Cap. 13

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Atterrai morbidamente in mezzo alla mia stessa gonna, ma non riuscii a rialzarmi. Mi sembrava di avere le ossa delle gambe rotte, tremavo da capo a piedi e i denti mi battevano forte.
«Alzati!» Gideon mi porse la mano. Aveva rinfoderato la spada. Era insanguinata, me ne accorsi e rabbrividii. «Avanti, Gwendolyn! La gente ci sta guardando.»
Era già scesa la sera e ci trovavamo sotto un lampione da qualche parte nel parco. Un jogger con le cuffie alle orecchie ci passò accanto correndo con espressione stralunata.
«Non ti avevo detto di restare sulla carrozza?» Vedendo che non reagivo, Gideon mi afferrò per un braccio e mi fece alzare. Era bianco come un fantasma. «Ti sei comportata con grande leggerezza... hai corso un grave pericolo... » deglutì e mi fissò. «... E sei stata maledettamente coraggiosa.»
«Credevo che si sentisse quando si colpisce una costola», dissi battendo i denti. «Non pensavo che fosse una sensazione come... quando si taglia una torta. Ma quell’uomo non aveva ossa?»
«Certo che le aveva», rispose Gideon. «Però sei stata fortunata e l’hai colpito in un punto nel mezzo.»
«Morirà?»
Gideon scrollò le spalle. «Se la ferita era pulita, no. Ma la chirurgia del XVIII secolo non è certo paragonabile a quella di Grey’s Anatomy.»
Se la ferita era pulita? Che cosa significava?
Come faceva una ferita a essere pulita?
Che cosa avevo fatto? Forse avevo appena ucciso un uomo!
Questa consapevolezza rischiò di farmi accasciare nuovamente per terra. Ma Gideon mi teneva. «Vieni, dobbiamo tornare a
Temple. Gli altri saranno in ansia.»
Evidentemente sapeva con certezza in che punto del parco ci trovavamo, perché mi trascinò sicuro lungo il vialetto, passando accanto a due donne con i cani che ci osservarono incuriosite.
«Smettila di battere i denti, per favore. È un suono raccapricciante», disse Gideon.
«Sono un’assassina», replicai.
«Hai mai sentito parlare di legittima difesa? Ti sei difesa e basta. Anzi, per la precisione hai difeso me.»
Mi rivolse un mezzo sorriso e io mi sorpresi a pensare che soltanto un’ora prima avrei giurato che non sarebbe mai stato capace di ammettere una cosa del genere.
Infatti non lo era.
«Naturalmente, non era necessario...» precisò.
«E come se lo era! Come va il braccio? Sanguini!»
«Niente di grave. Il dottor White mi saprà medicare.»
Per un po’ camminammo affiancati in silenzio. L’aria fresca della sera mi faceva bene, pian piano il battito del mio cuore rallentò e anche i denti smisero di battere.
«Ho provato un tuffo al cuore, quando ti ho vista all’improvviso
», disse Gideon dopo un po’. Mi aveva lasciato il braccio. Evidentemente riteneva che fossi in grado di stare in piedi da sola.
«Ma perché non avevi una pistola?» gli rinfacciai. «L’altro uomo ce l’aveva!»
«Veramente ne aveva due», ribatté Gideon.
«Perché non le ha utilizzate?»
«Lo ha fatto. Ha sparato al povero Wilbour e mi ha mancato per un soffio con la seconda pistola.»
«Ma perché ha sparato una volta soltanto?»
«Perché ogni pistola ha un solo colpo, sciocchina», spiegò Gideon. «Le pratiche armi da fuoco che conosci dei film di James Bond non erano state ancora inventate.»
«Ora però le hanno inventate! Perché ti porti nel passato una stupida spada anziché una pistola come si deve?»
«Non sono un killer di professione», obiettò Gideon.
«Però... cioè, a che cosa serve altrimenti venire dal futuro? Oh! Ecco dove siamo!» Eravamo arrivati esattamente a Hyde Park Corner. La gente a passeggio, i jogger e i padroni di cani ci guardavano incuriositi.
«Prenderemo un taxi fino a Temple», disse Gideon.
«Hai dei soldi con te?»
«Certo che no!»
«Io però ho il cellulare», dissi ripescandolo dalla scollatura.
«Ah, lo scrigno argentato! Avrei dovuto immaginarlo! Razza di st... dammi qua!»
«Ehi, è mio!»
«E allora? Conosci forse il numero di telefono?» Gideon stava già pigiando sui tasti.
«Mi scusi, mia cara.» Una signora anziana mi tirò leggermente per una manica. «Non posso fare a meno di chiederglielo. Viene dal teatro?»
«Mmm, sì», risposi.
«Ah, ecco, lo immaginavo.» La signora faticava a tenere al guinzaglio il suo barboncino che tirava come un forsennato verso un altro cane a pochi metri di distanza. «Sembra così autentico. È stupefacente quello che riescono a fare le costumiste. Sa, da ragazza mi piaceva cucire... Polly! Non tirare così!»
«Vengono subito a prenderci», mi informò Gideon restituendomi il cellulare. «Ci incontreremo all’angolo con Piccadilly.»
«In quale teatro recitate?» domandò ancora la signora.
«Mmm, ecco, purtroppo stasera era l’ultima rappresentazione », risposi.
«Che peccato.»
«Già, proprio così.»
Gideon mi trascinò via.
«Arrivederci.»
«Non riesco proprio a capire come abbiano fatto a trovarci quegli uomini. Né da chi Wilbour avesse ricevuto l’ordine di portarci a Hyde Park. Non c’era stato tempo per preparare un’imboscata.» Gideon borbottava tra sé mentre camminava. Lì sul marciapiede eravamo oggetto di sguardi ancora più incuriositi che nel parco.
«Parli con me?»
«Qualcuno sapeva che saremmo stati lì. Ma come? Com’è possibile?»
«L’occhio di Wilbour...» Di colpo fui assalita da un violento conato di vomito.
«Che cosa stai facendo?»
Vomitai, senza tirare su niente.
«Gwendolyn, dobbiamo arrivare fin laggiù! Fa’ un respiro profondo e vedrai che ti passa.»
Mi fermai. Ne avevo abbastanza.
«Passa?» Sebbene avessi voglia di urlare, mi sforzai di parlare lentamente scandendo bene le parole. «Che cosa passa, che ho appena ucciso un uomo? Che oggi tutta la mia vita mi è passata davanti come un film? Che un insopportabile violinista arrogante, capellone e in calze di seta non abbia niente di meglio da fare che darmi ordini, anche se gli ho appena salvato la schifosissima vita? Se vuoi saperlo, trovo di avere tutte le ragioni per vomitare! E nel caso ti interessi: anche tu mi fai vomitare!»
Okay, forse l’ultima frase l’avevo pronunciata con voce stridula, ma solo un pochino. Di colpo mi resi conto quanto fosse liberatorio sfogarmi così. Per la prima volta durante quella giornata, mi sentivo veramente libera e anche la nausea di colpo mi passò.
Gideon mi fissava allibito, e la sua espressione mi avrebbe fatto ridere, se non fosse stata così interdetta. Ah! Finalmente ero riuscita a lasciarlo senza parole!
«Voglio tornare a casa», conclusi nella maniera più dignitosa possibile.
Purtroppo non mi riuscì di mantenere il contegno trionfale, perché il pensiero della mia famiglia mi riempì gli occhi di lacrime e mi fece tremare le labbra.
Accidenti, accidenti, accidenti!
«Su, non fare così», disse Gideon.
La sua voce sorprendentemente tenera mi diede il colpo di grazia. Cominciai a piangere senza riuscire a fermarmi.
«Ehi, Gwendolyn, mi spiace.» Gideon mi venne vicino, mi posò le mani sulle spalle e mi strinse a sé. «Che idiota a essermi dimenticato come devi sentirti», mormorò da qualche parte sopra il mio orecchio. «E pensare che ricordo bene la strana sensazione che provai la prima volta che sono saltato. Nonostante le ore di scherma. Per non parlare poi delle lezioni di violino...» Mi accarezzò i capelli.
Io singhiozzai più forte.
«Non piangere», disse confuso. «È tutto a posto.»
Non era vero. Era tutto spaventoso. Il frenetico inseguimento della notte prima, quando ero stata presa per una ladra, gli occhi agghiaccianti di Rakoczy, il conte e la sua voce gelida e la mano che mi stringeva la gola, e infine il povero Wilbour e l’uomo che avevo infilzato con la spada. E, come se non bastasse, il fatto che non mi riusciva mai di dire la mia opinione a Gideon senza scoppiare a piangere e dover essere consolata da lui!
Mi staccai bruscamente.
Santo cielo, dov’era il mio amor proprio? Mi asciugai le lacrime con il dorso della mano.
«Fazzoletto?» mi domandò, tirando fuori sorridendo dalla tasca un fazzoletto giallo limone bordato di pizzo. «Purtroppo nell’epoca rococò non c’erano ancora i fazzoletti di carta. Però te lo regalo.»
Stavo per afferrarlo, quando una limousine nera si fermò accanto a noi.
Dentro ci aspettava Mr George, la pelata lucida di sudore e, quando lo riconobbi, tutti i pensieri che mi vorticavano per la mente si placarono un po’. Vi rimase solo un’infinita stanchezza.
«Siamo quasi morti di paura», disse Mr George. «Oddio, Gideon, che cosa hai fatto al braccio? Sanguini! E Gwendolyn è sconvolta! È ferita?»
«Solo sfinita», ribatté asciutto Gideon. «La riportiamo a casa.»
«Non è possibile. Dobbiamo visitare entrambi e bisogna curarti al più presto la ferita.»
«Ormai non sanguino più, è solo un graffio, davvero. Gwendolyn vuole tornare a casa.»
«Forse non è ancora trasmigrata abbastanza. Domani devi andare a scuola e...»
La voce di Gideon assunse il familiare tono arrogante, ma stavolta non era rivolto a me.
«Mr George, è stata via tre ore, quanto basta per le prossime diciotto ore.»
«Probabilmente sì», riconobbe Mr George. «Ma è contrario al regolamento e inoltre dobbiamo sapere se...»
«Mr George!»
Mr George capitolò e, voltatosi, batté sul vetro divisorio, che si abbassò con un ronzio.
«Giri qui a destra in Berkeley Street», ordinò. «Facciamo una piccola deviazione. Bourbonplace 81.»
Tirai un sospiro di sollievo quando l’auto imboccò Berkeley Street. Potevo tornare a casa. Dalla mamma.
Mr George mi fissava serio. Il suo sguardo era carico di compassione, come se non avesse mai visto niente di più pietoso di me. «Si può sapere, in nome del cielo, che cosa è successo?» Io ero sempre in preda a una stanchezza mortale.
«La nostra carrozza è stata assaltata da tre uomini a Hyde Park», rispose Gideon. «Il vetturino è stato ucciso.»
«Mio Dio», esclamò Mr George. «Non riesco a capire, però ha senso.»
«Che cosa?»
«È scritto negli annali. 14 settembre 1782. Un Guardiano di secondo grado, James Wilbour, viene trovato morto a Hyde Park. Un colpo di pistola gli ha portato via mezza faccia. Il colpevole non è mai stato scoperto.»
«Ora sappiamo cos’è accaduto», osservò tetro Gideon. «Cioè, conosco la faccia del suo assassino, ma non il suo nome.» «E io l’ho ucciso», aggiunsi stordita.
«Cosa?»
«Ha conficcato nella schiena dell’aggressore la spada di Wilbour», spiegò Gideon. «Di slancio. Tuttavia non sappiamo se lo abbia davvero ucciso.»
Mr George sgranò gli occhi azzurri. «Che cosa ha fatto? »
«Erano due contro uno», mormorai. «Non potevo starmene lì a guardare.»
«Tre contro uno», mi corresse Gideon. «Di uno mi ero già sbarazzato. Le avevo detto di restare in carrozza, qualunque cosa fosse successa.»
«Non mi sembrava che avresti resistito ancora a lungo », osservai senza guardarlo.
Gideon tacque.
Mr George guardò dall’uno all’altra scrollando il capo. «Che disastro! Tua madre mi ucciderà, Gwendolyn! Avrebbe dovuto essere un viaggio senza pericoli. Un colloquio con il conte, in casa, senza rischio alcuno. Non avresti dovuto essere in pericolo nemmeno per un secondo. E invece avete attraversato mezza città e vi siete fatti assalire dai briganti... Gideon, per amor del cielo! Che cosa ti è saltato in testa?»
«Sarebbe filato tutto liscio, se qualcuno non ci avesse tradito.» Gideon ora sembrava adirato. «Qualcuno doveva essere al corrente della nostra visita. Qualcuno in grado di convincere questo Wilbour a condurci a un appuntamento nel parco.»
«Ma per quale ragione qualcuno avrebbe voluto uccidervi? E chi avrebbe dovuto sapere della vostra visita di oggi? Non ha senso.» Mr
George si morse il labbro inferiore. «Oh, eccoci arrivati.»
Alzai la testa. Eravamo proprio sotto casa nostra, tutte le finestre erano illuminate. La mamma mi aspettava da qualche parte all’interno. E anche il mio letto.
«Grazie», disse Gideon.
Io mi voltai a guardarlo. «Di che cosa?»
«Forse... effettivamente non avrei resistito ancora a lungo», riconobbe. Un sorriso storto gli passò sul viso. «Credo proprio che tu mi abbia salvato la pellaccia.»
Ah. Non sapevo cosa dire. Lo guardai in silenzio e mi resi conto che il labbro inferiore aveva ricominciato a tremarmi.
Gideon tirò fuori prontamente il suo fazzoletto di pizzo, che io stavolta presi. «Usalo per asciugarti il viso, altrimenti tua madre alla fine penserà che hai pianto», mi disse.
Voleva farmi ridere, ma in quel momento sarebbe stato impossibile. Se non altro mi impedì di scoppiare di nuovo in lacrime.
L’autista aprì la portiera e Mr George scese. «L’accompagno alla porta, Gideon, ci vorrà solo un minuto.» «Buonanotte», riuscii a mormorare.
«Dormi bene», rispose Gideon con un sorriso. «Ci vediamo domani.»
 
«Gwen! Gwenny!» Caroline mi svegliò scrollandomi. «Farai tardi se non ti muovi.»
Mi tirai la coperta sopra la testa. Non volevo svegliarmi, nel sogno sapevo benissimo quali terribili ricordi mi aspettavano, una volta lasciato questo beato stato di dormiveglia.
«Sul serio, Gwenny! Sei già in ritardo di un quarto d’ora!»
Strizzai gli occhi invano. Troppo tardi. I ricordi mi avevano assalito come... mmm... Attila tra i... mmm, vandali?
Ero davvero una schiappa in storia. I ricordi degli ultimi due giorni mi scorsero nella mente come un film a colori.
Tuttavia non ricordavo come fossi arrivata in quel letto, ma soltanto che la sera prima Mr Bernhard mi aveva aperto la porta. «Buonasera, Miss Gwendolyn. Buonasera, Mr George, sir.»
«Buonasera, Mr Bernhard. Ho riportato a casa Gwendolyn un po’ prima del previsto. La prego di porgere i miei saluti a Lady Arisa.»
«Naturalmente, sir. Buonasera, sir.» L’espressione di Mr Bernhard era sempre imperscrutabile quando richiuse la porta alle spalle di Mr George.
«Grazioso vestito, Miss Gwendolyn», mi aveva detto poi. «Tardo XVIII secolo?»
«Credo di sì.» Ero così stanca che mi sarei rannicchiata a dormire direttamente lì sul tappeto. Non avevo mai desiderato il mio letto con tanto slancio come in quel momento. Temevo solo di essere intercettata mentre salivo le scale da zia Glenda, Charlotte e Lady Arisa che mi avrebbero subissato di rimproveri, sarcasmo e domande.
«Mi rincresce, ma le signorie si sono sedute a tavola senza aspettarla. Però le ho preparato uno spuntino in cucina. »
«È davvero molto gentile da parte sua, Mr Bernhard, ma io...»
«Vuole andare a letto», concluse Mr Bernhard per me, mentre l’ombra di un sorriso gli illuminava il viso. «Allora le suggerisco di salire direttamente in camera da letto, le signore sono tutte nella stanza da musica e non si accorgeranno di lei se passerà silenziosa come un gatto. Poi avvertirò sua madre del suo ritorno e le porterò lo spuntino di sopra.»
Ero troppo stanca per sorprendermi della sua lungimiranza e premura. Mormorando soltanto un «Grazie molte, Mr Bernhard», ero salita su per le scale. Mi ricordavo solo vagamente del colloquio con la mamma e dello spuntino, perché ero già mezzo addormentata. Di sicuro non ero riuscita a masticare niente. Ma forse avevo mandato giù qualche cucchiaio di zuppa.
«Oh! Che bello!» Caroline aveva scoperto il vestito appoggiato a una sedia insieme alla sottogonna a balze. «Te lo sei portato dietro dal passato?»
«No, lo indossavo già prima.» Mi sollevai a sedere. «La mamma vi ha raccontato le stranezze che sono avvenute? »
Caroline annuì. «Non c’è stato bisogno che raccontasse molto. Zia Glenda ha brontolato così tanto che adesso anche i vicini lo sapranno di sicuro. Si è comportata come se la mamma fosse una vile traditrice, che ha sottratto il gene dei viaggi nel tempo alla povera Charlotte.»
«E Charlotte?»
«Si è rinchiusa in camera sua e non è più voluta uscire, nonostante le preghiere di zia Glenda. Zia Glenda ha urlato che adesso la vita di Charlotte è rovinata ed è tutta colpa della mamma. La nonna ha detto alla zia di prendere un tranquillante, altrimenti avrebbe dovuto chiamare un medico. E zia Maddy continuava a interrompere parlando dell’aquila, dello zaffiro, del sorbo selvatico e del campanile.»
«Deve essere stato proprio terribile», dissi.
«Terribilmente eccitante», replicò Caroline. «Io e Nick troviamo giusto che il gene lo abbia tu e non Charlotte. Credo che tu sia in gamba come Charlotte, anche se zia Glenda dice che hai il cervello piccolo come un fagiolo e non vedi a un palmo dal tuo naso. È così cattiva.» Accarezzò la stoffa lucida del corpetto. «Dopo la scuola puoi farmi vedere come ti sta il vestito?»
«Certo», risposi. «Se vuoi, lo puoi provare anche tu.»
Caroline ridacchiò. «È troppo grande per me, Gwenny! Ora mi sa che devi proprio alzarti, altrimenti non riuscirai a fare colazione.»
Mi svegliai del tutto solo sotto la doccia, e mentre mi lavavo i capelli la mia mente era concentrata sugli avvenimenti della serata precedente, per la precisione sulla mezz’ora (tale mi era parsa) che avevo trascorso a piangere lacrime e moccio tra le braccia di Gideon.
Mi ricordavo come mi aveva stretto a sé accarezzandomi i capelli. Nella mia disperazione non mi ero resa affatto conto di quanto all’improvviso fossimo vicini. Adesso però il ricordo era ancora più imbarazzante. Soprattutto perché lui, diversamente dal solito, era stato davvero carino. (Anche se lo aveva fatto solo per compassione.) E io che mi ero invece ripromessa di odiarlo fino alla fine dei miei giorni. «Gwenny!» Caroline bussò alla porta del bagno. «Apri! Non puoi restare in bagno in eterno.»
Aveva ragione. Non potevo restare lì in eterno. Dovevo uscire, affrontare questa buffa vita che di colpo mi ritrovavo. Chiusi il rubinetto dell’acqua calda e lasciai scorrere su di me quella fredda, sino a sciacquarmi via anche l’ultimo rimasuglio di stanchezza. L’uniforme scolastica era rimasta nel gabinetto di Madame Rossini, e due camicie erano da lavare, così fui costretta a indossare la seconda uniforme che ormai mi stava un po’ piccola. La camicia mi tirava sul petto e la gonna era un filo troppo corta. Chi se ne importava. Anche le scarpe blu dell’uniforme erano rimaste a Temple, perciò mi infilai quelle nere da tennis, anche se era proibito. Ma di sicuro il preside Gilles non sarebbe passato in rassegna nelle classi proprio oggi.
Non avevo più tempo per asciugarmi i capelli, così li strofinai alla meno peggio con un asciugamano e li pettinai. Mi ricaddero lisci e bagnati sulle spalle, senza più traccia dei morbidi boccoli che Madame Rossini era riuscita a creare come per magia.
Per un istante rimasi a guardare il mio viso nello specchio. Non avevo proprio l’aria riposata, ma di sicuro meglio di quanto mi aspettassi. Mi spalmai un po’ di crema antirughe della mamma sulla fronte e sulle guance. La mamma diceva che non era mai troppo presto per cominciare.
Avrei volentieri saltato la colazione, ma d’altro canto prima o poi mi sarebbe toccato incontrare Charlotte e zia Glenda, così tanto valeva farlo subito e non pensarci più.
Sentii le loro voci fin dal primo piano, ancor prima di entrare in sala da pranzo.
«Il grosso rapace è simbolo del male», stava dicendo la prozia Maddy. Accidenti! Di solito non si alzava mai prima delle dieci, era una gran dormigliona e considerava la colazione il pasto più inutile della giornata. «Vorrei che qualcuno mi desse ascolto.»
«Ma insomma, Maddy! Nessuno sa come interpretare la tua visione. Ce l’hai raccontata almeno dieci volte.» La voce di Lady Arisa.
«Giusto», confermò zia Glenda. «Se sento ancora una volta le parole uovo di zaffiro, mi metto a urlare.»
«Buongiorno», dissi.
Il mio saluto fu seguito da un breve silenzio durante il quale tutti mi fissarono come Dolly, la pecora clonata.
«Buongiorno, tesoro», disse poi Lady Arisa. «Spero che tu abbia riposato bene.»
«Benissimo, grazie. Ero molto stanca.»
«Di sicuro è stato un po’ troppo per te», lasciò cadere dall’alto zia Glenda.
In effetti era vero. Mi accomodai controvoglia al mio posto, di fronte a Charlotte, che non sembrava aver neppure toccato il suo pane tostato. Mi guardava come se la mia presenza le avesse definitivamente rovinato l’appetito.
Per fortuna la mamma e Nick mi sorrisero complici e Caroline mi offrì una ciotola di cornflakes con il latte. Dall’altro capo del tavolo la prozia Maddy mi salutò con la sua vestaglia rosa. «Angelo mio! Sono tanto contenta di vederti! Finalmente porterai un po’ di luce in questa confusione. Con tutti gli strepiti di ieri sera non si capiva niente. Glenda ha tirato fuori vecchie storie, di quando la nostra Lucy è scappata con quell’attraente giovane della famiglia de Villiers. Non ho mai capito perché tutti se la siano presa tanto per il fatto che Grace li abbia ospitati qualche giorno a casa sua. Pensavo che ormai fosse acqua passata. E invece l’erba ha appena fatto in tempo a ricrescere che ecco arriva un cammello a strapparla daccapo.»
Caroline ridacchiò sottovoce. Di sicuro si stava immaginando zia Glenda come un cammello.
«Questa non è una serie televisiva, zia Maddy», latrò zia Glenda.
«Per fortuna», ribatté la prozia. «Se lo fosse avrei perso il filo già da tempo.»
«È tutto molto semplice», osservò gelida Charlotte. «Tutti pensavano che avessi io il gene, in realtà ce l’ha Gwendolyn.» Scostò il piatto e si alzò. «Ora tocca a lei vedere che cosa l’aspetta.»
«Charlotte, fermati!» Zia Glenda però non riuscì a impedire a Charlotte di uscire dalla stanza. Prima di correrle dietro, gettò un’ultima occhiata maligna alla mamma. «Dovresti proprio vergognarti, Grace!»
«Quella lì è proprio arcigna!» esclamò Nick.
Lady Arisa fece un profondo sospiro.
Anche la mamma sospirò. «Ora devo andare al lavoro. Gwendolyn: siamo d’accordo con Mr George che oggi verrà lui a prenderti a scuola. Verrai fatta trasmigrare nel 1956, in uno scantinato sicuro, dove potrai fare i compiti con tutta tranquillità.» «Forte!» esclamò Nick.
Io la pensavo come lui.
«E dopo tornerai subito a casa», aggiunse Lady Arisa.
«Ma poi la giornata sarà già finita», obiettai. D’ora in avanti la mia vita sarebbe stata sempre così? Dopo la scuola a trasmigrare a Temple, per starmene seduta in una noiosa cantina a fare i compiti e poi a casa per cena? Che incubo!
La prozia Maddy imprecò sottovoce, perché la manica della vestaglia le era finita su una fetta di pane e marmellata. «A quest’ora bisognerebbe essere a letto, lo dico sempre. » «Proprio così», confermò Nick.
La mamma baciò lui, Caroline e me come tutte le mattine, poi mi posò una mano sulla spalla e mi disse sottovoce: «Se per caso incontrassi il mio papà, dagli un bacio da parte mia».
A queste parole Lady Arisa trasalì leggermente. Bevve in silenzio un sorso di tè, poi guardò l’ora e disse: «Dovete sbrigarvi, se volete arrivare a scuola puntuali».
 
«Prima o poi aprirò un ufficio come investigatore privato », disse Leslie. Avevamo deciso di saltare l’ora di geografia con Mrs Counter e c’eravamo infilate in due in uno dei bagni delle femmine. Leslie era seduta sulla tavoletta del cesso e teneva sulle ginocchia un grosso faldone. Io stavo con la schiena appoggiata alla porta ricoperta di scarabocchi a penna e incisioni. Jenny ama Adam, Malcom è uno stronzo, La vita è uno schifo, c’era scritto tra l’altro.
«Andare a caccia di segreti è la mia passione. Ce l’ho nel sangue», disse Leslie. «Magari all’università studierò storia e mi specializzerò in antichi miti e scritture. E poi farò qualcosa come Tom Hanks nel Codice da Vinci. Naturalmente sono meglio di lui e mi troverò un assistente veramente figo.»
«Fallo», replicai. «Sarà divertente. Io invece trascorrerò il resto della mia vita finendo ogni giorno nel 1956 in una cantina senza finestre.»
«Solo tre ore al giorno», precisò Leslie. Era al corrente di tutto. Sembrava che avesse colto molto meglio e molto più velocemente di me tutti i risvolti più complessi. Era stata a sentire tutto, compresa la storia degli uomini nel parco e l’incessante litania dei miei rimorsi di coscienza. «Hai fatto meglio a difenderti, piuttosto che lasciarti affettare come una torta», era stato il suo commento. E incredibilmente mi aveva aiutato più di tutte le assicurazioni di Mr George o Gideon.
«Vedila così», mi disse ora. «Se sarai costretta a fare i compiti in uno scantinato, se non altro non rischierai di imbatterti in raccapriccianti conti capaci di agire per telecinesi. »
Telecinesi era la definizione trovata da Leslie per la capacità dimostrata dal conte di strangolarmi stando a metri di distanza da me. Con la telecinesi, secondo lei, era possibile anche comunicare senza aprire la bocca. Mi aveva promesso di approfondire il tema quel pomeriggio stesso.
Aveva passato tutta la giornata di ieri e metà della notte a cercare su Internet notizie sul conte di Saint Germain e gli altri dettagli che le avevo riferito. Rifiutò i miei accorati ringraziamenti, dicendo che tutta quella storia la divertiva da morire.
«Dunque, questo conte di Saint Germain è un personaggio storico alquanto impenetrabile, non è nota con precisione neppure la sua data di nascita. Oscure sono anche le sue origini», mi raccontò, con espressione entusiasta. «A quanto sembra non invecchiava, cosa che alcuni attribuivano alla magia, altri a un’alimentazione equilibrata.»
«Ti assicuro che era vecchio», dissi. «Forse si manteneva bene, ma vecchio lo era di certo.»
«Allora ecco che abbiamo sfatato almeno una diceria», commentò Leslie. «Doveva avere una personalità affascinante, perché viene citato in molti romanzi e per certi circoli esoterici è una specie di guru, un eletto, una cosa così. Era membro di diverse società segrete, i massoni, i rosacroce e qualche altra, era un bravissimo musicista, suonava il violino e componeva, sapeva una dozzina di lingue e a quanto pare era in grado – tieniti forte – di viaggiare nel tempo. In ogni caso sosteneva di aver preso parte a eventi ai quali non avrebbe potuto presenziare.»
«Già, questo è vero.»
«Sì, una pazzia. Inoltre si dilettava di alchimia. Possedeva una torre alchemica in Germania, dove realizzava i suoi misteriosi esperimenti.»
«Alchimia... ha a che fare con la pietra filosofale, giusto? »
«Esatto. E con la magia. La pietra filosofale però non ha lo stesso significato per tutti. Ci sono quelli che la vogliono usare per creare l’oro, e questo ha portato alle aberrazioni più incredibili. Re e principi erano molto interessati a tutte quelle persone che affermavano di essere alchimisti, perché ovviamente erano tutti interessati all’oro. Nel corso dei tentativi per produrre l’oro, fu creata tra l’altro la porcellana, ma in genere non veniva fuori niente e per questo gli alchimisti spesso erano gettati in prigione oppure decapitati come eretici e traditori.»
«Peggio per loro», osservai. «Avrebbero dovuto fare più attenzione durante l’ora di chimica.»
«In realtà però gli alchimisti non volevano ottenere l’oro. Quella era solo una specie di copertura per i loro esperimenti. La pietra filosofale è piuttosto sinonimo di immortalità. Gli alchimisti pensavano che con gli ingredienti giusti – occhi di tartaruga, sangue di vergine, peli della coda di un gatto nero, ahahaha, no, è uno scherzo – dunque, con gli ingredienti giusti mescolati secondo i processi chimici giusti fosse possibile ottenere una pozione che rendeva immortali. I discepoli del conte di Saint Germain sostenevano che egli possedesse tale ricetta e per questo fosse immortale. In realtà le fonti affermano che morì in Germania nel 1784, però altrove ci sono testimonianze di persone che lo hanno incontrato molti anni dopo ancora in perfetta salute.»
«Mmm, mmm», feci. «Secondo me non è immortale. Ma forse vuole diventarlo? Forse è questo il segreto dietro il segreto. Quello che accadrà se il cerchio si chiuderà...»
«È possibile. Ma questa è solo una faccia della medaglia, quella propugnata da ardenti seguaci di teorie cospiratorie ed esoteriche, ansiosi di piegare le fonti a proprio vantaggio. Secondo i detrattori, invece, i miti sorti intorno alla figura di Saint Germain sono in gran parte frutto della fantasia degli ammiratori e delle sue abili messinscene.» Leslie sciorinò tutto questo ragionamento con tale convinzione ed entusiasmo che mi venne da ridere.
«Prova a chiedere a Mr Whitman se puoi scrivere un tema sull’argomento», le proposi. «Con tutte le ricerche che hai fatto, probabilmente potresti scrivere un libro intero. »
«Non credo che lo scoiattolo saprebbe apprezzare i miei sforzi», ribatté Leslie. «Dopotutto anche lui è un seguace di Saint Germain, tutti i Guardiani devono esserlo. Ecco, secondo me è lui il cattivo di tutta questa storia, mi riferisco a Saint Germain, non a Mr Scoiattolo. Ti ha minacciata e quasi strangolata. E tua madre ti ha messo in guardia da lui. Evidentemente sa più di quanto dice. E la sua fonte non può essere stata altri che questa Lucy.»
«Io credo che tutti sappiano più di quel che dicono», sospirai. «In ogni caso ne sanno tutti più di me. Persino tu!»
Leslie rise. «Considerami solo un prolungamento del tuo cervello. Il conte ha sempre mantenuto il massimo riserbo circa le sue origini. Di sicuro il nome e il titolo erano inventati. Potrebbe benissimo essere il figlio illegittimo di Marianna d’Asburgo, la vedova di Carlo II di Spagna. Sull’identità del padre esistono varie ipotesi. Secondo un’altra teoria, sarebbe figlio di un principe della Transilvania cresciuto in Italia dall’ultimo granduca de’ Medici. In ogni caso non c’è niente di comprovato e tutti brancolano nel buio. Ma noi due ora abbiamo una nuova teoria. »
«Dici davvero?»
Leslie alzò gli occhi al cielo. «Ma certo! Ora sappiamo che uno dei suoi genitori apparteneva alla famiglia de Villiers. »
«E come facciamo a saperlo?»
«Ma Gwen! Tu stessa hai detto che il primo viaggiatore nel tempo si chiamava de Villiers e il conte deve necessariamente essere membro legittimo o illegittimo di questa famiglia, lo capisci, no? Altrimenti i suoi discendenti non avrebbero quel nome.»
«Mmm, sì», risposi poco convinta. Tutta questa faccenda ereditaria non mi era del tutto chiara. «Secondo me però anche la teoria della Transilvania è plausibile. Non può essere certo una coincidenza che questo Rakoczy venisse proprio da lì.»
«Farò altre ricerche», mi promise Leslie. «Attenzione! » La porta dei gabinetti si aprì e qualcuno entrò. La sconosciuta – in ogni caso presumevamo che si trattasse di una lei – entrò nel gabinetto vicino a fare pipì. Restammo in silenzio finché non se ne fu andata.
«Non si è nemmeno lavata le mani», disse Leslie. «Che schifo. Per fortuna non so chi era.»
A poco a poco mi sentivo le gambe intorpidirsi. «Secondo te finiremo nei guai? Mrs Counter si sarà accorta di sicuro che non ci siamo. E se non l’ha fatto lei qualcuno di sicuro gliel’avrà detto.»
«Per Mrs Counter tutti gli alunni si somigliano, non si accorge di niente. È dalla prima che mi chiama Lilly mentre a te ti scambia con Cynthia. Niente di meno! No, no, questa roba è più importante della geografia. Devi essere preparata il più possibile. Più cose si conoscono del proprio avversario meglio è.»
«Se solo sapessi chi è il mio avversario.»
«Non puoi fidarti di nessuno», disse Leslie, usando le stesse parole di mia madre. «Se fossimo in un film, alla fine il cattivo sarebbe il personaggio più insospettabile. Ma siccome non siamo in un film io opterei per il tizio che ti ha strozzata.»
«Ma chi è stato a metterci alle calcagna quegli uomini neri a Hyde Park? Il conte no di sicuro! Lui ha bisogno di Gideon per rintracciare gli altri viaggiatori e prelevare loro il sangue per chiudere il cerchio.»
«Già, questo è vero.» Leslie si mordicchiò pensierosa il labbro inferiore. «Ma forse in questo film c’è più di un cattivo. Anche Lucy e Paul potrebbero essere i cattivi. Dopotutto hanno rubato il cronografo. Che mi dici dell’uomo in nero al numero 18?»
Scrollai le spalle. «Stamattina era lì come al solito. Secondo te anche lui potrebbe sguainare una spada?»
«No. Penso piuttosto che sia uno dei Guardiani e che se ne stia lì impalato come uno stupido solo per principio. » Leslie tornò a consultare i suoi documenti. «Non sono riuscita a trovare niente sui Guardiani come tali, questa loggia segreta sembra molto segreta. Ma alcuni dei nomi che mi hai citato – Churchill, Wellington, Newton – li ho trovati anche tra i massoni. Si può quindi supporre che le due logge abbiano almeno un legame. Su Internet non ho trovato niente circa un ragazzino annegato di nome Robert White, ma in biblioteca è possibile consultare tutte le edizioni del Times e dell’Observer degli ultimi quarant’anni. Sono sicura che lì troverò qualcosa. Cosa c’era ancora? Ah, sì, il sorbo, lo zaffiro, il corvo. . . dunque, potrebbero essere interpretati in molti modi e secondo le teorie esoteriche ogni cosa significa tutto e il contrario di tutto. Per questo non è possibile trovare definizioni affidabili. Dobbiamo cercare di basarci di più sui fatti piuttosto che sulle chiacchiere. Devi scoprire di più. Soprattutto su Lucy e Paul e sul motivo del furto del cronografo. Evidentemente sanno qualcosa di cui gli altri sono all’oscuro. O di cui non vogliono rendersi conto. Oppure di cui hanno un’opinione diversa.»
La porta si aprì di nuovo. I passi stavolta erano pesanti ed energici. E si diressero decisi verso la porta del nostro gabinetto.
«Leslie Hay e Gwendolyn Shepherd! Uscite subito e tornate in classe!»
Io e Leslie restammo in silenzio, perplesse. Poi Leslie disse: «Lei sa che questo è il bagno delle ragazze, vero, Mr Whitman?» «Conto fino a tre», ribatté Mr Whitman. «Uno...» Al tre avevamo già aperto la porta.
«Riceverete una nota sul registro», disse Mr Whitman fissandoci come uno scoiattolo severo. «Mi avete molto deluso. Soprattutto tu, Gwendolyn. Il fatto di aver preso il posto di tua cugina non ti dà il diritto di fare quello che ti pare. Charlotte non ha mai trascurato i suoi doveri scolastici. »
«Sì, Mr Whitman», risposi. Questo contegno autoritario non era affatto nel suo stile. In genere era sempre galante e al massimo qualche volta sarcastico.
«E adesso tornate in classe.»
«Come faceva a sapere che eravamo qui?» chiese Leslie.
Mr Whitman non rispose. Protese la mano verso il faldone di Leslie. «Questo, per il momento, lo prendo io!»
«Oh, no, non può farlo.» Leslie si strinse il raccoglitore al petto.
«Dammelo subito, Leslie!»
«Mi serve... per la lezione!!»
«Conto fino a tre...»
Al due Leslie consegnò a malincuore il faldone. Passammo un momento molto imbarazzante quando Mr Whitman ci spinse dentro la classe. Mrs Counter aveva preso come un’offesa personale la nostra assenza, perché per il resto della lezione ci ignorò apertamente.
«Avete fumato qualcosa?» si informò Gordon.
«No, scemo», gli rispose Leslie. «Volevamo solo parlare tranquille da sole.»
«Avete fatto forca perché volevate parlare?!» Gordon scrollò il capo. «Le femmine!»
«Ora Mr Whitman potrà esaminare con tutta calma i tuoi documenti», dissi a Leslie. «E allora saprà, allora i Guardiani sapranno che ti ho raccontato tutto. Sono sicura che è proibito.»
«Certamente», confermò Leslie. «Magari mi manderanno uno degli uomini neri per eliminarmi perché so cose che nessuno deve sapere...» Questa prospettiva pareva rallegrarla.
«E se non fosse un’idea poi così strampalata?»
«Allora... mi procurerò oggi stesso uno spray al peperoncino. Ne prenderò uno anche per te.» Leslie mi diede una pacca sulla spalla. «Forza, non prendertela! Non ci faremo intimidire.»
«No, non ci faremo intimidire.» Invidiavo l’incrollabile ottimismo di Leslie. Riusciva a vedere le cose sempre dal lato migliore.
Ammesso che ne avessero uno.
Dagli Annali dei Guardiani
14 agosto 1949
 
Ore 15-18. Lucy e Paul sono venuti a trasmigrare nel mio ufficio. Abbiamo parlato di ricostruzione
e risanamento urbano e dell’incredibile fatto
che alla loro epoca Notting Hill sarà uno dei quartieri più ambiti e chic della città. (Loro lo definiscono
«trendy».) Inoltre mi hanno portato un elenco di tutti i vincitori di Wimbledon a partire dal 1950.
Io ho promesso di versare gli introiti delle scommesse in un fondo per l’istruzione dei miei figli e dei miei nipoti. Inoltre ho intenzione di acquistare un paio di immobili fatiscenti a Notting Hill. Non si sa mai.
 
Autore: Lucas Montrose, adepto di terzo grado

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