Le due tigri

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LA MARIANNA


La mattina del 20 aprile del 1857, il guardiano del semaforo di Diamond-Harbour, segnalava la presenza d'un piccolo legno, che doveva essere entrato nell'Hugly durante la notte, senza aver fatto richiesta di alcun pilota.
Sembrava un veliero malese, dalle dimensioni straordinarie delle sue vele, la cui superficie era immensa; però lo scafo non era precisamente simile a quello dei prahos, non essendo provvisto di bilancieri per appoggiarsi meglio sulle onde, quando le raffiche aumentano di violenza, né avendo al centro quella tettoia che chiamasi attap. Anzi era costruito, a quanto pareva, con lamine di ferro anziché di legno; non aveva la poppa bassa, la tolda era sgombra e poi stazzava tre volte di più dei prahos ordinari, i quali di rado hanno una portata di cinquanta tonnellate.
Comunque fosse, era un bellissimo veliero, lungo, affilato, che a vento largo o, meglio ancora, con vento di poppa, doveva filare meglio di tutte le navi a vapore, che allora possedeva il governo anglo-indiano. Era insomma una vera nave da corsa che rammentava, salvo la velatura, i famosi legni dei violatori di blocco della guerra fra il sud ed il nord degli Stati Uniti d'America.
Ma quello che più doveva stupire il guardiano del semaforo, era l'equipaggio di quel veliero, troppo numeroso per una nave così piccola e anche assai singolare.
Pareva che tutte le razze più bellicose della Malesia, vi avessero uno o più rappresentanti. Vi erano malesi dalla tinta fosca e gli sguardi cupi; bughisi, macassaresi, battiassi, dayaki, i famosi e terribili tagliatori di teste delle foreste bornesi; si vedevano perfino dei negriti del Mindanao, e qualche papuaso dall'immensa capigliatura raggruppata intorno ad un pettine non meno gigantesco.
Nessuno però indossava il costume nazionale: tutti portavano il sarong, quel pezzo di stoffa bianca che scende fino alle ginocchia, ed il kabay, specie di giacca assai larga, a tinte svariate, che non impedisce alcun movimento.
Solamente due, che forse erano i comandanti del veliero, indossavano costumi differenti e d'una ricchezza inaudita.
L'uno, che nel momento in cui il legno passava dinanzi a Diamond-Harbour, stava seduto su un largo cuscino di seta rossa, collocato presso la ribolla del timone, era uno splendido tipo d'orientale.
Era un uomo di statura alta, stupendamente sviluppato, con una testa bellissima, quantunque la pelle fosse assai abbronzata, con una capigliatura folta, ricciuta, nera come l'ala d'un corvo, che cadevagli sulle spalle e due occhi che pareva avessero dentro il fuoco.
Vestiva all'orientale, con casacca di seta azzurra a ricami d'oro, ampie maniche e bottoni di rubini, calzoni larghi e lunghi stivali di pelle gialla a punta rialzata.
In testa portava un turbantino di seta bianca, con pennacchio fermato da un diamante grosso quasi quanto una noce e certo d'un valore inestimabile.
Il suo compagno invece, che stava appoggiato al bordo, spiegazzando nervosamente una lettera, era un europeo di statura pure alta, dai lineamenti fini, aristocratici, con occhi azzurri e dolci, ed i baffi neri che cominciavano già a brizzolarsi, quantunque sembrasse più giovane dell'altro.
Vestiva con molta eleganza, ma non all'orientale: giacca di velluto marrone, con bottoni d'oro, stretta ai fianchi da un'alta fascia di seta rossa, calzoni di broccatello e uose di pelle gialla con fibbie d'oro. Sul capo, invece del turbante, portava un ampio cappello di paglia di Manilla, con alcune nappine di seta rossa appese al nastro.
Già il veliero stava per passare dinanzi alla casetta bianca e all'albero dei segnali, presso cui stavano i due guardiani del faro e due piloti, in attesa di una richiesta, quando l'europeo, che fino allora pareva che non si fosse accorto ancora della vicinanza della stazione, si volse verso il compagno, che sembrava immerso in profondi pensieri.
– Sandokan, – gli chiese; – siamo entro il fiume e quella è la stazione dei piloti. Ne prenderemo uno?
– Non amo alcun curioso a bordo del mio legno, Yanez – rispose l'interrogato, alzandosi e volgendo uno sguardo distratto verso la stazione. – Sapremo trovar noi Calcutta anche senza piloti.
– Sì – disse Yanez, dopo un momento di riflessione. – Meglio conservar l'incognito. Non si sa mai: una indiscrezione può mettere in sospetto quel brigante di Suyodhana.
– Quando giungeremo a Calcutta, tu che l'hai altre volte visitata?
– Prima del tramonto di certo – rispose Yanez. – La marea monta e la brezza è sempre favorevole.
– Sono impaziente di rivedere Tremal-Naik. Povero amico! Perdere la sua donna prima, ed ora la figlia!
– La strapperemo a Suyodhana: vedremo se vincerà la Tigre dell'India o quella della Malesia.
– Sì – disse Sandokan, mentre un lampo gli balenava negli sguardi e la sua fronte si aggrottava burrascosamente. – Gliela strapperemo, dovessi sconvolgere l'India intera e annegare tutti quei cani di thugs nelle loro misteriose caverne. Che il nostro dispaccio sia pervenuto a Tremal-Naik?
– Un telegramma va sempre a sua destinazione; non temere, Sandokan.
– Dunque ci aspetterà?
– Penso però che sarebbe meglio avvertirlo che siamo già entrati nell'Hugly e stasera saremo a Calcutta. Ci manderà incontro Kammamuri per risparmiarci la noia di cercare la sua abitazione.
– Vi è qualche ufficio telegrafico lungo il fiume?
– Quello di Diamond-Harbour.
– La stazione dei piloti che abbiamo or ora oltrepassata?
– Sì, Sandokan.
– Giacché siamo ancora in vista, mettiamoci in panna; fa' staccare un canotto e mandiamo qualcuno. Un ritardo di mezz'ora non sarà una gran perdita. E poi penso che forse la casa di Tremal-Naik può essere spiata dai thugs.
– Ammiro la tua prudenza, Sandokan.
– Scrivi dunque, amico mio.
Yanez staccò un foglietto dal suo libriccino, levò da una tasca una matita e scrisse:

Ciclo di SandokanDove le storie prendono vita. Scoprilo ora