per catturarli e non desideravano affrontarla con una così scarsa dotazione di carbone.
– Aspettiamo – aveva detto Sandokan a Tremal-Naik che lo interrogava sui suoi progetti. – Non ci conviene pel momento lasciare questi paraggi ed oltrepassare le isole Natuna e Bunguran. So bene che lassù le navi da predare non mi mancherebbero, se lo volessi; però anche qui il lavoro non ci mancherà.
– Che cosa aspetti qui? Si direbbe che tu attenda qualche cosa!
– Infatti, aspetto – rispose Sandokan con un sorriso misterioso. – Desidero raccogliere, ad un tempo i due piccioni ed anche la fava.
– Sono già quattro giorni che abbiamo lasciato le acque di Sarawack.
– Il tempo per noi non ha valore. Aspettiamo dunque.
– E quegl'incrociatori che continuano l'inseguimento?
– Certo – rispose Sandokan. – Ma dietro a chi? Io sono ormai convinto di averli ingannati e dubito molto di ritrovarli per ora sulla mia via.
Per quarantotto ore il Re del Mare continuò a navigare verso il nord-ovest, spingendosi assai lontano dalle coste bornesi, poi, avendo nuovamente avvistate le isole Natuna e Banguran, ripiegò verso levante, desiderando i due comandanti fare una punta a Bruni, la capitale del Sultanato del Borneo, sapendo che era di quando in quando frequentata da piroscafi inglesi.
Non dovevano ingannarsi. Avevano lasciate le isole da una quindicina di ore, quando una grossa nave si profilò sull'orizzonte limpidissimo. Era uno steamer a due ciminiere e tambure, che filava in direzione di Bruni, forse per far scalo colà prima di risalire verso i mari della Cina.
La bandiera rossa che si vedeva ondeggiare a poppa, aveva confermato le speranze di Yanez e di Sandokan, i quali pareva che fiutassero da lontano le navi avversarie.
Lo steamer, accortosi della presenza dell'incrociatore e anche dei suoi colori, dapprima aveva continuata la sua corsa verso il nord-est, poi aveva bruscamente virato di bordo lanciandosi verso levante, onde cercare un rifugio in qualche baia del Borneo.
Il suo comandante, prima della sua partenza dai porti dell'India, doveva aver ricevuto avviso della presenza d'un corsaro malese nelle acque dei mari della Sonda e si era subito dato alla fuga, non potendo impegnare la lotta.
Il Re del Mare però, quantunque lo steamer corresse velocissimo e vomitasse torrenti di fumo dalle sue due ciminiere, segno certo che forzava le sue macchine, con un'abilissima manovra lo raggiunse, sparando dapprima una cannonata a polvere, poi a palla, per fargli meglio comprendere che era risoluto ad affrontarlo.
Vedendo che non obbediva, e che anzi aumentava la velocità, con una seconda cannonata tirata da uno dei suoi pezzi da caccia gli sconquassò il cassero.
Un momento dopo la bandiera bianca s'alzava sulle cime del trinchetto, mentre la velocità scemava.
– Ha del fegato quel comandante – disse Yanez, mentre si mettevano in acqua le scialuppe. – Disgraziatamente non possiamo essere generosi e quel superbo piroscafo andrà a raggiungere gli altri in fondo al mare della Malesia.
Discese nella lancia a vapore e si diresse verso lo steamer seguito da cinque scialuppe montate da settanta uomini, fra malesi e dayaki.
Il piroscafo si era arrestato a dieci gomene dal Re del Mare. Era una magnifica nave, montata da numerosi passeggieri, i quali, muti, atterriti, aspettavano ansiosamente l'abbordaggio dei corsari. Il comandante, attorniato dai suoi ufficiali, non aveva abbandonato il ponte.
Yanez fu il primo a salire a bordo. Attraversò la folla e si fece sotto il ponte di comando, dicendo al capitano dello steamer che non si era mosso per incontrarlo:
– Non siete troppo cortese, signore, verso un uomo che avrebbe potuto cannoneggiarvi.
– Fatelo, se cosi vi piace – rispose freddamente il comandante. – Io non mi oppongo. Pensate però che a bordo della mia nave vi sono cinquecento e più donne, molti fanciulli e molti uomini che non sono inglesi.
– Avete scialuppe sufficienti per contenerli tutti, compreso l'equipaggio?
– Sì.
– La costa bornese non è lontana ed il mare per ora non ha alcuna intenzione di guastarsi. Fate imbarcare tutti e andatevene, perché il piroscafo non appartiene ora che a me.
– I miei marinai ed i passeggieri sono liberi di abbandonare la nave, io resterò qui, qualunque cosa debba accadere – disse l'inglese. – Io non cedo ai pirati di Mompracem.
– Ah!... Sapete chi noi siamo? Bravissimo: vi affonderemo colla vostra nave.
– Voi l'affonderete?...
– Ci appartiene per diritto di guerra e, non avendo alcun interesse per conservarla, la offriremo ai pesci. Signore, vi accordo due ore e aspetto coll'orologio alla mano.
– Vi ripeto che io non lascierò la nave – rispose l'inglese con ostinazione. – Desidero affondare insieme ad essa.
– Se non vi strapperemo colla forza dal ponte di comando – rispose Yanez, impazientito.
Il portoghese stava per ritornare verso i suoi uomini che aiutavano i marinai del piroscafo a mettere in acqua le scialuppe, quando si vide venire incontro un uomo piccolo, tozzo, col mento accuratamente rasato e che celava gli occhi sotto due occhiali affumicati.
– Comandante – gli disse lo sconosciuto, levandosi vivacemente il cappello e sbottonandosi una larga zimarra di panno oscuro che pareva non gli desse alcun fastidio, nonostante il caldo intenso. – Voi siete uno di quei famosi pirati della Malesia?
– Uno dei capi – rispose Yanez, guardando con curiosità quell'omiciattolo panciuto e paffuto.
– Allora mi prenderete con voi, perché io stavo appunto cercando una nave che mi sbarcasse a Mompracem.
– Noi non andiamo in quell'isola, che d'altronde non è più in nostro possesso e non imbarchiamo altro che uomini di mare e di guerra.
– Io volevo venire con voi per combattere gl'inglesi, signore. Io conosco tutte le vostre meravigliose imprese.
– Voi! – esclamò Yanez, con accento beffardo.
– Voi non sapete chi io sono.
– No di certo.
– Il «Demonio della guerra», o meglio, se vi piace, il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, infine un uomo che potrà causare danni immensi agl'inglesi. Ecco perché, signore, voi non rifiuterete d'imbarcarmi sulla vostra nave assieme ai miei bagagli. Vi renderò dei preziosi servigi, tali da far stupire e anche tremare il mondo!...
LE ULTIME CROCIERE
Yanez aveva ascoltato pazientemente, guardando con curiosità, non esente da una certa ironia, quel piccolo uomo che promettevasi quasi di sconvolgere il mondo, chiedendosi se aveva dinanzi qualche formidabile invenzione od un pazzo.
Lo sconosciuto, vedendo che il portoghese non si decideva a rispondere ed indovinando di certo i pensieri che gli passavano pel capo, disse:
– Voi credete che il dottor Paddy O'Brien abbia il cervello esaltato, è vero, signore? O per lo meno che abbia voglia di scherzare? Ebbene, no, comandante, perché io sono riuscito a fare una scoperta prodigiosa, che otterrà dei risultati terribili.
– Continuate – disse flemmaticamente Yanez, che cominciava a divertirsi.
– Sapete che si è ora trovato il mezzo di accendere le lampade elettriche senza bisogno di filo? A Chicago, nel mio stabilimento elettrico, ho fatto degli esperimenti straordinari e a delle distanze di quattromila metri.
– Poco interessanti per me quelle esperienze, mio caro signor Paddy O'Brien. A noi bastano i nostri cannoni per demolire i nostri avversari.
– E che cosa fareste, se io vi dicessi che ho anche trovato il mezzo di accendere a delle distanze notevoli dei barili di polvere?
– Ah!... – fece Yanez, levandosi da una tasca una sigaretta ed accendendola. – Una scoperta davvero stupefacente, mirabile.
– Che vi sembra inverosimile, è vero, comandante? – disse lo scienziato.
– Io non l'ho ancora esperimentata, quindi non devo né crederla vera, né deriderla.
– Acconsentite ad imbarcarmi? Se vi rifiuterete sbarcherò a Bruni ed andrò ad offrire il mio segreto agli inglesi.
– Giacché desiderate fare una corsa attraverso i mari della Malesia a bordo del Re del Mare, non mi oppongo affatto. Vi avverto inoltre che vi faremo ben guardare da uomini fedeli, incorruttibili, fino al momento in cui si presenterà l'occasione di esperimentare la vostra stupefacente, meravigliosa, terribile scoperta. Non si sa mai!... Potreste in un momento di malumore, provarla contro di noi e fare scoppiare il nostro Re del Mare.
– Fate pure.
– E che i vostri bagagli, che devono di certo contenere il segreto di quella diavoleria spaventosa, si terranno sotto sequestro sotto la mia personale sorveglianza.
– Non mi oppongo.
– E aggiungo ancora che farò intrecciare appositamente un buon canape per appiccarvi senza misericordia, se vi saltasse il ticchio di tentare qualche cosa contro di noi. Mi avete ben compreso signor «Demonio della guerra»?
– Perfettamente – rispose l'americano.
– E così?
– Accetto, comandante.
– Non dite però a nessuno che voi siete un parente di messer Belzebù; i nostri uomini sono gente risoluta e coraggiosa, ma potrebbero spaventarsi sapendo d'aver io imbarcato il «Demonio della guerra». Dottore, fate cercare i vostri bagagli.
Durante quello strano colloquio, i passeggieri avevano sgombrato lo steamer affollandosi confusamente nelle scialuppe, dove erano stati già imbarcati i viveri sufficienti per poter raggiungere la costa bornese, senza correre il pericolo di soffrire la fame e la sete.
Non si erano però ancora allontanate, attendendo il loro comandante, il quale si era ancora recisamente rifiutato di lasciare la sua nave, nonostante le preghiere dei suoi ufficiali e le intimazioni di Yanez e dei suoi uomini.
Il valoroso marinaio anzi si era seduto tranquillamente su una sedia a dondolo, che aveva fatta portare sul ponte di comando e si era messo a fumare la sua pipa, con una calma che aveva stupito gli stessi malesi. Alle minaccie di Yanez di farlo imbarcare colla violenza, egli aveva risposto con una semplice scrollata di spalle.
Il portoghese, ammirando quel coraggio, prima di risolversi a lanciare contro il comandante i suoi uomini, aveva fatto avvertire Sandokan.
– Ah!... Non vuole lasciare la sua nave? – aveva risposto la Tigre della Malesia, che era a portata di voce. – Che ci rimanga, giacché così vuole.
Ordinò alle scialuppe di prendere subito il largo, sotto la minaccia di colarle a fondo, in caso di rifiuto e non s'occupò più di quell'uomo.
– E lo lascieremo saltare colla sua nave? – chiese Yanez.
– Pensiamo a vuotare i depositi di carbone ora. Devono essere ben poco forniti giacché questa nave stava per finire il suo viaggio. Ti mando un rinforzo di cento uomini onde non perdere troppo tempo. Siamo troppo vicini a Bruni e potremmo venire sorpresi.
Come Sandokan aveva già previsto, i pozzi dello steamer erano quasi esauriti dovendo esso rifornirsi di carbone a Bruni prima di proseguire pei mari della Cina.
Non erano rimaste che poche tonnellate di combustibile, quantità assolutamente insufficiente per completare le provviste del Re del Mare, il quale aveva molto consumato durante la sua precipitosa ritirata.
Nondimeno ci vollero non meno di quattro ore per trasbordarle sull'incrociatore, insieme ad una considerevole quantità di viveri e alla cassa di bordo, molto ben fornita.
Durante quel saccheggio, il comandante inglese non aveva né lasciato il suo posto, né mossa alcuna protesta.
Aveva continuato a fumare colla sua solita flemma ed aveva anche accettato un bicchiere di whisky che Yanez gli aveva offerto, sorseggiandolo con perfetta calma.
Quando le ultime scialuppe, cariche di carbone, si furono allontanate, il portoghese s'avvicinò all'inglese e dopo d'averlo salutato cordialmente, gli disse:
– Signore, noi abbiamo finito.
– Allora tocca a me di finire la mia esistenza – rispose il comandante dello steamer.
– Metto a vostra disposizione la mia jola ben fornita di viveri e anche d'una vela, che vi permetterà di raggiungere le scialuppe prima che giungano alla costa. Guardate, la brezza soffia dall'ovest e vi è favorevole.
– Vi ho detto che io non abbandonerò la mia nave e manterrò la parola. Questo steamer, che da sei anni guido attraverso l'oceano, lo amo troppo per lasciarlo e se deve andare a picco mi inabisserò con lui.
– Ditemi almeno quale morte preferite? Volevo farlo saltare in aria con una tonnellata di polvere, nondimeno se desiderate lo squarceremo invece con una palla dei nostri più grossi cannoni. Almeno lo vedrete sommergersi lentamente e forse potrete pentirvi, prima che scompaia tutto sotto le onde.
– Ciò non mi riguarda, signore; fate quello che credete.
– Addio, signore, siete un coraggioso.
– Addio, comandante e buona fortuna – rispose l'inglese, un po' ironicamente. – Ah! vi pregherei di un favore.
– Dite pure.
– Di far avvertire i miei armatori di Bombay, se ne avrete l'occasione, che John Kopp è morto a bordo della sua nave, come un vero uomo di mare.
– Lo farò, ve lo prometto. Fra dieci minuti avrò l'onore di cannoneggiarvi.
– Per quel momento avrò terminata la mia pipata.
Si separarono, levandosi le berrette, poi Yanez scese nella baleniera che l'aspettava all'estremità della scala, mentre l'inglese sempre impassibile, riprendeva il suo posto sul seggiolone, dopo d'aver issata la bandiera inglese.
– E dunque non si muove? – chiese Sandokan, quando Yanez fu sull'incrociatore.
– Ecco un ostinato degno d'ammirazione – rispose il portoghese. – Vuole andare a picco colla sua nave. Lo farai tu?
– Non siamo ancora partiti – disse Sandokan con un sorriso.
S'avvicinò a poppa dove il vecchio artigliere americano stava appoggiato a una delle torrette e gli sussurrò all'orecchio alcune parole.
Poco dopo l'incrociatore virava di bordo, avanzandosi verso lo steamer a piccolo vapore. L'inglese fumava sempre, in attesa del colpo di cannone che doveva sventrare la sua nave.
Sandokan si era portato a prora e lo guardava sorridendo.
Il Re del Mare, guidato da Sambigliong, passò a trenta passi dalla poppa del vapore, rallentando la marcia.
Allora Sandokan imboccando il portavoce, gridò all'inglese:
– Signore, vorrei pregarvi di un favore. Se avrete l'occasione di rivedere i vostri armatori, dite loro che le Tigri di Mompracem hanno risparmiata la loro nave perché la comandava un coraggioso quale siete voi. Buona fortuna!
Poi mentre la bandiera di Mompracem salutava l'inglese, l'incrociatore s'allontanò velocemente verso il settentrione.
***
L'astuto e prudente Sandokan, non osando trattenersi troppo a lungo in quei paraggi così prossimi a Labuan, per timore di venire preso fra la squadra della colonia ed i quattro incrociatori che dovevano cercarlo accanitamente, aveva preso il partito di dirigersi verso le coste settentrionali del Borneo, per piombare sulle navi provenienti dall'Australia.
Era impossibile o per lo meno difficile che gl'inglesi si immaginassero che egli potesse allontanarsi così tanto dal golfo di Sarawack.
Era quindi certo di sorprendere parecchie navi australiane prima che gli armatori, spaventati, pensassero a sospenderne la partenza.
Desiderando rimanere assolutamente incognito, si tenne lontano dalle vie tenute ordinariamente dalle navi, ed un bel giorno si trovò a sole quaranta miglia dalla punta settentrionale del Borneo.
Fu una crociera di soli sei giorni, eppure quali disastri dovette subire la marina mercantile e inglese in così breve tempo! Due piroscafi e tre velieri caddero nelle mani delle implacabili Tigri di Mompracem, subendo l'egual sorte toccata a quelle catturate nel mare della Malesia.
Equipaggi e passeggieri lasciati liberi di salvarsi sulle coste delle isole, le navi affondate senza misericordia coi loro carichi quasi completi.
Avendo però appreso da alcuni prahos che anche la squadra della Cina, allarmata da tante catture, stava per radunarsi, il Re del Mare, coi pozzi di carbone al completo, aveva un'altra volta preso subito il largo ridiscendendo verso il sud.
Sandokan e Yanez volevano andare a distruggere gli splendidi steamers che facevano il servizio fra l'India e la bassa Cocincina.
Una smania terribile di affondare aveva preso Sandokan, il quale pareva ritornato il sanguinario pirata d'altri tempi. Sapendo che presto o tardi si sarebbe trovato di fronte a qualcuna di quelle poderose squadre che l'Ammiragliato aveva lanciato sulle sue orme, prima di cadere vinto, voleva dare un colpo mortale al commercio inglese e fare stupire a sua volta il mondo colla sua audacia.
– I nostri giorni sono contati – aveva detto a Yanez ed a Tremal-Naik. – Fra qualche mese non troveremo più nessuna nave inglese che ci fornisca il combustibile. Finché ne abbiamo, approfittiamone; poi accadrà quello che la sorte avrà decretato.
– Troveremo altre navi che ce ne forniranno – aveva risposto Yanez. – Costringeremo quelle d'altre nazionalità a vendercene, dovessimo ricorrere alla violenza.
– E dopo?!...
– Non ci sono io forse dopo? – disse una voce chioccia dietro di loto. – La mia invenzione stupefacente distruggerà tutti quelli che cercheranno assalirvi.
Era il dottor Paddy O'Brien di Filadelfia, il «Demonio della guerra» e del quale finora quasi nessuno si era più occupato.
– Ah! già, ci siete voi – disse Yanez, con un sorriso un po' beffardo. – Voi che al momento del pericolo fermerete i proiettili che verranno scagliati contro di noi.
– No, signore, v'ingannate, non arresterò i proiettili, io – rispose l'omiciattolo con vivacità. – Farò invece saltare le polveriere delle navi che vi assalteranno. La mia macchina non fallirà. (In America, nello stabilimento elettrico di Davson, sono riusciti con una corrente elettrica a far scoppiare cinquanta libre di polvere alla distanza di 800 metri)
– Ed anch'io ne ho la convinzione – disse in quel momento l'ingegnere Horward. – Questo mio compatriota mi ha spiegato in che cosa consiste la sua macchina e, per quanto la cosa possa sembrarvi stupefacente, io credo che riuscirà a far saltare le navi che ci daranno la caccia.
– Lo vedremo alla prova – disse Sandokan, con accento di dubbio. – Se continuiamo a scendere verso il sud, un giorno o l'altro incontreremo di certo i nostri avversari. Tenete pur pronta la vostra macchina meravigliosa, signor Paddy.
Per due altri giorni il Re del Mare scese costantemente verso il sud facendo delle punte molto al largo, senza scorgere alcuna nave a vapore in nessuna direzione.
Gli armatori dovevano aver dato gli ordini necessari per trattenere nei porti delle isole della Sonda le loro navi, onde non vederle sommergere dall'audace corsaro che fino allora, colle sue corse fulminee e coi suoi spostamenti, era sfuggito alla caccia delle squadre.
L'interruzione delle linee di navigazione doveva aver causato perdite immense agl'inglesi.
Che cosa sarebbe avvenuto del Re del Mare quando l'ultima tonnellata di carbone fosse scomparsa nelle bocche ardenti dei suoi immensi forni?
– Non avevo pensato che l'arma che io adoperavo avesse un doppio taglio – mormorò un giorno Sandokan. – Uno per gl'inglesi ed uno per me.
Cinquecento miglia erano state percorse, avvicinandosi il Re del Mare alle coste di Malacca e ancora nessuna nave inglese si era mostrata. Alcune ne erano state vedute, tedesche, italiane, francesi ed olandesi, navi che costituivano piuttosto un pericolo perché potevano dare avviso all'Ammiragliato delle rotte del corsaro, temendo che questi un giorno si rivolgesse anche contro di esse.
Sandokan e Yanez cominciavano a preoccuparsi. Sentivano per istinto che pel Re del Mare i giorni erano contati e che il cerchio di ferro stava per stringersi intorno alle ultime Tigri di Mompracem.
Tremal-Naik e Kammamuri li sorprendevano di frequente colla fronte pensierosa e cogli occhi torbidi. Talvolta invece li vedevano guardare a lungo Darma e Surama e scuotere la testa con tristezza, come se avessero un rimorso di averle imbarcate, per travolgerle in una tremenda catastrofe, che ormai pareva loro certa.
– Fanciulle – disse un giorno Yanez, mentre Darma contemplava l'orizzonte infuocato dagli ultimi raggi del sole morente, come se sperasse di veder comparire già da quella parte l'uomo che amava. – Avete paura della morte voi?
– Perché ci fate questa domanda, signor Yanez? – chiese l'anglo-indiana con un triste sorriso.
– Perché forse l'ultima ora sta per suonare per noi tutti.
– Quando morrete, noi vi seguiremo negli abissi del mare – rispose Darma.
– Sì, io non lascierò il sahib bianco, che mi ama – disse Surama, guardando dolcemente il portoghese.
– Io vorrei però sottrarvi alla morte, prima che essa vi sfiori colle sue gelide ali e tale è anche il pensiero di Sandokan. Noi corriamo verso la Malacca e possiamo sacrificare le ultime provviste di carbone per deporvi su quelle spiaggie.
Darma e Surama fecero col capo un energico segno negativo.
– No – disse la prima, con voce recisa. – Io non lascierò né mio padre, né voi, checché debba succedere.
– Né io mi separerò da te, sahib bianco, a cui devo la vita e la libertà – disse Surama.
– Pensa, Darma, che tu potresti un giorno diventare sposa felice e unirti ad un uomo, sia pure inglese, che t'ama immensamente e che io stimo.
– Sir Moreland mi avrà a quest'ora dimenticata – rispose la fanciulla con un sospiro.
– Pensa che da un momento all'altro la flotta degli alleati può piombarci addosso e stringerci in un cerchio di fuoco, e che tu sei donna.
– No, signor Yanez – disse Darma, con maggior fierezza. – Noi non vi abbandoneremo, è vero, Surama?
– Io sarò felice di morire a fianco del mio sahib bianco – rispose l'indiana.
Yanez le accarezzò con una mano la lunga capigliatura nera, poi disse:
– Bah!... chissà!... Non siamo ancora vinti.
IL FIGLIO DI SUYODHANA
No, le ultime Tigri di Mompracem non erano vinte ancora, però potevano esserlo ben presto, non sapendo più dove rifornirsi del combustibile così necessario a loro, quanto e forse più della polvere da sparo.
Il carbone diminuiva a vista d'occhio ed i pozzi erano quasi vuoti e nessuna speranza si offriva d'incontrare qualche nave. Era necessario prendere una decisione suprema, e fu subito presa da Sandokan e da Yanez, d'accordo con Tremal-Naik e coll'ingegnere americano.
Fu deliberato di raggiungere senza indugio l'isola di Gaya, dove si erano raccolti i prahos in attesa della fine della guerra, non già che colà potessero sperare di trovare del combustibile, ma per avere almeno, nel momento supremo, l'appoggio di quei velieri e nel medesimo tempo per inviarne alcuni a Bruni a far carico.
Trattandosi di piccoli legni mercantili, che potevano inalberare qualsiasi bandiera, nessuno avrebbe potuto sollevare ostacoli se avessero chiesto d'imbarcare del carbone.
La questione consisteva nel poter raggiungere quell'isola, lontana più di quattrocento miglia, prima che la squadra che doveva ormai aver abbandonate definitivamente le acque di Sarawack, piombasse sul Re del Mare e lo sorprendesse coi fuochi semispenti, obbligandolo ad accettare la lotta contro forze enormemente superiori.
Pel momento non pareva che quel gran pericolo lo minacciasse perché al mattino, da un giong che veniva dal sud, avevano avuto l'assicurazione che nessuna nave da guerra era stata veduta nelle acque di Labuan, né in quelle di Bruni.
Il Re del Mare, appena terminato quel breve consiglio, fu subito diretto verso il nord-est, in modo da passare molto lontano anche da Mompracem e da tenersi a ponente dei due grandi banchi di Samarang e di Vernon.
Per economizzare più che era possibile il carbone, erano stati spenti mezzi forni, sicché l'incrociatore non s'avanzava più che colla velocità di appena sei nodi all'ora.
Sandokan, più che Yanez, era diventato nervosissimo, di pessimo umore. Lo si vedeva passare delle lunghe ore sulla passerella di comando, scrutare ansiosamente l'orizzonte, in preda ad una crescente preoccupazione. Non era più l'uomo tranquillo, impassibile d'un tempo, sicuro della sua nave e delle sue artiglierie, che se ne rideva dei pericoli e li affrontava col sorriso sulle labbra filmando flemmaticamente la sua pipa.
Parecchie volte al giorno scendeva nei depositi di carbone, ormai quasi vuoti, o si arrestava dinanzi ai forni, a quelle bocche affamate che domandavano insistentemente alimento, provando delle terribili strette al cuore quando i fuochisti precipitavano, fra le fiamme quasi morenti, palate di combustibile.
Quando risaliva aveva la fronte tempestosa e passeggiava cupo, taciturno, per lungo tempo, fra le torri di poppa e di prora, colle braccia incrociate e la testa china, senza parlare con chicchessia.
Solo duecentotrenta miglia dividevano il Re del Mare dalle coste occidentali del Borneo, quando una grave notizia si sparse a bordo.
Un piccolo veliero che veniva dal sud e che era stato interrogato, aveva dato una risposta che aveva fatto fremere l'intero equipaggio dell'incrociatore.
– Incrociatori inglesi al sud-ovest.
– Quanti?
– Due.
– Incontrati quando?...
– Ieri sera.
Bisognava fuggire. Quelle due navi dovevano essere le avanguardie di qualche squadra e potevano giungere da un momento all'altro e scoprire il corsaro.
– Vadano le ultime nostre provviste di combustibile – aveva detto Sandokan a Yanez.
– E poi?
– Saremo pronti pel combattimento.
Il Re del Mare aveva subito affrettata la corsa. Fuggiva a precipizio, dodici nodi all'ora, sacrificando le ultime tonnellate di combustibile, colla magra speranza d'incontrare qualche nave mercantile e di saccheggiarla del suo carbone prima che giungesse la squadra.
La sorveglianza era stata raddoppiata a bordo. Uomini dagli occhi di lince vegliavano sulle coffe.
Intanto Sandokan aveva dato l'ordine di prepararsi per la battaglia, che presumibilmente doveva essere l'ultima, a meno d'un miracolo.
Centoquaranta miglia ancora, poi la velocità si rallenta. I pozzi sono esausti e le caldaie rantolano affievolendosi di minuto in minuto.
Il momento terribile s'avvicina, eppure tutti sono calmi a bordo perché tutti, da lungo tempo, hanno fatto il sacrificio della loro vita. Nessuno ha paura della morte che li minaccia e guardano impassibili le acque che diverranno i loro veli funebri.
Forse rimpiangono una cosa sola: quella di morire lontani da Mompracem.
Alle otto di sera il Re del Mare s'arrestò quasi, addosso al grande bacino di Vernon. Tutto quello che poteva dar calore era stato divorato dagli immani forni delle macchine.
I barili di catrame, le casse di canape imbevute colle provviste di liquore del quadro, le materie grasse della dispensa, i mobili delle sale, perfino le brande e gli effetti dell'equipaggio.
Se si fossero potute trasformare le pareti metalliche della nave in altrettanto combustibile, quegli uomini non avrebbero esitato a farlo, pur di raggiungere le coste del Borneo già ancora troppo lontane.
Sandokan, sentendo la nave arrestarsi, si era diretto lentamente verso poppa, più cupo che mai, appoggiandosi alla murata.
Non aveva pronunciata una parola, né aveva fatto alcun gesto. Aveva solamente accesa la pipa, fumando con maggiore furia del solito, fissando gli sguardi sull'orizzonte, che rapidamente diventava tenebroso e Yanez lo aveva imitato.
Era da quella parte che veniva il pericolo e lo sentivano appressarsi terribile, formidabile, schiacciante ed implacabile.
L'oscurità era piombata sul mare, tingendo le acque d'un colore quasi nero.
Qualche rada stella appariva in cielo, fra gli strappi delle nubi salite colla brezza che soffiava dal sud.
Un silenzio profondo regnava a bordo, da che le macchine avevano cessato di funzionare, eppure tutti i duecento e cinquanta uomini che formavano l'equipaggio dell'incrociatore erano sulla coperta, chi sulle murate, chi dietro i giganteschi pezzi delle torri. Ma nessuno parlava.
Verso mezzanotte Tremal-Naik s'avvicinò a Sandokan, il quale non aveva ancora abbandonato il suo posto.
– Amico mio – gli disse. – Che cosa ci rimane da fare?
– Prepararci a morire – rispose la Tigre della Malesia, con voce calma.
– Io sono pronto, e le fanciulle?
Sandokan, invece di rispondere, stese la destra verso l'ovest, e disse:
– Eccole: le vedi?
– Chi, Sandokan?
– Le navi nemiche.
– Di già! – mormorò l'indiano, che non seppe frenare un brivido.
– Accorrono come belve feroci per distruggere le ultime Tigri della Malesia. I loro sguardi sono ormai fissi su di noi.
Tremal-Naik guardò nella direzione indicata, mentre gli uomini di guardia sulla piattaforma gridavano:
– Navi a poppa!
Parecchi punti luminosi scintillavano sull'orizzonte ed ingrandivano rapidamente.
– Sono pronti i nostri uomini? – chiese Sandokan.
– Sì – rispose Yanez che gli stava presso.
– E le fanciulle? – domandò con un tremito.
– Sono tranquille.
– Vorrei salvarle.
– Che cosa dovremmo fare?
– Sbarcarle su una scialuppa e allontanarle prima che quelle navi ci rinchiudano.
– Si rifiuteranno; mi hanno giurato che se dovremo morire, esse s'inabisseranno con noi.
– Vi è la morte qui!...
– L'aspettano.
– Salvale, Yanez.
– Ti ripeto che si rifiuterebbero; non insistere.
– Ebbene sia!... Se dovremo morire, non cadremo invendicati!... A me, Tigri di Mompracem!
Le navi nemiche accorrevano a tutto vapore, formando un ampio semicerchio, che doveva più tardi restringersi fino a richiudersi, per prendere in mezzo il Re del Mare e mandarlo rotto, fracassato, a picco col numero strabocchevole delle loro artiglierie.
Sandokan e Yanez, che nel supremo momento del pericolo avevano ritrovata la loro calma, impartivano gli ordini con voce tranquilla.
Quando videro che tutti gli uomini erano al posto di combattimento, andarono sulla passerella di comando.
Sull'albero militare di poppa avevano fatto innalzare la bandiera rossa colla testa di tigre nel mezzo.
Quattro fasci di luce, proiettati dai riflettori, si erano concentrati sul Re del Mare sempre immobile, illuminandolo come in pieno giorno.
– Sì, guardateci: siamo noi – disse Sandokan.
Quattro grosse navi a vapore, senza dubbio le più poderose della flotta degli alleati, si erano silenziosamente disposte in semicerchio intorno al Re del Mare, minacciandolo colle numerose artiglierie. Nessun colpo era però stato sparato.
Aspettavano l'alba per impegnare la lotta suprema o per intimare la resa, parola questa che non esisteva nella lingua del fiero pirata.
Darma si era accostata silenziosamente alla murata di poppa. Era pallidissima, ma tranquilla, come tutto l'equipaggio dell'incrociatore. Il suo sguardo vagava da una nave all'altra con viva insistenza. Che cosa cercava? Certo sir Moreland.
Una voce segreta le diceva che l'uomo amato doveva essere vicino, su una di quelle poderose corazzate che dovevano demolire il povero ed ormai impotente Re del Mare.
Intanto le navi alleate, che avevano spenti i riflettori elettrici, giravano lentamente intorno all'incrociatore, stringendo sempre più il cerchio. Sfilavano come fantasmi nella notte tenebrosissima e pareva che i loro fanali, come occhi ardenti, si fissassero sanguinosamente sulla loro vittima.
Non erano però ancora a portata utile delle grosse artiglierie. Sicuri ormai di tenere le Tigri di Mompracem, non si davano premura di stringersi troppo addosso ad esse.
Verso le due del mattino, Sandokan e Yanez, che non avevano mai lasciato il loro posto, furono veduti scendere lentamente dalla passerella, e dirigersi verso il centro della nave. Erano sempre freddi, impassibili.
S'avvicinarono a Tremal-Naik che stava appoggiato ad un argano, seguendo con gli sguardi inquieti sua figlia che vagava, come un fantasma, sul castello di prora.
– Amico – gli disse Sandokan con accento triste. – Qui domani si inabisseranno le ultime Tigri di Mompracem.
Tremal-Naik aveva provato un brivido ed aveva alzata vivamente la testa.
– Chi credi che siano quegli incrociatori per poter vincere la tua poderosa nave? – chiese.
– I quattro grossi incrociatori che hanno cercato di catturarci nella baia di Sarawack. Noi siamo certi di non ingannarci.
– E quelli affonderanno il tuo Re del Mare?
– Ne ho la convinzione.
– Ed anch'io – disse Yanez. – Quelle navi devono possedere un'artiglieria formidabile e sono in quattro!
– E poi siamo immobilizzati – aggiunse Sandokan.
– Infine che cosa volete concludere? – chiese l'indiano.
– Proporti di recarti a bordo di una di quelle navi e di arrenderti, conducendo con te tua figlia e Surama.
Tremal-Naik si era rizzato, facendo un gesto di sorpresa ed insieme di dolore.
– Io allontanarmi da voi! – esclamò. – Oh no, mai! Se qui morranno le ultime Tigri di Mompracem a cui io debbo la vita e tanta riconoscenza, morranno anche il vecchio «Cacciatore della Jungla Nera» e sua figlia.
– Io debbo avvertirti però che tua figlia ama ed è riamata da un uomo che potrebbe farla felice – disse Sandokan.
– Sir Moreland, è vero? – disse Tremal-Naik. – Me n'era accorto. Avete informato Darma del grave pericolo che corriamo?
– Sì – rispose Yanez.
– Che cosa vi ha detto?
– Che non lascierà la nostra nave.
– Non poteva rispondere diversamente – disse l'indiano, con orgoglio. – Il buon sangue non mente. Se il destino ha segnato la nostra fine, si compia il fato.
Si strinsero la mano e si diressero tutti tre verso il ponte di comando.
Ad un tratto Yanez si fermò, mandando un grido:
– Stupido! Ed io che lo avevo ancora dimenticato.
– Chi? – chiesero ad una voce Sandokan e Tremal-Naik.
– Il «Demonio della guerra».
Una pazza speranza aveva attraversato il cervello del portoghese. Si era rammentato in quel momento dello scienziato americano, di Paddy O'Brien, che teneva come prigioniero in una delle cabine del quadro, guardato giorno e notte. Scese rapidamente sotto coperta, attraversò la corsia e s'arrestò dinanzi alla stanzetta occupata dall'omiciattolo:
– Sveglia il prigioniero – disse al malese di guardia.
– È già in piedi, signor Yanez.
Yanez aprì la porta ed entrò. Paddy O'Brien stava seduto dinanzi ad un tavolo e pareva immerso in un calcolo intricatissimo, col naso su un foglio di carta coperto di cifre.
– Voi, signor de Gomera? – disse il dottore, assicurandosi gli occhiali. – Quale vento vi conduce qui? È molto che non vi vedo e vi aspettavo.
– Dottore – disse il portoghese senza preamboli. – Le navi nemiche ci hanno circondati e stiamo per venire colati a fondo.
– Ah! – fece l'americano senza scomporsi.
– Voi mi avete detto che siete possessore d'un tremendo segreto.
– E ve lo confermo.
– Ecco giunto il momento di esperimentarlo, signor «Demonio della guerra».
– Fate portare in coperta le mie casse.
– Non farete saltare la nostra nave, invece? – chiese Yanez un po' inquieto.
– Salterei anch'io assieme a voi e per ora non ho alcuna voglia di morire – rispose il dottore. – Signor de Gomera, approfittiamo di questi momenti di calma.
Salirono in coperta, mentre i marinai portavano le casse del dottore.
– Sono là le navi alleate – disse Sandokan accostandosi allo scienziato.
– Sì e vedo che vi hanno circondato – rispose Paddy O'Brien, corrugando la fronte. – Ecco quella che salterà per la prima.
Una nave, un piccolo incrociatore, che prima non era stato scorto, si era staccato dal grosso della squadra e girava attorno al Re del Mare mantenendosi ad una distanza di due a tremila metri. Veniva per spiare o per provocare il fuoco dei pirati di Mompracem? Paddy O'Brien fece aprire le sue casse che contenevano degli apparati elettrici, incomprensibili per Yanez e per Sandokan.
Esaminò attentamente ogni cosa, senza fretta e con gran calma, come un uomo sicuro del fatto suo, poi volgendosi verso Yanez che lo sorvegliava colla destra appoggiata al calcio della pistola, gli disse:
– Quando vorrete?
– Fate funzionare il vostro apparecchio.
– Ecco che la nave ci passa a tribordo; salterà – disse Paddy freddamente.
Un brivido era corso per le ossa di tutti i marinai che circondavano l'americano. Sarebbe stato capace di operare quel miracolo quel piccolo uomo?
– Attenzione! – gridò ad un tratto l'americano.
Aveva appena pronunciate quelle parole che un lampo acciecante ruppe bruscamente le tenebre, seguito da uno spaventevole rimbombo.
Una immensa colonna d'acqua si era alzata attorno al piccolo incrociatore, mentre una tempesta di rottami cadeva tutto all'intorno.
Un immenso urlo, sfuggito da centinaia di petti, era echeggiato lugubremente per l'aria, spegnendosi bruscamente.
La nave era saltata e affondava rapidamente coi fianchi squarciati.
Nel medesimo istante una granata scoppiava sul ponte del Re del Mare fra l'apparecchio e Paddy O'Brien. L'americano aveva mandato un grido ed era caduto quasi ai piedi di Yanez, il quale era sfuggito miracolosamente alle scheggie del proiettile.
– Dottore! – gridò il portoghese, precipitandosi verso di lui.
– Le... mie... le... mie... – mormorò il disgraziato inventore, agitando le braccia con un gesto disperato.
Si portò le mani al petto, per comprimersi il sangue che sfuggiva da un orribile ferita.
Sandokan si era slanciato verso le casse.
Un grido di disperazione gli sfuggì.
La granata aveva distrutto l'apparato, e sminuzzate le pile.
Yanez aveva alzato dolcemente la testa dell'americano.
– Signor O'Brien – disse, mentre un singhiozzo gli moriva in gola.
Il ferito aprì gli occhi fissandoli sul portoghese. Un rauco sibilo gli usciva dalle labbra a lunghi intervalli.
– Fi...nito... fi...nito... – rantolò.
Colla destra lorda di sangue strinse quella di Yanez, poi si raggomitolò su se stesso e ricadde.
– Morto – disse Yanez, con voce triste.
– Ecco la prima vittima – rispose Sandokan.
Yanez depose sulla tolda il disgraziato inventore, gli chiuse gli occhi, lo coprì con una tenda strappata lì presso, poi levandosi in tutta la sua altezza, disse:
– Tutto è finito: qui morranno le ultime Tigri di Mompracem. Tremal-Naik, Darma, Surama, nella mia torretta e voi, ai vostri pezzi! Le nostre vite sono nelle mani di Dio!...
– Ai vostri posti di combattimento! – gridò Sandokan. – Mostriamo a costoro come sanno morire i pirati della Malesia.
L'alba, un'alba rosea, che annunciava una superba giornata, fugava rapidamente le tenebre, tingendo le acque di miriadi di pagliuzze d'oro.
Un colpo di cannone in bianco partì dall'incrociatore più prossimo, il più grosso dei quattro: intimava la resa.
Sandokan fece invece alzare subito la bandiera rossa, segnale di combattimento.
L'incrociatore nemico invece di aprire il fuoco fece dei segnali colle bandiere che significavano:
«Prima di cominciare il fuoco, mandate al mio bordo le due fanciulle. Sir Moreland risponde delle loro vite».
– Ah! – esclamò Yanez. – Abbiamo l'anglo-indiano dinanzi. Cercheremo di affondargli una seconda volta la nave. Darma! Surama!
Le due fanciulle erano uscite dalla torretta.
– Si propone a voi di salvarvi su quelle navi – disse Sandokan. – Accettate voi? Una scialuppa è pronta.
– Mai! – risposero energicamente le due fanciulle.
– Pensateci.
– No – disse Darma. – Non lascierò né voi, né mio padre.
– Comunicate la loro risposta – comandò Yanez.
Un quartier-mastro americano segnalò subito.
Allora si videro salire lentamente sugli alberotti di maestra dei quattro incrociatori, quattro bandiere nere. Un colpo di vento le allargò, mostrando nel mezzo in giallo, una mostruosa figura con quattro braccia che tenevano nelle mani degli strani emblemi.
Un grido di stupore ed insieme di furore era sfuggito dalle labbra di Yanez, di Sandokan e di Tremal-Naik. Avevano riconosciuto l'emblema dei thugs, degli strangolatori indiani.
Erano dunque quelle le navi del figlio di Suyodhana, del loro implacabile ed invisibile nemico? Quelle bandiere lo confermavano.
A bordo del Re del Mare successe un lungo silenzio, tanto era lo stupore che aveva invaso tutti, poi la voce metallica di Sandokan lo ruppe bruscamente:
– Fuoco! Fuoco! Fuoco!
Spaventevoli detonazioni coprono le sue ultime parole. Le granate piovono da tutte le parti sul Re del Mare, che il flusso ha insensibilmente portato verso il banco di Vernon e che si trova sempre immobilizzato coi fuochi spenti.
Sono uragani di ferro e di acciaio che escono dai grossi pezzi della coperta e da quelli di medio calibro delle batterie: ma non sono diretti sul ponte del Re del Mare dove si trovano, entro la torretta blindata, Darma e Surama.
Quelle masse metalliche battono invece solamente i fianchi dell'incrociatore, come se gli artiglieri avessero ricevuto l'ordine di risparmiare le fanciulle, i due comandanti e Tremal-Naik che sono con loro.
Delle granate vengono però lanciate contro le torri che riparano i grossi pezzi da caccia, cercando d'imbroccarli o di frantumare le grosse piastre di ferro.
Il Re del Mare si difende furiosamente. È un vulcano che fiammeggia da tutte le parti. Le ultime Tigri di Mompracem sono ben risolute a far pagar cara la vittoria allo strapotente nemico.
I suoi grossi obici battono in breccia le navi avversarie, danneggiando i ponti, squarciando le ciminiere e aprendo larghi fori nelle piastre metalliche. In mezzo a quel rimbombo assordante, si ode tratto tratto la voce formidabile di Sandokan che urla:
– Fuoco, Tigri di Mompracem! Distruggete, massacrate!
Ma quanto potrà resistere il Re del Mare al tiro terribile di tante bocche da fuoco?
I suoi fianchi, quantunque solidissimi, dopo mezz'ora cominciano a cedere; anche i suoi pezzi, uno ad uno vengono smontati e ridotti al silenzio. Le sue torri, ad eccezione della torretta di comando, sempre risparmiata, cominciano a sfasciarsi sotto quella pioggia incessante di granate, e nelle batterie i morti si accumulano.
Sandokan e Yanez, chiusi nella torretta, contemplano quel terribile spettacolo, calmi e sereni. Il primo si morde di quando in quando le labbra a sangue; il secondo fuma flemmaticamente la sua eterna sigaretta e sembra solamente un po' commoversi, quando il suo sguardo s'incontra con quello di Surama.
Darma, seduta in un angolo, su un mucchio di cordami, a fianco di Tremal-Naik colle mani appoggiate agli orecchi per attenuare il rombo assordante delle grosse artiglierie, sembra che guardi nel vuoto.
D'improvviso il Re del Mare, sollevato da una forza misteriosa, sobbalza da prora a poppa, mentre una enorme colonna d'acqua si rovescia sulla sua coperta spazzandola. Tutto il suo scafo vibra e sembra sfasciarsi come se scoppiassero le munizioni del Re del Mare.
Horward, l'ingegnere americano, si precipita in quel momento entro la torretta, pallido, esterrefatto:
– Hanno torpedinato il Re del Mare! – grida. – Coliamo a fondo!
Grida selvagge salgono dalle batterie, confondendosi cogli ultimi spari dei due pezzi da caccia della coperta, ancora servibili.
Il fuoco cessa bruscamente sulle quattro navi nemiche.
Sandokan volge un triste sguardo ai suoi due compagni, poi dice:
– Ecco il momento supremo: la tomba è aperta per le ultime Tigri di Mompracem.
Alza Darma ed esce dalla torretta, seguito da Yanez, da Tremal-Naik e da Surama e si arresta al difuori a guardare la sua nave.
Povero Re del Mare! La superba nave che ha resistito a tante prove e che pareva invincibile, non è più che una carcassa affondante.
Le sue torri sono state sventrate da quell'uragano di proiettili, i suoi cannoni sono quasi tutti smontati, il ponte è squarciato ed i fianchi hanno dei buchi enormi.
Ondate di fumo sfuggono dai boccaporti dai quali irrompono, neri di polvere e lordi di sangue, gli uomini delle batterie.
– Una scialuppa in mare! – comanda Sandokan.
Ve n'è una che per un miracolo è sfuggita al fuoco del nemico. Alcuni malesi la calano precipitosamente, mentre altri abbassano la scala.
– Prima tu, Tremal-Naik, colle fanciulle – disse Sandokan.
– Non occuparti di noi. Gli equipaggi degli incrociatori vengono a raccoglierci.
Infatti numerose imbarcazioni si staccano dai fianchi delle navi vittoriose ed accorrono a forza di remi. Nella prima si vede sir Moreland, il quale sventola un fazzoletto bianco.
La scialuppa, montata dalle due fanciulle da Tremal-Naik, da Kammamuri e da quattro rematori, s'allontana dal Re del Mare perché la nave affonda sempre.
– Ed ora – disse Sandokan con un gesto superbo. – Lassù, avvolto nella mia bandiera. Vieni, Yanez: tutto è finito.
– Bah! – fece il portoghese, gettando in aria una boccata di fumo. – Non si può mica vivere all'infinito.
Attraversarono il ponte ingombro di frammenti di palle e di granate e salirono sulle griselle dell'albero militare, arrestandosi sulla piattaforma.
In lontananza, Tremal-Naik, Darma e Surama facevano cenno a loro di gettarsi in acqua. Risposero con un saluto della mano ed un sorriso.
Poi Sandokan, strappando la sua rossa bandiera che gli sventolava sopra la testa, si avvolse fra le sue pieghe, dicendo:
– È così che muore la Tigre della Malesia.
Sotto di loro, gli ultimi Tigrotti di Mompracem, un centinaio circa, per maggior parte feriti, aspettavano, impassibili e silenziosi, che il gran gorgo li aspirasse, tenendo gli sguardi fissi sui loro due capi.
Il Re del Mare affondava lentamente, vibrando e si udivano le acque muggire cupamente, entro la stiva.
Le scialuppe degli incrociatori facevano sforzi disperati per giungere in tempo a raccogliere quei naufraghi, votatisi volontariamente alla morte. Quella di sir Moreland era sempre la prima ed era subito seguita da quella montata da Tremal-Naik e dalle due fanciulle che tornava verso la nave, avendo l'indiano compreso il disegno disperato dei suoi vecchi amici.
Sandokan, sempre avvolto nella sua bandiera, li guardava impassibile, con un superbo sorriso sulle labbra. Yanez, colla fronte un po' corrugata, fumava la sua ultima sigaretta colla sua calma abituale.
Quando le acque cominciarono ad invadere la coperta, il portoghese lasciò cadere la sigaretta quasi finita, dicendo:
– Va' ad aspettarmi in fondo al mare!
Ad un tratto, quando pareva che lo scafo dovesse tutto sommergersi, la discesa di quella enorme massa cessò bruscamente. Il flusso che aveva spinto la nave verso l'est, doveva averla portata addosso al banco di Vernon, più di quanto l'equipaggio supponeva e la chiglia doveva essersi indubbiamente posata sul fondo.
Ed infatti, nel momento in cui le due scialuppe montate una da sir Moreland e da sei marinai indiani e l'altra da Tremal-Naik, Darma e Surama coi rematori malesi giungevano sotto la scala di babordo, lo scafo s'inclinava dolcemente a tribordo coricandosi sul fianco.
Sir Moreland, vedendo la nave ormai immobile, erasi affrettato a salire sul ponte, seguito subito da Tremal-Naik e dalle due fanciulle.
Yanez si era voltato verso Sandokan, la cui faccia appariva assai abbuiata.
– Nemmeno la morte ci vuole – gli disse. – Che cosa vuoi fare?
– Andiamo a conoscere dunque il figlio della Tigre dell'India – disse, posando la destra sull'impugnatura d'oro del suo kriss. – Si guardi! La Tigre della Malesia potrebbe uccidere anche il Tigrotto.
Si sbarazzò della bandiera e scese lentamente la grisella, colla maestà d'un re che scende i gradini d'un trono e si fermò dinanzi a sir Moreland, dicendogli:
– Ebbene? Che volete fare di noi?
L'anglo-indiano, che pareva in preda ad una viva commozione, si levò il berretto salutando i due eroi della pirateria, poi disse con nobiltà:
– Permettetemi una parola, prima, signori.
Prese per una mano Darma, che era salita a bordo con Surama e, conducendola dinanzi a Tremal-Naik, gli disse:
– Io l'amo ed ella m'ama: io non potrei vivere senza vostra figlia, eppure i numi dell'India sanno quanto io ho fatto per dimenticarla. Colmate con una vostra parola il rivo di sangue che mi separava da voi onde il grido terribile del mio assassinato genitore si spenga per sempre. La sua anima mi è comparsa ieri notte e mi ha detto di perdonare a tutti!
– Che cosa dite, sir Moreland? Di qual genitore parlate? – chiese Tremal-Naik, con angoscia.
– Darma, mi amate? – chiese sir Moreland, senza rispondere all'indiano.
– Sì, immensamente – rispose la fanciulla arrossendo ed abbassando gli occhi.
– La guerra è finita fra noi – disse sir Moreland. – E la macchia di sangue è cancellata. Tremal-Naik, benedite i vostri figli.
– Ma chi siete voi? – gridarono ad una voce Yanez, Sandokan e Tremal-Naik.
– Io sono... il figlio di Suyodhana! Venite! Siete miei ospiti.
CONCLUSIONE
Venti minuti dopo i quattro incrociatori lasciavano il banco di Vernon su cui affondava a poco a poco nel fango, la carcassa del valoroso Re del Mare.
Sul più grosso, su cui si trovavano imbarcati tutti i superstiti, compresi Kammamuri, Sambigliong e l'ingegnere Horward, si erano radunati nella sala del quadro Tremal-Naik, le due fanciulle, i due capi della pirateria ed il figlio di Suyodhana.
Una viva ansietà, non esente da una grandissima curiosità, pareva che si fosse impadronita di tutti. Gli sguardi erano tutti fissi sul Tigrotto dell'India, che fino allora avevano creduto un ufficiale della marina anglo-indiana e che si era seduto accanto a Darma.
– Io debbo a voi delle spiegazioni – disse il figlio del terribile thug. – Che non dispiaceranno nemmeno a Darma e che serviranno a scusare la guerra lunga e ostinata che io ho fatto a voi tutti.
«Non fu che a venticinque anni che io fui informato per la prima volta dal mio precettore, un indiano d'alto sapere e d'alta casta, che io non ero figlio d'un ufficiale anglo-indiano, come fino allora mi avevano fatto credere, bensì del capo della setta dei thugs, che aveva sposata segretamente una donna inglese morta dandomi alla luce.
«Affidato alle cure d'una famiglia del Gallese, stabilita da molti anni a Benares, come l'orfano d'un ufficiale della Compagnia Indiana e allevato all'inglese, comprenderete facilmente quale terribile impressione produsse in me la notizia, comunicatami al mio venticinquesimo anno, d'essere invece il figlio del capo d'una setta da tutti gli onesti condannata.
«Il testamento lasciato da mio padre, che mi rendeva padrone di centosettanta milioni di rupie, depositati nella banca di Bombay, m'imponeva di vendicare la morte della Tigre dell'India. Esitai a lungo, credetelo, ma alfine il grido del sangue s'impose e per quanto mi ripugnasse l'idea di farmi vendicatore di quella setta, io, che allora ero ufficiale della marina anglo-indiana, mi lasciai vincere, suggestionato anche dal mio precettore.
«Conoscevo tutta l'istoria, sapevo dove era il vostro rifugio e mi preparai alla guerra facendo costruire cinque poderose navi. Sapendo che il governo inglese viveva in continue inquietudini per voi, troppo vicini a Labuan e che il rajah di Sarawack, il nipote di James Brooke, altro non attendeva che l'occasione per vendicare suo zio, andai a offrire al governatore della colonia il mio aiuto e le mie navi.
«Volevo avervi tutti nelle mie mani, per vendicare la morte di mio padre.
«Mentre io mi preparavo sul mare, il mio precettore, fingendosi un pellegrino della Mecca, sollevava i dayaki del Kabatuan. Fortunatamente l'amore operò in me un cambiamento. Spense a poco a poco l'odio che io nutrivo per voi e mi abbandonai al destino. Gli occhi di questa fanciulla mi avevano stregato e mi fecero vedere quasi con orrore, l'enormità del delitto che io stavo per commettere, nel voler vendicare quella sanguinaria setta riprovata da tutti gli onesti.
«Io non odo più, da molte notti, il terribile grido di vendetta di mio padre. La sua anima deve essersi placata. Mi perdoni, ma io, uomo civile, non posso più diventare il vendicatore dei thugs dell'India.
«Signor Yanez, Tigre della Malesia, siete liberi, assieme a tutti i vostri uomini. Io solo vi ho vinti, io solo quindi ho il diritto di condannarvi o di assolvervi e vi assolvo.»
Il figlio del thug stette fermo un istante, poi rivolgendosi verso Tremal-Naik, gli disse:
– Volete essere mio padre?
– Sì – rispose l'indiano. – Siate felici, figli miei, e che la pace non sia più mai turbata, ora che i thugs non sussistono più.
L'anglo-indiano e Darma con una mossa simultanea si erano gettati nelle braccia aperte di Tremal-Naik.
Kammamuri, che era disceso silenziosamente nella saletta, piangeva in un angolo, di commozione.
– Signor Yanez, signor Sandokan – disse sir Moreland. – Dove desiderate che vi conduca? Noi torneremo in India e voi?
La Tigre della Malesia stette un istante pensierosa, poi rispose:
– Mompracem ormai è perduta, ma abbiamo a Gaya i nostri prahos ed i nostri uomini e là abbiamo amici devoti. Conduceteci in quell'isola, se non vi rincresce. Fonderemo una nuova colonia lassù lontani dalle minaccie degl'inglesi.
Poi, dopo un'altra breve pausa, continuò:
– Chissà che non ci rivediamo un giorno nell'India. Da tempo accarezzavo un sogno.
– Quale? – chiesero Tremal-Naik, Darma e sir Moreland.
Sandokan fissò i suoi sguardi su Surama, quindi rispose:
– Tu sei figlia di rajah e t'hanno rubato il posto che ti aspettava. Perché non dare a te, fanciulla, un trono da dividere con Yanez, che diverrà fra giorni tuo sposo? Ne riparleremo, mia buona Surama.
FINE
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Ciclo di Sandokan
ClassicsLe incredibili avventure di Sandokan, la tigre della Malesia, le sue lotte contro i conquistatori inglesi che gli uccisero tutta la sua famiglia e gli rubarono il regno, della sua passione per Marianna, la perla di Labuan, degli scontri con i terrib...